Il movimento delle donne: soggetto politico e strategia

Wed, 14/11/2018 - 15:34
di
Julia Cámara*

Durante gli ultimi tempi, chi di noi partecipa agli spazi del movimento femminista e segue i dibattiti teorici su quella che viene chiamata sinistra è stato assediato da una serie di articoli e pubblicazioni che cercano di sbrogliare la questione su quale sarebbe il soggetto politico del femminismo. Seppur con ovvie differenze, non si può fare a meno di sottolineare l'ironica e irritante somiglianza che questo dibattito ha con quello che ci ha tenuto occupati qualche tempo fa, vale a dire l'inseguimento, nel più puro stile Indiana Jones – epico, virile ed eroico – del soggetto politico della lotta di classe. Una nota generale dovrebbe essere valida per entrambe le polemiche: i soggetti hanno bisogno della prassi, si costituiscono nella lotta comune e a partire dalle esperienze concrete condivise. Non esiste alcuna identità essenziale da rivendicare senza la materialità delle pratiche.

Molte delle argomentazioni avanzate nel dibattito sul soggetto politico sono, a mio parere, riduttive e problematiche, e ovviano a molti dei dibattiti necessari e persino già presenti nel movimento (come la questione della decolonizzazione del nostro femminismo o l'articolazione di alleanze con i settori in lotta del lavoro femminilizzato) per limitare tutto a una o due problematiche. Propongono, forse, idee elementari che possono corrispondere ai presupposti ideologici di molte donne, ma a costo di ridurre approcci teorici ricchi e complessi a un paio di frasi twittabili, prive di ogni potenziale di comprensione e mobilitazione. Al contrario, credo che dobbiamo comprendere questo dibattito come indissolubilmente legato all'attuale momento di crisi globale e al cambiamento sistemico che attraversiamo, e al modo in cui l'oppressione patriarcale realmente esistente funziona e si riproduce. Solo in questo modo saremo in grado di comprendere il ruolo svolto dal movimento femminista internazionale e di adottare tattiche e strategie coerenti che includano tutte noi.

Alcune tracce per l'analisi

Nei prossimi paragrafi cercherò di dimostrare che, nell'attuale periodo di accumulazione per espropriazione, le donne costituiscono un settore strategico della classe. O, in altre parole, che siamo in grado di essere un soggetto politico strategico nella lotta contro il capitalismo [1]. Ciò non è dovuto a una specie di fraintesa accumulazione di oppressioni, né a una qualche identità originale data dal Capitalismo e, ancor meno, dalla biologia, ma risponde a una combinazione di diversi fattori che ci collocano in una posizione strategica da dispiegare nell'attuale fase di espansione capitalista neoliberista. Cercherò di spiegarlo e capire quali implicazioni ha questo per le pratiche e i discorsi del movimento femminista.

La contraddizione capitale/vita, accentuatasi negli ultimi anni con il rinnovato ricorso all'accumulazione per espropriazione dopo la crisi del 2007/2008, pone le donne in una situazione particolarmente complicata. Le politiche di aggiustamenti strutturali che distruggono i già precari welfare state degli stati della periferia europea e che hanno precedentemente devastato i paesi del Sud Globale, ci permettono di parlare di una crisi di riproduzione sociale che riguarda tutti gli aspetti della nostra vita e attacca tutti quei settori che non erano ancora stati incorporati nella logica del profitto. Le più colpite da ciò sono coloro il cui ruolo è precisamente riproduttivo in senso ampio: le donne. In questo contesto, le resistenze femminili (non necessariamente articolate come femministe in modo cosciente) si rivelano forti leve di transizione. Per spiegare questo mi affido a un concetto che considero particolarmente utile: quello della coscienza femminile.

Alla fine degli anni '80, nel periodo di ascesa della storiografia femminista e della Storia delle Donne, l'ispanista Temma Kaplan ha notato che le spiegazioni fornite dal marxismo e al femminismo classici non le erano utili per la comprendere il repertorio di azione collettiva adottato dalle donne in alcuni contesti di conflitto sociale. È allora che sviluppa il concetto di coscienza femminile, che si riferisce all'assunzione da parte delle donne del dovere di adempiere al loro ruolo sociale [2]. La coscienza femminile genera un sentimento collettivo di diritti e doveri, frutto dell'interiorizzazione del ruolo delle donne nella divisione sessuale del lavoro. Il risultato è l'identificazione generalizzata delle donne stesse con il lavoro riproduttivo che è stato loro assegnato e l'assunzione collettiva del dovere di preservare la vita.

La coscienza femminile è quindi, in origine, una coscienza conservatrice, poiché non cerca la trasformazione della società o dei rapporti di genere, ma l'esecuzione dei compiti che ne derivano. Nell'accettare questi compiti, tuttavia, le donne con una coscienza femminile rivendicano i diritti che i loro obblighi portano con sé, e la spinta collettiva necessaria per garantire questi diritti può sviluppare una forza che finisce per politicizzare le reti di relazioni di vita quotidiana. Quando sembra che sia in gioco la sopravvivenza della comunità, le donne attivano le loro reti di relazioni per combattere coloro o ciò che credono interferisca con il loro dovere di preservare la vita. Ponendo le necessità umane al di sopra delle altre esigenze sociali e politiche, e la vita al di sopra della proprietà, dei profitti privati ​​e persino dei diritti individuali, la coscienza femminile crea la visione di una società che ancora non è mai apparsa. È, quindi, una coscienza di transizione, con implicazioni politiche radicali e capace di produrre salti di coscienza in ampi strati di donne.

Nel corso della lotta per svolgere il ruolo che la società ha affidato a loro, alcune donne si scontrano frontalmente con un sistema, il capitalismo, che è radicalmente contrario alla vita. Questo non è un fatto né trasversale, né inerente all’identità individuale di donna, dal momento che non tutte le donne sono attraversate in egual misura dall'esperienza dell’espropriazione: sono le donne delle classi subalterne che incontrano maggiori difficoltà a riprodurre la vita e, quindi, quelle che sono più spesso costrette a repertori d’azione radicali. Il ricorso da parte delle classi alte a infermiere, balie, governanti e altre figure analoghe, ha storicamente scaricato le donne ricche dalle responsabilità riproduttive e dal lavoro di cura, articolando meccanismi differenti nella loro costruzione sociale come donne. L’attuale mercato privato di compravendita dei servizi, insieme alla femminilizzazione delle reti migratorie e alle cosiddette catene globali della cura, non responsabilizzano del mantenimento della vita le donne come classe o come gruppo sociale omogeneo, ma solo alcuni gruppi di donne.

La collisione tra la coscienza femminile delle donne di una certa estrazione di classe con la società realmente esistente fa sì che la loro lotta per la realizzazione del lavoro riproduttivo e di cura, di solito relegato all’ambito domestico e delle relazioni private, irrompa nello spazio pubblico, dando un significato politico alle reti della riproduzione.

Quali implicazioni ha questo per il movimento femminista?

Nel loro recente libro Storia delle Storie del Femminismo, Cinzia Arruzza e Lidia Cirillo suggeriscono un'idea interessante: le donne non esistono come soggetto politico permanente, piuttosto questo soggetto si costituisce puntualmente in quei momenti in cui la condizione sociale di donna è percepita da coloro che la esercitano come la principale causa di oppressione e discriminazione [3]. Ci troviamo oggi in uno di quei momenti.

Usando le parole di Nancy Fraser, "nell’attuale ondata di fermento femminista, molte di coloro che erano state donne in una forma prestabilita si sono ora convertite in donne, nel senso molto differente di collettività politica discorsivamente auto-costruita" [4]. In un certo senso è un processo di auto-enunciazione collettiva, in cui le donne si sono incontrate, unite, riconosciute l’una con l’altra a partire dalla presunta trasversalità dell’oppressione che condividono.

In maniera sintomatica, le rivendicazioni che sostengono questo fenomeno sono due: il diritto sui propri corpi (proteste per il diritto all'aborto nello Stato spagnolo, in Polonia, in Irlanda o in Argentina) e contro la violenza sessuale e il femminicidio. Ovvero, violenze che colpiscono, seppur con diverse forme concrete, tutte le donne. Forse l'esempio più evidente è quello della campagna internazionale #MeToo, che, anche se da un lato in Francia ha permesso di rivitalizzare il femminismo in modo tempestivo e su un piano generale è stato uno strumento per dare voce a migliaia di donne, inizialmente nasce dalle star del mondo di Hollywood.

Ci sono due rischi qui che sono profondamente legati l'uno all'altro, che cercherò di descrivere:

1. C'è una certa riscoperta di alcuni dei postulati del femminismo radicale degli anni '70, in relazione alla violenza sessuale, sotto lo slogan è una guerra (degli uomini contro le donne, a cui le donne devono rispondere). Questo, a parte la semplificazione che implica, rischia di sfociare in risposte punitive e di tipo repressivo-autoritario, in un femminismo legalista che punta a punire il crimine invece di trasformare le basi strutturali della violenza. La maniera in cui si è articolata la risposta sociale ai casi più mediatici di violenza sessuale sembra darci un avvertimento in questo senso. Forse il caso più evidente è quello delle mobilitazioni spontanee e massicce contro la libertà provvisoria per i cinque autori della stupro di gruppo di San Fermín, nelle quali la critica del sistema giudiziario e al carattere machista della sentenza è confluita con settori mobilitati contro la misura stessa della libertà provvisoria e per un irrigidimento legale delle sentenze.

2. Il secondo rischio è l'articolazione di un discorso che privilegia e propone in maniera totalizzante l'esperienza individuale di essere donna rispetto a condizioni sociali differenti, negando la complessità delle esperienze di oppressione e imponendo il mito della sorellanza universale (la sorellanza come sentimento primario [5]) in favore di coloro che già hanno avuto accesso allo spazio pubblico e ai circoli del potere. Vale a dire: un elitizzazione del femminismo, autocentrato sull'identità e sulla lotta per la rappresentazione, che non risponde ai problemi delle donne migranti, razzializzate, lavoratrici, o del Sud del mondo; tutte coloro che non hanno accesso all’autopromozione individuale né all’ascesa sociale, le cui condizioni di vita possono essere migliorate solo attraverso politiche che difendano la riproduzione sociale, che assicurino la giustizia riproduttiva e migliorino le condizioni di lavoro.

Ciò non significa che questi movimenti non siano importanti, ma dobbiamo essere capaci a muoverci in un qualche equilibrio tra la creazione e la promozione di nuovi modelli di rappresentanza, con l'entrata in scena di donne forti e capaci di affermarsi come riferimenti culturali (perché la rappresentanza conta) e un programma che includa tutte. A questo proposito, la decisione presa dalla Commissione 8M nell’incontro statale tenutosi di recente a Gijón, di dedicare una parte importante della prossima riunione al dibattito programmatico – in termini di rivendicazioni e contenuti – sembra andare nella direzione giusta. Perché questo mettere le donne al centro, questo Now the women e The future is female deve necessariamente passare attraverso un empowerment collettivo, contrapposto e radicalmente diverso dal concetto di empowerment individuale attraverso il successo personale che ci vende il neoliberismo e che è possibile solo a spese della subordinazione di altre donne.

Qual'è, quindi, la chiave?

Il femminismo globale ha giocato in altri casi un ruolo di compensazione o di distrazione per il neoliberismo, che dispiega strategie di purple washing o di riconoscimento formale di diritti che nascondono un aumento della disuguaglianza economica nel mondo. Riconoscere che gli antagonismi di genere, piuttosto che essere una divisione primaria, sono incorporati nelle dinamiche di riproduzione sociale e fanno parte di un sistema globale in cui si articolano e combinato con altri fattori, può aiutare a far luce sulle relazioni di oppressione tra donne e le differenze tra loro, questioni alle quali il femminismo radicale non fornisce una spiegazione adeguata.

Ci troviamo non solo in un momento di irruzione del movimento femminista mondiale, ma anche in una fase che potremmo definire di femminilizzazione della protesta. Dal movimento di Stop Deshaucios e le PAH (due movimenti per il diritto all’abitare) nello Stato spagnolo, alle mobilitazioni contro Trump negli Stati Uniti e contro Bolsonaro in Brasile, dalle occupazioni ambientali in Francia o in Germania, alle lotte per la sovranità alimentare e la difesa del territorio in America Latina e Sud-Est asiatico, gli attacchi sistematici contro il mantenimento della vita stanno spingendo le donne a scontrarsi collettivamente contro autorità politiche, economiche e persino fisiche (come ad esempio polizia ed esercito), spinte dalla legittima provenienza delle loro rivendicazioni e avanzando a partire dall’esperienza verso livelli di coscienza politica più sviluppata.

L'uso della coscienza femminile come strumento analitico ci consente di comprendere il ruolo delle donne come avanguardia strategica nelle lotte di un enorme potenziale di trasformazione in tutto il mondo. E questo avviene mentre, in parallelo, il movimento femminista si sta affermando come vettore di mobilitazione fondamentale in molti paesi, in grado di irrompere in momenti di forte riflusso e dissoluzione dei legami sociali e apportando intuizioni profondamente anticapitaliste.

Ecco, dunque, la chiave: costruire un femminismo che non parli solo di femminismo, che metta al centro la questione della riproduzione della vita e che porti il motto le nostre vite valgono più dei loro profitti alla sue conseguenze ultime. La campagna internazionale per lo sciopero femminista dell'8 marzo ha rivelato a noi donne l'enorme valore (nel senso strettamente economico) che la nostra stessa esistenza genera. Negli ultimi mesi, il movimento internazionale delle donne si è guadagnato il merito di non essere più un accumulo di richieste settoriali, dotandosi di una dimensione strategica e di un determinato orizzonte di rottura. Ci sono, naturalmente, molte altre questioni. Le lotte per la ridefinizione delle identità e l'accesso a spazi simbolici del potere sono importanti in quanto garanti di visibilità e potenziatori di un trattamento equo, ma ridurre a ciò il movimento femminista sarebbe negare il suo potenziale di trasformazione.

Questa è la potenzialità che attualmente ha il movimento femminista: mettere in discussione tutto. Se questo potenziale arriverà o no a svilupparsi, costituendosi come elemento di rottura del normale funzionamento delle cose, dipenderà tra gli altri fattori dalla nostra capacità di spingere in quella direzione.

Note
[1] Laia FACET: “Mujeres: sujeto estratégico”, Viento Sur, 11/08/2017, https://vientosur.info/spip.php?article12902
[2] Temma KAPLAN: “Conciencia femenina y acción colectiva: el caso de Barcelona, 1910-1918”, en James S. AMELANG y Mary NASH (eds.): Historia y género: las mujeres en la Europa moderna y contemporánea, 1990.
[3] Cinzia ARRUZZA e Lidia CIRILLO: Storia delle Storie del Femminismo, Alegre 2017
[4] Nancy FRASER: Fortune del femminismo, IBS 2014.
[5] Julia CÁMARA: “Sororidad y conciencia femenina: qué hermandad de mujeres para qué propuesta política”, Viento Sur, 09/08/2017, https://vientosur.info/spip.php?article12891

Julia Cámara è un'attivista femminista e militante di Anticapitalistas.

*Fonte articolo: https://vientosur.info/spip.php?article14343
Traduzione a cura di Marta Autore.