È ora di essere incivili, non di essere italiani

Wed, 20/01/2016 - 17:06
di
Mauro Muscio

Alcune riflessioni sull’omonazionalismo a partire dall'articolo di Libera Voler.

È ora di essere civili. #SvegliaItalia. Questo lo slogan che unirà le manifestazioni in circa ottanta piazze italiane il prossimo 23 gennaio in vista della discussione in Senato del ddl Cirinnà sulle unioni civili. Un disegno di legge che ha fatto discutere e che fino all’ultimo minuto, si prevede, lo farà ancora molto per il suo contenuto giocato al ribasso, frutto di mediazioni tra diverse aree politiche che, se da una parte ha lasciato insoddisfatte le associazioni lgbti, dall’altra si presenta come il primo grande passo per il raggiungimento di un’uguaglianza giuridica per le coppie omosessuali e lesbiche.
Numerose le critiche dagli ambienti cattolici, bigotti e conservatori pronti a scendere in piazza a fine gennaio, con la benedizione (soprattutto economica) della CEI, in un Family Day dai toni medievali, omofobi e sessisti. Successivamente forse avrà senso soffermarsi sulla manifestazione cattolica in difesa della famiglia tradizionale, sull’ipocrisia dei partecipanti e degli organizzatori e sulla strumentalizzazione politica che i partiti ne faranno, ma per ora credo sia utile soffermarsi sull’appuntamento di sabato 23.

In un articolo, condiviso su Incroci de-generi, Libera Voler espone una critica, abbastanza condivisibile, sulla scelta dello slogan e sull’utilizzo pericoloso e inappropriato del termine civiltà. Dico abbastanza perché non mi convince del tutto l’associazione che viene fatta con l’omonazionalismo. Le immagini che alcuni promotori del corteo del 23 hanno scelto per le manifestazioni, e che sono state immediatamente riprese e condivise sui social network da altre realtà, ossia le due coppie di donne e uomini bianche/i, con corpi normati, in un letto matrimoniale, copert* da un lenzuolo tricolore, ricordano in effetti la altre “classiche” immagini omonazionaliste.
Penso ai Pride di Amsterdam dove in testa ai cortei sfilano i rappresentanti del governo, della città e delle forze armate, o ancora penso all’immagine diffusa su Internet nel 2012 dalle Forze di Difesa Israeliane con due soldati uomini mano nella mano, ma credo ci sia una differenza significativa. Da una parte alcune immagini e fotografie sono una faccia di politiche nazionali volte a (omo)normalizzare le sessualità e a utilizzarle come dispositivo di coesione nazionale e, quindi, come ennesimo strumento di nuove emarginazioni interne e alibi per politiche imperialiste e/o antimigratorie. I soggetti protagonisti di questi dispositivi sono soprattutto i poteri politici ed economici e le istituzioni governative, con un discorso che riesce a convincere parte dell’associazionismo mainstream perché finalmente prende in considerazione le soggettività gay e lesbiche. In Italia non credo si possa parlare di un meccanismo di questo tipo. Manca un soggetto, il potere politico nazionale, e mancano le narrazioni politiche e culturali per cui si possa parlare di omonazionalismo.
Questo dato lo trovo significativo perché ci fa interrogare sull’evoluzione dei paesi occidentali a capitalismo avanzato e su come le politiche neoliberali trovino delle declinazioni diverse in base al contesto culturale e politico.

Se i fatti del Capodanno di Colonia hanno sollevato le destre europee, e non solo, nella difesa delle “nostre donne” contro l’invasione di migranti di cultura e religione islamica, lo stesso non si può dire per la questione omosessuale, che per esempio unisce il senso nazionale dei paesi del Nord Europa, come cultura da difendere contro l’immigrazione islamica, ma che non produce la stessa reazione nei paesi dell’Europa mediterranea o orientale. Il ruolo del potere politico nella costruzione degli schemi omonazionalisti è centrale. In Italia la questione omosessuale esiste, certo, e viene utilizzata da diverse parti politiche per i propri interessi elettorali. Così come esiste anche un meccanismo di normalizzazione delle sessualità e credo, in alcuni casi, anche di “omonormatività” delle identità sessuali, ma questo avviene più per impulso da parte dei poteri economici.
Moda, lavori fortemente “sessualizzati” in base all’orientamento sessuale, pubblicità di grandi marchi (si pensi ad esempio allo spot televisivo della Findus o a quello pubblicitario dell’Ikea [segnalo l’analisi interessante che Samuele Grassi fa di questa pubblicità gay friendly nel testo Anarchismo Queer, Edizioni ETS, 2013]) integrano e riconoscono pubblicamente la realtà lgbt, dando quella forma di legittimità che ci aspetteremmo dallo Stato ma che tarda a venire.

Trovo stimolante, e più corretto per il caso italiano, il rimando che Libera Voler fa a The cultural politics of emotions di Sara Ahmed, perché al centro si pone la frustrazione di un amore non corrisposto tra una minoranza, in questo caso quella lgbt italiana, per una nazione che non prova lo stesso sentimento, verso la quale però si continua giurare fedeltà in attesa di un amore che verrà. Allora il tricolore scelto per coprire i corpi delle coppie assume simbolicamente non solo il significato di un paese che raggiunge un traguardo – seppur minimo – per l’uguaglianza legislativa, ma anche un senso di appartenenza e di fiducia, quasi forse di gratificazione, verso questo Stato che finalmente – forse – ci ingloba.
Azzardo dicendo che è l’invidia nutrita da parte di alcuni rappresentanti dell’associazionismo italiano (ma non solo) verso l’amore che altri Stati mostrano verso la comunità lgbt, in buona parte corrisposto sotto forma di riconoscimento pubblico, politico e legislativo, a produrre un linguaggio del genere. Il dato significativo è questo, ed è preoccupante: una parte dell’associazionismo lgbt italiano vede quasi con invidia – più o meno inconsciamente – l’omonazionalismo di altri Stati come un traguardo da raggiungere, e se quindi lo Stato Italiano non produce discorsi e immagini con il tricolore come scenografia di due uomini che si baciano, come invece probabilmente potrebbero fare Israele o i Paesi Bassi, allora è qualche associazione o realtà lgbt a rivendicarsi un tricolore per riscaldare l’amore coniugale di una coppia lesbica o gay.

Il raggiungimento della parità dei diritti è sacrosanto, importante e utile al movimento, ma se precedentemente veniva sottolineata l’importanza di non farsi assorbire nei meccanismi dello Stato per non far disciogliere le potenzialità del movimento lgbt – avendo come monito appunto altri Stati occidentali oggi esempio di politiche omonazionaliste e di pink washing – in Italia parte del movimento lgbt usa gli esempi peggiori del depotenziamento e della strumentalizzazione di altri contesti nazionali per far pressione sugli apparati statali interni.
Indipendentemente dall’omonazionalismo, evidente è che il discorso usato ormai da troppi anni da parte del movimento lgbt per le proprie battaglie produrrà forse l’approvazione del ddl in Senato settimana prossima, ma a quale costo? Anni di battaglie per una legge giocata al ribasso che ancora più offende le nostre identità e i nostri orgogli, e che è la dimostrazione che le pratiche e gli strumenti che abbiamo adoperato non sono efficaci, che ridisegnarci come “buoni cittadini e cittadine italiani/e, come famiglie che pagano le tasse e come soggetti che amano secondo i canoni del romanticismo” ci porta a sperare in una legge due passi indietro rispetto ai PACS. Ha ragione Libera Voler, è ora di essere incivili perché la “civiltà” non paga, perché l’umiliazione, le violenze e le discriminazioni che abbiamo subito e che subiamo (e che subiremo) non si sconfiggono con una retorica borghese, moderata, corretta e morigerata. È ora di capire che la solidarietà e l’unione delle lotte nella prassi quotidiana e nei linguaggi politici sono l’unica coperta che può riscaldare i nostri corpi. È ora di essere incivili, non di essere italiani!