A qualcuno piace caldo... il clima

Fri, 15/04/2016 - 17:46
di
Ri-make, Collettivo Ecosocialista

Cara Michela Costa,
abbiamo letto il tuo articolo e ne vorremmo approfittare per articolare un ragionamento collettivo che esplichi il nostro punto di vista su di un tema che va ben oltre il referendum del 17 aprile.

Partiremmo dal principio della tua lettera: condividiamo in pieno che “Trivella tua sorella” sia un pessimo slogan nato sull'onda di un sessismo populista, difatti lanciato da un'agenzia di marketing che nulla ha a che fare con i comitati territoriali No Triv. Ma prima ancora di questo vorremmo cercare di capire una cosa. Ovvero, a chi stiamo parlando? Chi si cerca di far ragionare? Un indifferenziato popolo poco informato e/o incoerente, come Michela sembra considerarlo? Ma soprattutto... Perché il popolo apparentemente sembra essere così poco preparato? L’ignoranza è un’indole o una strategia politica degli ultimi 30 anni?
I tagli all’università, l'utilizzo dei mass media da parte degli establishment sistemici, una precarietà sempre più flessibilizzata che aliena tutti i lavoratori e le lavoratrici, evidentemente sono elementi che pervadono la nostra quotidianità. Noi crediamo nella forza dell’autoformazione di opinioni, possibile per ognun* utilizzando dei media e delle tecnologie non neutrali ma espropriabili. Nonostante questo crediamo che una certa fascia della popolazione che voglia informarsi abbia non poche difficoltà, vista la disinformazione dilagante causata da precise strategie del marketing neo-liberale.

Vorremmo anche aprire una piccola parentesi sulla parola “estremista”. Quanto è facile oggi essere denigrati come "estremisti"? Giudicare in modo così severo e pedante le contraddizioni degli individui in seno ad un sistema che fa della contraddizione celata la sua forza, come se gli usi e i costumi delle persone avessero la stessa incidenza sul pianeta di quelli delle compagnie petrolifere, non è altrettanto una forma di estremismo applicata ad una mentalità neopositivista? Anche perché spesso questi usi e costumi si formano attraverso mezzi di informazione come la televisione, la radio, un certo tipo di web, ecc. i quali sono spesso mossi da interessi economici imprescindibili.

Partiamo dal presupposto che prima le concessioni per le trivellazioni venivano fornite dalle regioni. Con il Ddl Sblocca Italia del Governo Renzi (diventato legge nel settembre del 2015 con l'approvazione del Piano di Stabilità) le cose cambiano, ovvero le regioni non hanno più potere decisionale. L’articolo maggiormente osteggiato dai comitati ambientalisti è il 38. Si tratta di una norma che taglia completamente fuori le Regioni, riportando in capo ai ministeri le autorizzazioni ambientali per le concessioni offshore.

Ma analizziamo i famosi 8 punti. Proveremo a dare una risposta al suo articolo punto per punto:

1) È vero, lo stop riguarda più il gas che il petrolio. Petrolio e gas estratti in Italia (tra terra e mare) servono a coprire la produzione del 10% dell'energia elettrica del nostro paese. Il gas e il petrolio estratti entro le 12 miglia nautiche servono a produrre rispettivamente il 3% e lo 0,8% dell'energia elettrica che ci serve. Queste piattaforme saranno ancora operative per un periodo che va tra i 5 e i 20 anni. Quindi votare Sì al referendum del 17 aprile di sicuro non causerà licenziamenti immediati, danni ingenti alle entrate dello Stato e alla produzione di energia elettrica. Di contro può essere un modo per far vedere a questo governo e all'establishment mondiale che siamo attenti alla questione energetica, contrariamente a quanto vorrebbero, visto che ci invitano a non votare e in sostanza a disinteressarci della questione.

Quello che si cerca di dare al governo è un segnale di grande volontà di cambiamento. Con la Cop21 (Conferenza delle parti sull'emergenza climatica), svoltasi a Parigi nel dicembre del 2015, gli stati di tutto il mondo hanno preso degli impegni per ridurre le emissioni di Co2 dichiarando che il cambiamento climatico è di natura antropica ed il nostro pianeta è in serissimo pericolo per la temperatura crescente dovuta principalmente alle emissioni di anidride carbonica (petrolio, gas, carbone) che stanno causando lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai, siccità crescente, migrazioni forzate.

Siamo consapevoli che tali dichiarazioni di intenti, in una trattativa in cui siedono allo stesso tavolo governi di tutto il mondo e multinazionali energetiche, siano quantomeno una pagliacciata per via dell'evidente influenza dei poteri economici sul processo decisionale. Ciò è dimostrato dai risultati delle ultime Cop, che sono sempre finite in un nulla di fatto, basandosi solo su delle autocertificazioni delle emissioni da parte dei paesi partecipanti, e spostando continuamente l'inizio di qualsiasi rinnovamento energetico di cinque anni in cinque anni. Il 2015 doveva già essere il termine ultimo per un cambiamento repentino, col rientro del riscaldamento globale nella soglia massima di +2C°, ma con la Cop21 del 2015 la dead line è stata nuovamente posticipata al 2025.

Come sostiene Pieter Tans “con 400 ppm, la concentrazione di Co2 nell’atmosfera è sostanzialmente più elevata di quanto lo sia stata per molti milioni di anni. Inoltre l’anidride carbonica non può essere rimossa dall’atmosfera, dagli oceani e da tutto il sistema della biosfera terrestre attraverso mezzi naturali se non su una scala temporale di molte migliaia di anni. Se noi fermassimo le emissioni adesso, l’eccesso di Co2 continuerebbe a essere ridistribuito tra l’atmosfera e gli oceani, ma non scomparirebbe. L’effetto di maggiori quantità di gas serra nell’atmosfera sul bilancio termico della Terra (così come su altri pianeti) è ben conosciuto anche dai fisici e dai chimici". L’implicazione è che "il cambiamento climatico è già programmato per un lungo periodo".

Non si tratta quindi solo di fermare l’estrazione di gas e petrolio, si tratta di dare un segnale forte a un governo che ha tolto sovranità alle regioni e che vuole avere il monopolio delle decisioni sulle politiche energetiche che riguardano non solo l’Italia ma l’intero pianeta, insieme agli altri paesi aderenti ai medesimi accordi economici (per esempio il Ttip). Il nodo centrale sta proprio nel processo decisionale, collettivo o meno. Il “chi decide?”, la cosiddetta governance, a chi è in mano? Un referendum è un passaggio essenziale per esercitare la democrazia, ma passa anche attraverso l'informazione del singolo cittadino.

2) Questo è un momento simbolico per l’Italia, in una periodo di inversione di tendenza in più o meno in tutto il nord Europa, ma ultimamente anche negli Emirati Arabi e nell'Arabia Saudita. Le alternative alle politiche energetiche basate sulle risorse fossili sono possibili, basta informarsi e smettere di delegare ciecamente le nostre politiche economiche ai governi che prendono accordi con le multinazionali. L’alternativa non deve essere l'importazione di energia dall’estero. L’alternativa è tentare di indirizzare le politiche ambientali legate a doppio filo con le politiche economiche, convinti di poter ancora incidere, di dare fastidio, a costo di essere tacciati di “estremismo”. Riguardo la frase "Il gas da qualche parte dovremmo andarlo a prendere", noi rispondiamo che ci opponiamo alle estrazioni, di qualsiasi tipo, rivendicando un piano economico che riduca la sovrapproduzione capitalista.

3) Come già spiegato in diversi articoli, secondo gli stessi promotori il referendum del 17 aprile è soprattutto un atto politico che serve a dare un segnale contrario all’utilizzo delle fonti di energia fossile. Il referendum non riguarda il divieto di effettuare nuove trivellazioni, che sono già vietate entro le 12 miglia, e che continueranno a essere permesse oltre questo limite anche in caso di vittoria dei Sì. Siamo consapevoli che il quesito referendario accettato (gli altri quattro sono stati cassati dalla legge di stabilità) possa essere strumentalizzato dai partiti all'opposizione, ma nasce da movimenti territoriali che intendevano porre freno ai provvedimenti più invasivi dello Sblocca Italia.

4) Partiamo da una citazione dell'articolo di Marina Forti uscito su Internazionale: “Se vincerà il sì [...] torneremo semplicemente a quanto previsto in precedenza dalla normativa italiana e comunitaria: tutte le concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi o di risorse minerarie, a terra o in mare, hanno durata di trent’anni, con possibilità di proroghe per altri complessivi venti. In altre parole, sarà cancellata un’anomalia. In effetti è insolito che una risorsa dello stato, cioè pubblica, sia data in concessione senza limiti di tempo prestabiliti (ed è per questo che la corte costituzionale ha giudicato ammissibile il quesito). Tra l’altro, è un privilegio accordato alle sole concessioni entro la fascia di 12 miglia, non a quelle a terra o in mare più aperto”. Inoltre, “La produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di smc (standard metro cubo) di gas. In questi giorni circolano molti dati, ma attenzione a non fare confusione. L’intera produzione italiana, a terra e in mare, arriva a circa sette miliardi di smc di gas e 5,5 milioni di tonnellate di olio greggio, secondo l’ufficio per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig) del ministero per lo sviluppo economico. Però la produzione nella fascia protetta delle 12 miglia, oggetto del referendum, è una parte minore del totale".

Sfruttare gli impianti residui rientra precisamente nel meccanismo di accumulazione che tende a sfruttare capitale umano e ambientale per estrarre profitti. Il problema è quindi alla radice, nel sistema economico basato sull'accumulazione. Basta leggere i punti dello Sblocca Italia per accorgersi che la trivellazione dei territori non si fermerà qui. Dopo questo referendum il dibattito non dovrà incentrarsi solo sul chiudere o meno le piattaforme, si dovrà ragionare in maniera complessiva sul tema delle estrazioni e sul non aprire nuove piattaforme. Questo referendum è solo un primo passo per iniziare ad opporsi collettivamente allo sfruttamento dei territori.

5) Il referendum è legittimo poiché nasce dalla mobilitazione e dallo studio di chi vive nei territori colpiti. La questione non è solo scientifica e ambientale, è soprattutto politica ed economica, con tutte le ripercussioni che l'economia ha sulla vita quotidiana. Bisogna partire dai bisogni di un territorio e di chi lo abita sentendo lo sfruttamento sulla propria pelle, decidendo di smontare gli immaginari tossici prodotti da una narrazione che fa acqua da tutte le parti.

6) Ci asteniamo dal dare un giudizio estetico. Pensiamo che la bellezza derivi in gran parte dal valore d'uso dell'oggetto in questione. Le pale eoliche possono essere considerate anti-estetiche per un territorio che fa del paesaggio il suo fiore all'occhiello. D'altra parte non crediamo certo che una bella piattaforma possa richiamare turismo, soprattutto se intorno ad essa fluttuano sostanze non a norma.

7) Quando si parla di "sismi" e subsidenza è necessario fare chiarezza. La subsidenza, sistematica nel Mare Adriatico, riguarda una piattaforma vicino Ravenna. Per quella piattaforma è in atto un procedimento a parte che nulla ha a che vedere con le questioni referendarie e che ne è molto antecedente. Tale piattaforma ha infatti sempre riscontrato altre problematiche strutturali che l'hanno resa a rischio sin da subito, evidentemente per scorretta progettazione o inesatti studi di fattibilità. Non confondiamo dei fenomeni particolari di natura territoriale con un ragionamento strutturale molto più ampio.

8) Siamo totalmente d'accordo: lo sfruttamento di altri territori per preservare il nostro non comporterebbe benefici per nessuno se non per la citata Eni. Siamo contrari a qualsiasi sfruttamento in qualsiasi territorio: sfruttamento da parte del libero mercato tanto di manodopera locale quanto di beni comuni di ogni tipo. I benefici ricavati dall'estrazione effettuata da queste piattaforme sono minimi (come già segnalato dai dati sopra citati), comportano ricavi risibili e non emancipano dalla dipendenza dalle energie fossili estere.

Chi deciderà di votare Sì al referendum è consapevole che questo è il momento adatto per ragionare tutt* insieme sul senso delle energie rinnovabili e fare parte del processo decisionale. Con l'attuale sistema produttivo capitalista qualsiasi conversione totale alle rinnovabili porterebbe in sé gli stessi danni dell'attuale modello energetico basato su combustibili fossili. La stessa produzione di pannelli solari ad esempio è ottenuta mediante petrolio e silicio, cosa che significa, su larga scala, un danno quasi equivalente a quello dell'attuale inquinamento dovuto all'uso delle vecchie energie.
Una conversione realmente efficace è possibile solo con cambiamento sistemico, un'uscita immediata dalle logiche di sovrapproduzione capitalista da cui deriverebbe una necessità energetica decisamente minore. Se per esempio non dovessimo alimentare milioni di auto, ma utilizzassimo trasporti pubblici efficienti, si potrebbe iniziare a risolvere il problema, ma così l'industria automobilistica non farebbe più profitti. In un sistema sostenibile si produrrebbero merci e servizi sulla base di bisogni reali e non indotti, e soprattutto tramite mezzi di produzione collettivi, senza padroni che si arricchiscono e senza danni ai territori. Bisogna riorganizzare la produzione per mettere la parola fine allo sfruttamento dell'ambiente, e si deve farlo ora.