Verso lo Strike Meeting#4 Politiche migratorie e sfruttamento del lavoro migrante

Thu, 12/02/2015 - 17:35
di
Big Bill Haywood

Nell'indifferenza istituzionale rispetto alla gestione dei flussi migratori da una sponda all'altra del Mediterraneo le stragi di Stato continuano a mietere morti. Nel frattempo si fa di tutto per dimenticare il business della cosiddetta “emergenza immigrati” e dei campi rom che Mafia Capitale ha reso mediaticamente più chiaro ed evidente. Continuare ad indignarsi e denunciare l'ipocrisia nazionale ed europea, alla quale il premier Renzi e il Ministro Alfano non si sono sottratti, è assolutamente necessario ma non basta. Serve essere a supporto e dalla parte dei migranti, delle loro continue lotte contro le diverse forme del razzismo istituzionale, che si esprime attraverso il dominio e il controllo sulle proprie vite e sui propri corpi, e che si protrae col disciplinamento sociale nei rapporti di lavoro. Il loro protagonismo lo hanno ribadito con le rivolte all’interno dei Cie e dei Cara, nelle strade e campagne di tutt’Italia, come a quella di Rosarno nel gennaio del 2010, lo hanno sperimentato con ‘un giorno senza di noi’ del lavoro migrante del 1° marzo 2010 al quale è seguita l’esperienza dello sciopero bracciantile di Nardò nell’agosto del 2011 e quella più recente nel settore della logistica.

Per non limitarsi solo alle reazioni emotive e all'indignazione è necessario indagare come gli interventi legislativi, gli interessi economici e produttivi incidono sulle condizioni dei migranti e non solo. La vicenda dell’uccisione di Jerry Masslo nel 1989 portò alla luce il razzismo connesso allo sfruttamento dei braccianti agricoli migranti, quando il 20 settembre fu organizzato lo ‘sciopero nero’ di Villa Literno (Caserta) e il 7 ottobre convocata una manifestazione nazionale antirazzista a Roma, a cui parteciparono circa 200 mila persone. Da un punto di vista legislativo gli effetti di quella mobilitazione si ebbero con l’approvazione della legge Martelli, che ridefiniva lo status di rifugiato, prima di fatto riservato ai soli cittadini dell’est Europa, e introduceva una legislazione organica sull’immigrazione. Eludendo le rivendicazioni dei migranti, non si fece altro che ratificare anche in Italia quella che negli anni successivi si è rivelata una trasformazione epocale del diritto di asilo dopo la caduta del muro di Berlino. Con la Legge Martelli dell’89 in materia di immigrazione si afferma una maggiore rigidità della programmazione dei flussi e del regime delle espulsioni, producendo una netta distinzione giuridica e separazione di trattamento tra migranti regolari e irregolari. E’ un provvedimento che fa da apripista alla legge del '98, la Turco-Napolitano che irrigidisce ancora di più la distinzione tra migranti regolari e ‘clandestini’ con l’istituzione dei Centri di permanenza temporanea (Cpt), introduce maggiori restrizioni per l’ottenimento del permesso di soggiorno. Il cerchio si chiude con la legge Bossi-Fini del 2002 che introduce i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e lega l’ottenimento del permesso di soggiorno ad un contratto di lavoro o ad una quota di reddito prevista dalla legge. (si veda 'La normale eccezione' cap II Ed. Alegre 2011)

Le normative nostrane all’interno della ‘Fortezza Europa’ continuano a creare volutamente condizioni di precarietà nei percorsi di accoglienza e regolarizzazione dei migranti. I flussi migratori che si collocano all’interno dei processi di mobilità globale diventano sempre più funzionali al mercato del lavoro, alle sue esigenze di domanda di forza-lavoro usa e getta. Le istituzioni, ormai in concerto con i sindacati confederali e il mondo della cooperazione governativa, da più di un decennio dichiarano per decreto l'emergenza immigrazione. Lo decretano periodicamente i vari ministri degli Interni nonostante siano ben consapevoli che si tratta di flussi più o meno preventivabili e per cause di cui lo stesso ‘democratico e civile occidente’ è in gran parte responsabile. Esempio emblematico rimane l'emergenza umanitaria di protezione ed accoglienza temporanea per i migranti provenienti dai paesi del nord Africa (c.d. emergenza Libia), entrati in Italia tra il 1° gennaio e il 5 aprile 2011, per i quali si era delocalizzato alle istituzioni locali la gestione dei fondi per l’accoglienza, a cui è seguito a causa del suo fallimento un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 18 febbraio 2013, che stabiliva la cessazione di queste misure, attribuendole questa volta alle burocrazie locali del Ministero: prefetture e questure.

Il risultato è rimasto sempre lo stesso, una sorta di continua 'istituzionalizzazione della clandestinità' consistente nel confinare i migranti in un limbo di attesa, accompagnandoli nell'invisibilità. Che siano centri di prima accoglienza (Cpa) o centri per richiedenti asilo (Cara) si tratta ormai di veri e propri centri di detenzione. Al di là della loro effettiva capienza, i tempi di trattenimento in molti casi superano anche l’anno, a dispetto delle 2/3 settimane previste per ottenere una risposta per l’ottenimento della protezione internazionale/asilo politico. Gli stessi 'ospiti', appena possono, fuggono verso paesi che garantiscono maggiori prospettive di inclusione, dopo l’espletamento assai più rapido che in Italia appunto delle procedure per il riconoscimento dello status di protezione internazionale. E' così che si mettono in moto ulteriori flussi migratori invisibili che innescano sacche di business, traffico di persone che per sfuggire al razzismo istituzionale, ai vincoli sempre più restrittivi della libertà di circolazione, si fanno risucchiare nella ‘clandestinità’ per oltrepassare il confine. Dopo quello in Africa o Medio Oriente, dall'Italia o da qualche altro paese del Sud d'Europa, parte un secondo viaggio per ricongiungersi con l'affetto dei propri cari e/o raggiungere un altro Stato europeo che possa offrire più opportunità di vita e un minimo di welfare. Anche questo processo ancora una volta è innescato da un dispositivo legislativo, questa volta tutto europeo, ossia il Regolamento dell’Unione Europea 343/2003/CE, definito come trattato di Dublino II attualizzato con Dublino III, per cui la domanda di protezione internazionale si deve fare nel primo paese di arrivo in Europa, dove si è identificati attraverso il rilascio delle impronte digitali, a cui segue l'iter infinito del riconoscimento. Quando il risultato della Commissione territoriale è positivo il rifugiato è obbligato a stazionare nel paese ospitante, senza poter trasferirsi in un altro, se non per un tempo massimo di tre mesi. Ed ecco che una volta ottenuto lo status di rifugiato politico, con le sue politiche d'accoglienza arruffate anche il territorio italiano diventa una prigione a cielo aperto per persone in carne ed ossa, lasciate allo sbando quando sono previste politiche ad hoc, come lo Sprar. Il ‘Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati’ è stato istituito ai sensi dell’art. 32 della legge 189/02 ed affidato dal Ministero dell’Interno e all’ANCI mediante convenzione; prevede l’attivazione di servizi di accoglienza e integrazione per richiedenti e titolari di protezione internazionale mediante una serie di progetti gestiti a livello territoriale dai diversi enti locali che ne fanno richiesta. Il singolo Ente locale usufruisce di finanziamenti messi a disposizione dal Fondo Nazionale per le politiche e i servizi dell’Asilo e può decidere di affidare, a sua volta, l’erogazione dei servizi previsti ai vari “Enti Gestori”. Tali progetti, rivolti a richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione sussidiaria e umanitaria, hanno come obiettivi principali quelli di garantire misure di assistenza e di protezione della singola persona; favorirne il percorso verso la (ri)conquista della propria autonomia. Ma tutto questo il più delle volte rimane sulla carta o sulla presentazione dei vari siti web. Ormai la realtà della prima e seconda accoglienza parla di continui appalti (il più delle volte in deroga, dato il carattere emergenziale), voci di spesa, circolari governative e prefettizie per l’allestimento di campi, tendopoli, container.

A definire e disciplinare le gerarchie del razzismo istituzionale tra gli stessi migranti esiste anche il cosiddetto 'permesso di soggiorno a punti'. Entrato in vigore nel 2012 con un decreto dell’allora Ministro Maroni (e rivisto con una delega alle Prefetture nel febbraio del 2014), per una determinata categoria di migranti entrati in Italia dopo il 10 marzo del 2012 è stato introdotto l'obbligo a sottoscrivere un accordo di integrazione, consistente nella firma di una 'Carta dei valori', in cui ci si impegna a raggiungere nell'arco di due anni dalla firma un minimo di 30 punti per non perdere il permesso di soggiorno e non essere espulsi. Con le dovute distinzioni la ratio corrisponde a quella del programma della Garanzia giovani, in cui con la firma della Did (Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro) e con il principio di condizionalità per i giovani NEET tra i 15 e i 29 anni subentra l’obbligo a rendersi disponibile a farsi formare, ricollocare, ad accettare un eventuale posto di lavoro anche demansionato rispetto alla propria formazione, pena la perdita dell’opportunità stessa ad essere inserito nel mercato del lavoro, quindi ad essere occupabile. Sulla stessa base col ‘permesso di soggiorno a punti’ si stabilisce quali migranti possono conquistare il diritto di restare (o altrimenti ad essere espulsi) e in quale posizione nel mercato del lavoro, a seconda della loro capacità di adeguarsi alle esigenze delle imprese e alle regole della società.

Ma per il management delle politiche migratorie i vari dispositivi da modificare periodicamente rimangono delle sfaccettature da utilizzare per tenere a bada il livello di conflittualità e le rivendicazioni che portano con sé i soggetti migranti o per gestire l’indignazione dell’opinione pubblica e le voci più o meno autorevoli laiche o religiose che si alzano quando varie tragedie nel Mediterraneo o altrove fanno più eco rispetto ad altre. La sostanza strategica tuttavia rimane intatta. Seppur il governo delle migrazioni si fa più umanitario, l'Italia continua ad avvalersi strumentalmente della legge Bossi-Fini per tenere insieme, a seconda delle necessità, tre esigenze di fondo di fronte alle quali non si può fare a meno e che vanno tenute insieme e lungo un delicato equilibrio. Da un lato è necessario rassicurare i cittadini che i confini esterni e interni (il territorio) sono sorvegliati e le minacce di intrusione efficacemente governate se non contrastate. Ed ecco che si alternano politiche di gestione ‘umanitaria’ come quella di Mare Nostrum, a momenti di linea dura in cui si respinge o si interviene solo in gravi casi di pericolo come dispongono i vertici di «Frontex», la struttura dell’Unione Europea che ha il compito di pianificare le politiche dell’immigrazione condivise da più Stati membri. Dall’altra parte è necessario rientrare nel "vincolo liberale" delle democrazie occidentali per il rispetto della dignità umana. Ed ecco che qui entra in gioco l’utilizzo della retorica caritatevole e della pietà nei confronti dei migranti, che continuano ad essere considerati vittime silenziose ed ospiti transitori ai quali offrire servizi legali e burocratici, o oggetti culturali. Nel mondo di mezzo, quello che conta maggiormente, l’obiettivo di fondo rimane il ‘business dell’immigrazione’ e soprattutto lo screening di un'adeguata forza-lavoro all'interno della crisi dell'economia di mercato. Una crisi che in tutta Europa continua a chiedere braccia e menti flessibili, a basso costo, disponibili permanentemente, ossia occupabili per lavori principalmente dirty, dangerous, demanding (sporchi, pericolosi e pesanti); forza-lavoro da utilizzare e gestire in forma ‘idraulica’ nel mercato del lavoro, in base alla “pressione” che la crisi esercita sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita (da licenziare), a seconda dei picchi di produzione: si apre e si chiude così il rubinetto rispetto alle esigenze dell’economia di mercato.