Karalò - antirazzismo a sfruttamento zero #3

Mon, 23/10/2017 - 18:14
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A cura di Marie Moise e Federica Maicucci

Riprendiamo dopo il weekend le nostre interviste ai progetti di autoproduzione e mutuo soccorso tra nativi e migranti.
Proprio in questo fine settimana, sabato 21 ottobre, un’importante manifestazione di nativi e migranti ha attraversato le strade di Roma, per rispondere alle nuove politiche dell’immigrazione e alla propaganda razzista, con un messaggio chiaro e netto: “Migrare non è reato”, e tanto meno lo può essere l’accoglienza, la solidarietà e la ricerca di una vita dignitosa.
Tra i partecipanti alla manifestazione, oltre all’associazione Mshikamano di cui abbiamo raccontato la settimana scorsa, abbiamo incontrato il collettivo Karalò, la sartoria autogestita da un gruppo di richiedenti asilo di un centro di accoglienza di Roma.
Se il nome vi suona familiare, forse è anche perché avete già letto l’intervista alla sartoria migrante Karallà, che ha preso il nome proprio ispirandosi all'esperienza romana. I percorsi paralleli ed intrecciati dei progetti di mutuo soccorso sono un’ulteriore dimostrazione che la lotta al razzismo ha bisogno di tessere legami di solidarietà reciproca per divenire efficace. Perchè chi innalza frontiere tra esseri gli esseri umani in base al paese di provenienza e al colore della pelle, distingue tra persone da sfruttare e persone da iper-sfruttare.
Karalò diventa allora uno modo concreto per dire che che solo quando la vita di chi sta ai margini avrà un valore, allora tutte le vite avranno finalmente valore.
Karalò lo fa capire, ma soprattutto lo fa.

Come si chiama il vostro progetto, qual’è il significato di questo nome?

Il nome del nostro progetto è Karalò, che significa “sarto” in lingua mandinga.

Quando e come è nato il progetto? Di cosa vi occupate e chi ne fa parte?

Karalò nasce tre anni fa, da un’idea di migranti e operatori del nostro centro di accoglienza che cercavano di portare avanti un progetto di sartoria all’interno dello SPRAR. Siccome realizzarlo lì era molto difficile, dall'incontro con i ragazzi e le ragazze di Communia - uno spazio occupato nel quartiere San Lorenzo a Roma - è nata l’idea di realizzare una vera e propria sartoria all’interno del loro spazio occupato.
Il gruppo di sarti ha cambiato più volte composizione: di noi che siamo qui, tre sono ci da due anni e uno da settembre scorso. Complessivamente siamo in quattro più un maestro sarto che spesso passa le giornate con noi per insegnarci nuovi modelli.
Siamo tutti ancora ospiti in centri di accoglienza e stiamo aspettando la decisione sull’ottenimento del permesso di soggiorno. Anche se non svolgono direttamente il lavoro di sarti, consideriamo parte del progetto anche i nostri amici che si sono avvicinati a Communia per motivi diversi (chi perché frequenta la scuola di italiano, chi perché è contento di aiutarci nel progetto in vari modi, come ad esempio nell’autofinanziamento cucinando cene africane), perché abbiamo creato un po’ tutti insieme quello che Karalò è oggi.
Grazie a questo posto abbiamo imparato il mestiere di sarto e ci occupiamo di prodotti di sartoria: abbigliamento, accessori, riparazioni. Ci occupiamo un po’ di tutto, a seconda delle richieste.

I migranti della vostra associazione hanno fatto altre esperienze di lavoro in Italia? Che differenza c’è tra queste e il lavoro all’interno del progetto?

Sì abbiamo fatto altre esperienze di lavoro, molto diverse dalla sartoria, non solo perché era proprio un altro tipo di lavoro (come baristi, lavapiatti, ambulanti, volantinaggi), ma anche perché Communia per noi è come una famiglia, in altri posti non è così.

Quali sono gli obiettivi del vostro progetto e le parole chiave su cui si basa il vostro lavoro?

Per noi è centrale capire come far evolvere il progetto, farlo andare avanti. Nel futuro ci immaginiamo Karalò come una sartoria più grande, un progetto di lavoro dove possiamo coinvolgere anche altre persone e farla diventare un progetto di autoimpiego. Le nostre parole d’ordine sono la parità tra soggetti che lavorano fuori dallo sfruttamento e la trasformazione del concetto di accoglienza, che non è un business ma deve essere un progetto di inclusione reciproca veramente reale.

Come lavorate per il sostentamento economico del progetto?

Partecipiamo a molti mercati locali e a volte anche fuori Roma, lavoriamo su commissioni che ci chiedono e facciamo anche riparazioni occasionali. Quando serve, ci finanziamo anche con cene africane che cuciniamo insieme alle persone di Communia durante le iniziative che vengono organizzate nello spazio.

Siete in relazione con altri soggetti e progetti?

Sì, in particolare collaboriamo molto con Jà – Serigrafia Migrante, un progetto di serigrafia nato a Genzano due anni fa. Finora abbiamo realizzato insieme tante borse serigrafate, sia per i mercati che per progetti più nostri, come i pacchi di Natale di Fuori Mercato che abbiamo realizzato lo scorso anno. Noi facevamo le borse, Jà le serigrafava, e all’interno c’erano tante autoproduzioni dei nodi della rete Fuori Mercato. Tantissime persone li hanno acquistati per regalarli ai loro parenti o ai loro amici.

Quali sono le difficoltà attuali nel lavoro che fate?

Una difficoltà è la mancanza di soldi, non poter acquistare materiale nuovo o riparare alcune macchine che non funzionano certe volte rende difficile il lavoro e lo rallenta molto. Riuscire a trovare fonti di finanziamento per il progetto non è sempre facile.