Cosa ci insegna la lotta di migranti e lavoratori del Centro Gerini

Sat, 28/05/2016 - 16:38
di
Big Bill Haywood

Giovedì 26 maggio un importante successo ha dato seguito alla mobilitazione della scorsa settimana: l'occupazione del centro Gerini da parte degli ospiti, in protesta per le condizioni del centro e per la negazione di ciò che gli spetta di diritto, si è legata direttamente alla vertenza delle operatrici e degli operatori della cooperativa “Eta Beta”. Da quattro mesi i loro stipendi sono in ritardo, causa mancanza di fondi da parte del Comune. Per la terza volta è stato convocato un presidio sotto il Dipartimento delle Politiche Sociali, questa volta più forte grazie alla presenza sia di operatori che di migranti, in reciproco sostegno per la medesima lotta.

Una delegazione è stata ricevuta dal Direttore della Direzione dell'Accoglienza e Inclusione Antonio De Cinti, il quale ha garantito una velocizzazione dell'emissione delle fatture stanziate per il sistema di accoglienza della Capitale, e quindi per le cooperative che lo gestiscono. Il totale ammonta a circa 1 milione di euro, da liquidare entro i prossimi 10 giorni. La stessa cooperativa “Eta Beta” si è impegnata a pagare entro la prossima settimana tutti gli stipendi arretrati.
Durante l'incontro, oltre alla situazione precaria degli operatori, sono state sollevate le problematiche legate al funzionamento del sistema di accoglienza a Roma: tale situazione ha ripercussioni sul servizio che gli operatori svolgono, impoverendo la qualità di vita degli ospiti dei centri e privando quest'ultimi dei diritti che come richiedenti asilo gli spettano. Operatori che lavorano senza retribuzione, ospiti che reclamano un'accoglienza dignitosa, carenza di servizi, di mediatori culturali e linguistici, ritardi nei pagamenti dei Pocket Money e della tessera Metrobus: questa non è accoglienza, questo non è lavoro.

Come già affermato in precedenza, la mobilitazione avvenuta sotto il Dipartimento delle Politiche Sociali, ha un valore particolare, non riconducibile al vecchio schema del "supporto alle lotte in solidarietà" tra soggetti diversi. Questa mobilitazione è il primo passo di un difficile, ma potenzialmente possibile, percorso di riconoscimento reciproco tra sfruttati, con l’obiettivo di riunire le rivendicazioni di lavoratori "nativi" e migranti, che seppur nelle differenze culturali, avendo storie radicalmente diverse, stanno tentando di riconoscersi come portatori di un destino comune, e quindi anche la lotta potrebbe, in potenza, diventare "comune".
La mobilitazione di giovedì 26 maggio è solo un primo piccolo esperimento di sindacalismo sociale, di messa in discussione delle forme, ormai stantie del sindacato (confederale e di base), dove grazie al protagonismo dei lavoratori e lavoratrici di "Eta Beta" e dei migranti dello Sprar Gerini, si è messa in campo un'azione sindacale che è andata oltre la difesa perimetrale della propria condizione specifica.

Tutto è cominciato con l'occupazione degli ospiti dello Sprar Gerini (avvenuto due settimane fa), per rivendicare condizioni migliori, momento in cui si era alzato un muro di incomunicabilità tra migranti e lavoratori (anch'essi in lotta). Grazie ad uno sforzo al confronto, all'ascolto, offrendo spazi e luoghi di connessione e di reciproco riconoscimento, stiamo cercando tutti insieme di rompere questa separazione (forzosa) tra subalterni, riuscendo, dopo tre giorni di lotta, di condivisione di esperienze e di vita in comune, ad individuare le cause e i responsabili della situazione di sfruttamento, di sofferenza e di assenza di diritti che migranti e lavoratori tutt'ora subiscono.

Questo è stato il presupposto necessario su cui si sta costruendo l'alleanza. Da questo punto di vista un ruolo fondamentale lo sta svolgendo la sartoria migrante, un luogo che ha avuto la capacità di rompere e mettere a critica il sistema dell'accoglienza, dove i migranti cercano di sperimentare l'autoproduzione, lavorando senza padroni, migliorando e acquisendo competenze, forme di autonomia, di autorganizzazione e di socialità.
In questa occasione la sartoria è diventata luogo di incontro ed organizzazione tra chi lotta contro un nemico comune, riscoprendo lo spirito che ha animato le cosidette "cameracce del lavoro" agli albori del movimento sindacale rivoluzionario di fine '800. Un luogo che ha l’ambizione di superare lo steccato dentro-fuori il lavoro salariato, quello tra migrante e nativo, tra militante e soggetto sociale di riferimento. Tentativo di rimescolare il politico ed il sociale, di ricomporre e non di sommare. Un incubatore sperimentale di autogesione ai suoi primi passi, fragile quindi, ma dirompente nella sua proposta politica.

Non abbiamo la presunzione di pensare di aver trovato la formula magica per riaprire un fronte di lotta che sul terreno del lavoro possa ricostruire una unità tra chi subisce gli effetti delle politiche d’austerity, pensiamo però di aver individuato dei piccoli strumenti utili per ricominciare a parlare un linguaggio comune, che possa unire ciò che questo sistema di sfruttamento divide. Il resto crediamo che lo debbano fare le lotte e l'autorganizzazione dei settori di classe.

Riprendere e riattualizzare alcuni strumenti del "vecchio" movimento sindacale e del mutuo soccorso conflittuale, che fa della cooperazione e del sostegno reciproco i propri assi di lavoro, insieme ad una capacità di lettura e di risposta alle "innovazioni" del mercato del lavoro e del regime della mobilità che le politiche neoliberiste stanno attuando, sono gli elementi imprescindibili della nostra cassetta degli attrezzi. Nel caso della sartoria si parte dai problemi materiali, come quello di produrre autonomamente reddito fuori dalla crisi e dal sistema di sfruttamento dell’accoglienza, ma lo si fa andando verso l’ignoto, rimescolando identità, stili di militanza, linguaggi… sapendo di poter fallire, ma con la consapevolezza di chi sta navigando verso la rotta giusta.