I ponti di Genova. Appunti per provare a salvarsi tra le macerie di un paese intero.

Fri, 17/08/2018 - 09:37
di
Dario Firenze

Da due giorni si susseguono sui televisori, i computer e gli smartphone le notizie, le immagini, le dichiarazioni dopo il devastante crollo del ponte Morandi a Genova.

Tra le chiamate fatte a parenti, amici e amiche, compagni e compagne per sentire la rabbia, il dolore, l’amarezza; la stampa che diffonde immagini e articoli con il solito inquietante feticismo del cataclisma e ormai sempre più rare o inesistenti inchieste per indagare sull’accaduto e ascoltare la popolazione; le dichiarazioni politiche roboanti di un governo che non sa ancora se e come potrà (e soprattutto se vorrà) intervenire davvero sul fatto (e nel frattempo si rallegra della “buona notizia” dell’ennesimo respingimento in mare di una nave carica di migranti…), ma intanto persiste nella campagna elettorale permanente insieme a tutto l’arco parlamentare; i vertici di Autostrade (vedi alla voce famiglia Benetton) che negano che il ponte fosse pericolante, che “non sapevano” dello stato di sicurezza della struttura, che chiedono di non trarre conclusioni affrettate che potrebbero “avere riflessi sugli azionisti e gli obbligazionisti”.

Rimane un'enorme rabbia e un profondo disgusto.

Come in molti casi di disastri di questo tipo, dai terremoti in centro Italia, alle inondazioni da nord a sud, ai disastri ferroviari, non esistono fatalità, “errori”, “non sapevo”: ci sono solo la possibilità di guadagnare e fare profitto a costo delle vite di chi lavora e vive in quelle zone, o chi ci passa per caso.

Le nostre vite, di chi non poteva permettersi di viaggiare in business class, di chi andava a lavorare anche a ferragosto, di chi cercava un po’ di tranquillità con amici o parenti e invece muore, precipitando nel vuoto.

Per chi sta ai vertici, in questo caso di Autostrade Spa, noi rimaniamo i clienti paganti o la manodopera da sfruttare, non c’è sicurezza che tenga. Le nostre morti diventano rischi calcolati, danni potenziali da percorrere se bisogna avere margini di profitto.

E viene da pensare, e la rabbia sale ancora di più, che chi prova tutti i giorni a riqualificare ecologicamente i territori, metterli in sicurezza e renderli di nuovo vivi con l’autogestione e il mutuo soccorso oggi è sotto attacco come la fabbrica recuperata Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio e si trova addirittura in carcere come Massimo Lettieri, presidente della cooperativa RiMaflow, con accuse assurde e infanganti.
Mentre chi ha delle responsabilità dirette, palesi, su questi disastri, non fa altro che capire quanto scenderà il titolo azionario in borsa, chiede di non andare di fretta, mentre conta gli utili e riflette sul prossimo business plan.

I prossimi giorni saranno sempre più squallidi, in un dibattito politico vuoto tra ritiri delle concessioni (forse, boh, chissà), valutazioni costi/benefici, ripubblicizzazioni già passate in carreggiata, mentre si continua a cercare i dispersi, i morti aumentano giorno dopo giorno e ci sono centinaia di sfollati.

Ma forse, a partire dalla rabbia ma per andare oltre, può esistere un’alternativa concreta all’assistere impotenti a questo orrore: costruiamo solidarietà diretta con la popolazione di Genova, come venne fatto per la popolazione de L’Aquila, di Viareggio, di Amatrice e di tutte le popolazioni colpite da disastri mortali e criminali. Una solidarietà tra chi sa sulla propria pelle cosa significa morire così, o perché ne avuto esperienza personale in disastri simili o perché sa che poteva benissimo toccare anche a lui a lei, a schiantarsi da quel ponte.
Sosteniamo la possibilità che chi vive in quella zona, chi ha dei morti o la propria casa distrutta sotto le macerie di quel ponte, possa decidere cosa fare di sé, che le proprie necessità e quelle di chi vive a lavora a Genova e nei dintorni siano al centro. Impediamo la costruzione di una nuova “zona d’emergenza”, imparando la lezione dei terremoti in centro Italia e di chi ha lottato e continua a lottare in quei luoghi, dove il controllo “straordinario” della Protezione Civile e la militarizzazione del territorio diventano la nuova regola incontestabile, dove l’eccezione diventa legge, autoritaria e in funzione di nuovi profitti.

Sosteniamo la ricostruzione di una vita in quella zona che passi dall’azione e dai bisogni di chi ci viveva e ci vive, di chi è vittima di questo disastro.

In questi giorni squallidi, tra le macerie di un ponte che simboleggia lo stato del nostro paese, proviamo a ripartire dove nessuno guarda.

Una famosa frase di Angela Davis, filosofa e militante afroamericana, può esserci utile : “I muri ribaltati diventano ponti”.

Possiamo abbattere i loro muri disgustosi per ricostruire ponti attraverso la solidarietà tra chi sta in basso, per salvarci dalle macerie.

Facciamolo.