#Staffetta Verso Idomeni #2 Makedonia

Wed, 01/06/2016 - 16:26
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Staffetta Verso Idomeni

“Makedonia, Makedonia…” è il nome di una nazione. Gli arabi lo pronunciano in questo modo, i greci pure.
Per noi è “Macedonia”, come se vi proponessero in un ristorante o in un bar un piatto di frutta fresca e vi chiedessero, “Volete la Macedonia?”. A questa domanda, potremmo rispondere sì, gustandone ogni pezzo, oppure potremmo rifiutare, preferendo qualcos’altro. Comunque avremmo una possibilità di scelta.

La Macedonia è a pochi chilometri da Salonicco. Con una macchina impieghereste un’ora. Tutta dritta, sulla superstrada, per una cinquantina di chilometri. Direzione Policastro, lasciandoci sulla sinistra Idomeni, un paesino di cinquanta anime. Potreste anche svoltare a destra e rifocillarvi alla trattoria “Asimenia”. Molti Italiani vanno lì ultimamente.
Per 15.000 persone però, fare tutto questo è impossibile. È impossibile attraversare il confine, è impossibile che possano prendere una macchina, che possano ordinare una Macedonia, che possano addirittura mangiare decentemente. Per 15.000 persone è impossibile vivere dignitosamente. Direzione Policastro, i muri della fortezza Europa e la bandiera della Macedonia che sventola in lontananza. LEGGI La situazione dopo lo sgombero

Bp station, un campo non autorizzato dal governo greco, una stazione di benzina occupata da duemila persone. Siriani e pakistani accampati, una tendopoli a cielo aperto. A poche centinaia di metri, la frontiera, con i suoi muri, le reti e il filo spinato, i militari che presidiano la zona, il mitra a tracolla e il binocolo. Siriani e pakistani, lo spartiacque è la stazione di servizio, ancora funzionante. In una palazzina diroccata, sfondata, totalmente squarciata, bucata con i cornicioni slabbrati e penzolanti, vivono in trenta. “Non abbiamo nulla, mangiamo quello che possiamo – Kawish, giovane pakistano, laureato in ingegneria – Aspettiamo che si decidano ad aprire le frontiere. Vogliamo proseguire il nostro viaggio”. Il fuoco accesso, la stanza rigonfia di immondizia si affaccia sul nulla, il fumo inonda e inzozza il corridoio, ingrossato dai calcinacci. A ridosso della strada, bambini che giocano con un pallone sgonfio. I Pakistani rischiano se vengono presi e rastrellati dalla polizia. “Se sgomberano il campo, ci imprigionano e ci deportano in Turchia…”. Nessuna scelta, nessuna possibilità e per quanto sia difficile, ignominioso e disumano, “preferiamo stare qui, che tornarcene dall’inferno da cui siamo venuti!”.

“Makedonia, Makedonia…” è una litania, un pensiero costante che rimbalza di bocca in bocca. La Macedonia è un concetto, è un’idea che costringe le migliaia di persone arroccate sulle montagne greche a preservare un senso indicibile di umanità. “Il governo greco non ci considera. Non abbiamo acqua, mangiamo a stento. Se non fosse per i volontari, non avremmo contatti con il mondo”. E il governo greco non sa fare altro che proclami. Giorgios Musalas, Ministro per le politiche migratorie del governo Tsipras, dichiara che “Procederemo con lo smantellamento degli insediamenti informali sorti qui intorno e tutto avverrà in maniera pacifica”. Niko Toskas, vice ministro per la Protezione del Cittadino, è dello stesso parere. Per adesso però, balbettando e inneggiando a soluzioni che storpiano un’emergenza umanitaria senza precedenti in un problema di ordine pubblico, non c’è posto, non esistono strutture, per “accogliere” le migliaia di profughi non ancora registrati.
“Makedonia, Makedonia…”

Sinatex Kavallari, campo militare. La zona industriale di Salonicco, un cimitero di ferraglia, le fabbriche sprangate con travi di legno. Con la crisi economica, il motore produttivo della Grecia è diventato un’accozzaglia di macerie. Con la crisi umanitaria, gli hangar e i magazzini sono stati riconvertiti in campi governativi. A Sinatex sono rinchiusi 250 curdi. Tre litri di acqua per un’intera famiglia, 10 bagni e 4 docce, il cibo scadente e scarso, due volte al giorno le derrate alimentari smistate sotto il sole. Il termometro segna trenta gradi, l’asfalto ribolle. “Dormiamo a terra, abbiamo una coperta ciascuno. Ragni e scorpioni dappertutto. Nessun dottore o medico” Narin, 28 anni, curda siriana. I volontari e gli attivisti non possono entrare dentro i campi militari. Solo organizzazioni governative. La polizia ci intima di rimanere davanti all’entrata. “Il supermarket dista da qui un’ora a piedi. Gli autobus non ci sono. Ci chiamano rifugiati, ma siamo in realtà dei detenuti”. La gente esce alla spicciolata, ci offre un bicchiere di chai e un morso di haubis, il pane arabo per eccellenza, molto simile alla nostra piadina romagnola. “Vorremmo andarcene da qui. Verremo dimenticati. Tutto rimarrà così”.

Sgomberare il campo di Idomeni. Ricevere gli 11 miliardi di prestito dall’Europa. Nello stesso giorno la Grecia di Alexis Tsipras ha speculato sulle vite dei suoi cittadini e dei rifugiati. Un gioco al massacro, dove non si vede una possibile fine, una possibile soluzione.

“Makedonia, Makedonia…” mentre entra in vigore l’accordo Ue – Turchia. “Makedonia, Makedonia…” mentre la Grecia si prepara ai rimpatri forzati, alle deportazioni. “Makedonia, Makedonia…”