Precarietà a tempo indeterminato: cosa nascondono gli ultimi dati sull'occupazione

Fri, 12/01/2018 - 16:36
di
Big Bill Haywood

Lo scorso 9 gennaio l’Istat ha rilasciato i dati relativi alla situazione occupazionale nel nostro paese per quanto concerne il periodo settembre – novembre.
A leggere le prime due righe del comunicato, non si può fare altro che gioire per la evidente e netta ripresa occupazionale, ed infatti si registrano due dati apparentemente confortanti: in primis vi è stato un amento della crescita occupazionale nel mese di novembre dello 0,3% in più rispetto ad ottobre; e, in termini generali, il tasso di occupazione sale al 58,4%, ossia si registra un aumento in termini assoluti dello 0,2%.
Se ci fermassimo ad una lettura superficiale di tali dati, potremmo sostenere che l’effetto Jobs Act comincia a dare i suoi frutti positivi, come tra l’altro da più parti asserito. Matteo Renzi, il presidente Gentiloni, nonché vari commentatori e testate giornalistiche hanno utilizzato toni entusiastici al fine di sottolineare il valore storico dei dati riportati dal bollettino Istat e non dovremmo fare che aderire a questi toni.

Tuttavia, ad una lettura del comunicato che va oltre la seconda riga, emerge in maniera cristallina la filosofia che sottende al Jobs Act, ossia: in aumento è solo la precarietà. Infatti su 497mila nuovi occupati che si classificano come dipendenti, nel periodo novembre 2016 - novembre 2017, 450mila sono a termine. Un balzo del 18,3% del lavoro precario che fa apparire modesta la crescita di soli 48mila posti a tempo indeterminato, pari a un aumento dello 0,3% nell'arco di un anno.
In crescita c’è lo sfruttamento, non di certo la qualità e la stabilità del lavoro.
Inoltre, volendo avere uno sguardo più ampio rispetto al trend occupazionale dall’introduzione del Jobs Act e del c.d. decreto Poletti, emerge come dal 2015 al 2017, secondo dati dell'Osservatorio precariato Inps, le assunzioni a tempo indeterminato sono calate da circa 2 milioni a 1,02 milioni, mentre quelle a tempo determinato sono cresciute da 3,4 milioni a circa 4 milioni.

Insomma, ha ragione Matteo Renzi a rivendicare il valore storico dei dati rilevati dall’Istat: in effetti, a distanza di due anni dalla definitiva distruzione del mercato del lavoro, possiamo sostenere che la condizione della precarietà a tempo indeterminato non era solo una infausta premonizione, ma è il risultato, perseguito da anni di politiche che hanno distrutto le tutele e le garanzie sul e del lavoro e che trova nella realizzazione del Jobs Act la perfetta chiusura del cerchio.
Ad una analisi attenta dei dati e dei flussi occupazionali degli ultimi tre anni, non è fuori luogo affermare che il negozio contrattuale principale per disciplinare i rapporti di lavoro, sta diventando il contratto a termine liberalizzato. Ed infatti con la liberalizzazione di tale contratto si ha un aumento repentino delle assunzioni a termine, nonché una diminuzione dei contratti a tempo indeterminato (compresi i c.d. contratti a tutele crescenti).
Ormai un contratto, qualificato giuridicamente per il suo carattere “speciale” e residuale, il cui utilizzo doveva essere subordinato a strette ed eccezionali necessità di natura temporale, attraverso l’eliminazione della causalità è diventato lo strumento principi della coercizione e dello sfruttamento nel lavoro.

Seppur l’articolo 1 del d.l. n. 34/2014, così come successivamente modificato dalla legge n. 78/2014 nella fase della conversione, ha confermato il contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro, ha previsto e disciplinato l’acausalità del citato rapporto di lavoro legandola alla natura stessa dell’istituto che attiene alla sua durata.
Innanzitutto un rapporto di lavoro può definirsi acausale quando non necessita obbligatoriamente della sua funzione economico-sociale da esso svolta. In generale, la acausalità sta a significare l’assenza di ogni motivazione o ragione che giustificano l’utilizzo del rapporto a tempo determinato anziché di quello a tempo indeterminato. Ciò aumenta in modo considerevole la sfera discrezionale del datore di lavoro il quale non è, pertanto, obbligato ad inserire nel contratto di lavoro le ragioni giuridiche e/o economiche che lo giustificano.
Invece, grazie all’abolizione della causale dai contratti a termine, si è avuto un rovesciamento di gerarchia tra il contratto a tutele crescenti che secondo il Governo Renzi doveva essere la forma privilegiata di contratto, in grado di dare stabilità e aumentare l’occupazione nel mercato del lavoro, e il contratto a tempo determinato acausale che di fatto risulta essere la forma privilegiata di negozio giuridico per disciplinare i rapporti di lavoro, in grado di garantire al datore di lavoro ampi margini di profitto, risparmiando sul costo del lavoro.
Inoltre, l’eliminazione della causa in questi contratti, rende anche estremamente complessa (se non impossibile) le possibilità di difesa sindacale e giudiziale da parte di chi lavora.

Se si vuole abolire la precarietà, non si può prescindere da una critica netta all’utilizzo del contratto a tempo determinato, vero e proprio contratto “principe” del mercato del lavoro.
In queste settimane, da più parti si sta avanzando la proposta di re-introduzione dell’art. 18 nei contratti, a prescindere dalla dimensione aziendale, ma se si vuole dare sostanza e efficacia a tale proposta, è fondamentale portare avanti una battaglia politica che punti ad abolire il contratto a termine, al momento il principale contratto che regola il mercato del lavoro.
Insomma, c’è ben poco da essere felici, i dati emessi dall’Istat non fanno altro che confermare che la precarietà a tempo indeterminato non è una infausta previsione ma una realtà con cui fare i conti giorno per giorno.