Quando tira aria di omonazionalismo, è ora di essere incivili!

Tue, 19/01/2016 - 18:48
di
Libera Voler*

Nelle scorse settimane mi è capitato che qualcun* mi chiedesse cosa pensassi della proposta di legge che disciplina le coppie omosessuali e se scendessi in piazza il 23 gennaio al grido patriottico di “svegliati italia! È ora di essere civili”.
A prescindere da quello che crede ognun* di noi sul matrimonio, ho sempre ritenuto che le leggi che estendono i diritti sono leggi per le quali battermi; certo credo che, piuttosto che il riconoscimento come coppia, meritiamo leggi che ci tutelano come singol* queer, l’accesso ai servizi, agli ormoni, a dei documenti che non umilino la nostra identità, la reversibilità anche fuori dal matrimonio, la cancellazione della legge 40, un obbrobrio che permette solo alle lesbiche più ricche di fare figli all’estero. So anche che questa legge è un passo indietro anche per chi da anni si batte per una lotta di retroguardia come quella per i PACS, ma come ho già detto ogni proposta di allargare i diritti, anche se in brandelli, sarà sempre la mia.
Però oggi non riesco proprio a trattenere questo disagio davanti ad una parola d’ordine che da giorni rimbalza ed un tricolore che non tarda a caderci addosso, evocando, nemmeno troppo lontanamente, quella forma di governance neoliberale che ormai nel 2007 Jasbir Puar ha definito omonazionalismo.

In questi giorni in cui in nome dello scontro di civiltà si perseguitano rifugiati e migranti nella nostra fortezza ed esplodono guerre in paesi non troppo lontani, questa parola, “civiltà”, non è un significante neutro, ma diviene una parola d’ordine attraverso la quale le retoriche dei diritti sessuali servono a costruire l’immagine di una nazione progressista e moralmente superiore rispetto a stati con leggi e legislazioni diverse e discriminatorie nei confronti delle persone LGBT. Le battaglie per i diritti civili, come quelle per l’aborto, per il diritto al voto, per la parità dei neri sono state battaglie che pretendevano il diritto di dis-ordinare l’ordine dello stato, fondato sull’esclusione. Qui, invece, piagnucoliamo ancora per sentirci protetti da questo tricolore, che oggi più che mai, non mi appartiene. Sara Ahmed, in The cultural politics of emotions, parla del nazionalismo delle minoranze come una forma di Amore non corrisposto: si vive nell’attesa di quest’amore, continuando a giurare fedeltà eterna e accumulando la frustrazione per tale forma di amore non corrisposto. Mi sembra che questa metafora parli bene dei/delle froc* italian* che continuano da anni a parlare di questa civiltà “prodotto tipico” italiano, e sebbene i pride si moltiplichino, sebbene le pretese si medino sempre a ribasso, questa coperta si fa sempre più corta e non ci copre tutt*. Ecco, adesso ho ancora più chiaro cosa mi disturbi di quest’immagine, che ancora investe su un immaginario domestico, privato, non destabilizzante per l’ordine della nazione, mi disturba il pensiero che i diritti siano come una coperta corta e mettendoci noi a difesa di questa civiltà razzista… forse avremo qualcosa in cambio.
Lo ribadisco, questo è tempo di pretendere più diritti, per tutt*. A fronte di una retorica che vorrebbe imporci ordine e disciplina e ci chiede di giurare fedeltà allo stato-nazione in cambio di una rassicurante normalità piccolo-borghese, è tempo di essere INCIVIL*!

*Fonte articolo: https://incrocidegeneri.wordpress.com/2016/01/19/quando-tira-aria-di-omo...