COP21: nonostante lo spettacolo, il bicchiere è vuoto all’80%

Tue, 15/12/2015 - 12:39
di
Daniel Tanuro

Come previsto la Cop21 ha partorito un accordo, che entrerà in vigore a partire del 2020 se verrà ratificato dai 55 Paesi firmatari della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e se questi 55 Paesi totalizzano almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra. Considerando le posizioni emerse a Parigi, questa doppia condizione non dovrebbe sollevare difficoltà (ma la non ratificazione di Kyoto da parte degli Stati Uniti fa capire che le sorprese sono sempre possibili.)

“Molto al di sotto di 2°C”: Come?
L’accordo fissa l’obiettivo di mantenere l’aumento di temperatura al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C, riconoscendo che ciò ridurrebbe considerevolmente i rischi del cambiamento climatico.
Inoltre il testo afferma la volontà di raggiungere questi obiettivi nel rispetto del principio delle responsabilità comuni e differenziate, dei diritti umani, del diritto alla salute, del diritto allo sviluppo, dei diritti dei popoli indigeni, dei diritti delle persone disabili e dei bambini, dell’uguaglianza di genere, promuovendo “empowerment” delle donne come la solidarietà intergenerazionale, attivando l’importanza di una “transizione giusta” per il mondo del lavoro e tenendo conto delle capacità rispettive dei paesi.

Non si può che aderire a questi prese di posizione di principio, ma il testo dei 195 Paesi rappresentati alla COP21 non dà alcuna garanzia che esse saranno attuate. In più, e soprattutto, resta totalmente impreciso rispetto alle scadenze da rispettare affinché gli obiettivi climatici siano raggiunti: si accontenta di dire che “le parti cercano di raggiungere un picco mondiale nelle emissioni il più presto possibile e di raggiungere nella seconda metà del secolo, in seguito a rapide riduzioni delle emissioni secondo la migliore scienza disponibile, un equilibrio tra emissioni antropiche delle fonti e gli assorbimenti dei pozzi di gas a effetto serra”. L’anno di picco, il ritmo annuale delle riduzioni di emissioni dopo questo picco e il momento preciso tra il 2050 e il 2100, dove l’equilibrio globale emissioni/assorbimenti verrà realizzato, condizionano la stabilizzazione del riscaldamento climatico a questo o quel livello.

“Conciliare l’inconciliabile?”
Prendendo la parola davanti la plenaria dei partecipanti, il 12 dicembre, il presidente Francois Hollande si è rallegrato del fatto che la conferenza sia pervenuta a “conciliare ciò che sembrava inconciliabile” adottando un documento “a volte ambizioso e realistico”. “ L’accordo decisivo per il pianeta, ora l’abbiamo” ha concluso. Prima di lui s’era espresso, in quanto presidente di COP21, il ministro degli esteri Laurente Fabius, fiero di aver conseguito un risultato definito “il miglior equilibrio possibile”.
La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico risale al 1992. Si trattava di un tentativo molto insufficiente che si sarebbe poi sostanziato nel Protocollo di Kyoto. Da allora la sfida climatica contribuisce in maniera crescente a minare la legittimità del capitalismo e la credibilità dei suoi dirigenti politici. La COP21 di Parigi delinea chiaramente una vasta controffensiva, al fine di diffondere l’idea che il sistema, contrariamente a ciò che si dice, è capace di arginare la catastrofe che lui stesso ha creato e che i governi al suo servizio sono all’altezza della situazione.

Quelle e quelli, che non credono alla possibilità di un capitalismo verde, che non credono in particolare alla possibilità di salvare il clima senza rimettere in discussione la tendenza fondamentale del sistema alla crescita, hanno dunque interesse ad esaminare l’accordo di Parigi da questo angolo di visuale: la COP21 ha “conciliato l’inconciliabile?”. Il presente articolo riguarda principalmente questo aspetto. Ritorneremo ulteriormente su altri aspetti dell’accordo quali l’adattamento e il sostegno ai paesi del Sud.
Parigi ha dato torto ai terribili scorbutici pessimisti ed eco-socialisti? La risposta a questa domanda è “No”, almeno all’80%. Perché all’80%? Perché sulla base del lavoro degli esperti del segretariato della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (CCNUCC) si può affermare che un quinto appena del cammino per restare sotto i 2°C di riscaldamento climatico è stato fatto (e solamente sulla carta!!). Detto in maniera diversa, non è il caso del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto: il bicchiere è vuoto almeno per quattro quinti. Fondamentalmente la catastrofe climatica continua. Fondamentalmente la prova che le cose ritenute inconciliabili possano essere conciliate non è stata portata. Spieghiamo perché.

Tra l’accordo e gli INDC
Ci sono due elementi nella negoziazione: il testo adottato a Parigi, da una parte, e i progetti di “piani climatici” che ciascun Paese partecipante alla conferenza ha adottato e trasmesso al Segretariato della CCNUCC in vista della COP21, dall’altra. Nel gergo dei negoziatori questi progetti di piano climatico sono designati con l’acronimo INDC (sta per “ Intended Nationally Determined Contributions”- intenzioni nazionalmente determinate di contributi per il salvataggio del clima). Il testo adottato a Parigi pone certamente l’obiettivo di un riscaldamento inferiore a 2°C, possibilmente a 1,5 °. Ma gli INDC, che parlano di scadenze a decorrere dal 2025 o dal 2030, sono ben lontane dal raggiungere questo obiettivo; secondo le stime effettuate, potrebbero portarci ad un riscaldamento catastrofico di circa 3°C .
Questa contraddizione tra le dichiarazioni d’intenti dell’accordo e la realtà dei piani climatici dei Paesi firmatari dell’accordo non è un segreto. La mozione adottata a Parigi (come l’accordo propriamente detto), “insiste con seria preoccupazione sul bisogno urgente di affrontare il fossato significativo tra l’effetto associato alle promesse di mitigazione delle Parti in termini di emissioni mondiali di gas a effetto serra da ora fino al 2020 (da una parte) e le traiettorie di emissioni cumulate conformi con l’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature medio del globo ben al di sotto dei 2°C e di proseguire nello sforzo di limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C” (dall’altra).

Questo divario tra l’effetto delle emissioni cumulate degli INDC e gli obiettivi da 1,5°CC a 2°CC adottato a Parigi è stato studiato dal gruppo di lavoro ad hoc messo in piedi dalla COP di Durban per fare in modo di alzare il livello degli obiettivi della politica climatica (Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action). Il 30 ottobre 2015 nel quadro della preparazione della CO21, questo gruppo di lavoro ha consegnato un rapporto dettagliato al segretariato della CCNUCC.
In questo testo, la somma delle emissioni INDC alle scadenze del 2025 e 2030 è messa a confronto con le emissioni «business as usual» da una parte, e, dall’altra, con la traiettoria di riduzioni delle emissioni globali che dovrebbe essere seguita, secondo il GIEC; per avere il 66% di probabilità di mantenere il riscaldamento sotto i 2°C “a minor costo”; queste traiettorie costituiscono ciò che l’ultimo rapporto del GIEC chiama i “ least cost 2°C scenarios”.

Il metodo degli autori dello studio è semplice: prendono le emissioni «business as usual» come scenario di riferimento (0% dell’obiettivo 2°C) e il «least cost 2°C scenario» come obiettivo da raggiungere (100% dello obiettivo 2°C); ciò fatto esprimono la somma di riduzioni di emissioni proiettate dagli INDC in percentuale dell’obiettivo 2°C. Ecco la loro conclusione: “da questo confronto si stima che gli INDC possano ridurre la differenza tra le emissioni «business as usual» e gli scenari 2°C del 27% nel 2025 e del 22% nel 2030. Ecco perché abbiamo affermato prima che “il bicchiere della COP21 è vuoto all’80%”.
Non è d’altronde escluso che questa cifra dell’80% sia inferiore alla realtà. Infatti gli INDC meriterebbero di essere sottoposti ad un esame più dettagliato, con lo scopo di verificare se gli Stati non abbiano gonfiato le loro cifre per dare l’immagine di aver conseguito buoni risultati. Imbrogli di questo genere sono stati prodotti diverse volte nel dossier climatico (si pensi ad esempio alla maniera in cui gli Stati membri dell’UE hanno sovrastimato le emissioni delle loro industrie inquinanti, affinché queste potessero ricevere gratuitamente un massimo dei diritti di emissioni rivenduti con profitto). Il fatto che un buon numero di INDC siano fortemente basate sulle politiche di assorbimento della CO2, di riforestazione o di riduzione relativa delle emissioni, e poco sulle riduzioni nette di gas serra, induce a una legittima diffidenza. Ma lasciamo questo aspetto agli specialisti e guardiamo piuttosto come l’accordo di Parigi pensa di colmare il fossato tra gli INDC e l’obiettivo di un riscaldamento da mantenere tra 1,5 e 2°C.

Colmare il fossato?
Preliminarmente devo confessare che un punto del rapporto del GIEC resta per me inspiegabile: alla luce di una diagnosi sulla gravità del cambiamento climatico sempre più inquietante e di un fenomeno che progredisce molto più in fretta rispetto alla proiezione dei modelli, come è possibile che il picco delle emissioni mondiali di gas a effetto serra da rispettare per avere il 66% di possibilità di restare sotto il limite di 2°C sia stato posticipato nel tempo con una correzione così evidente dal 4° al 5° rapporto? Secondo il 4° rapporto, infatti, per non superare i 2°C di aumento, occorrerebbe arrivare al culmine delle emissioni al più tardi nel 2015 (oggi!), mentre in base al 5° rapporto sarebbe ancora possibile restare sotto i 2°C cominciando a ridurre le emissioni mondiali a partire dal 2020, dal 2025 e anche dal 2030 aumentando il grado di difficoltà. Suppongo che gli autori non abbiano semplicemente l’obiettivo di mantenere accesa la fiamma della speranza, bensì che vi sia una spiegazione scientifica a questo slittamento. Se così fosse, in ogni caso, questa spiegazione non è nota.

Comunque sia, ammettiamo che il picco delle emissioni compatibili con 2°C 0 1,5°C possa in effetti essere fissato solo nel 2025 o nel 2030 e ritorniamo alla nostra domanda: come l’accordo di Parigi intende colmare il fossato tra gli INDC e l’obiettivo di un riscaldamento ben inferiore di 2°C? La risposta è nel testo adottato: verificando ed eventualmente correggendo gli INDC ogni cinque anni, al fine di ricalibrare gli impegni e le misure per raggiungerli; ma questa revisione riguarderà unicamente la buona volontà delle parti perché l’accordo non è vincolante giuridicamente, né prevede alcuna penalità o sanzione. Sebbene la casa bruci è comunque incoraggiante presentare un impegno debole come un successo storico!

Una delle questioni importanti rimane quella del tempismo: l’accordo di Parigi entrerà in vigore nel 2020 e la prima revisione non avrà luogo che nel 2023. Per ricordare: ci sono voluti 8 anni per ratificare il Protocollo di Kyoto, che riguardava un piccolo numero di parti e non metteva in opera che riduzioni di emissioni irrisorie. Pensare che in meno di dieci anni, all’interno di un contesto in cui le tensioni politiche non fanno che crescere, 195 Paesi possano accordarsi sull’80% del cammino che devono ancora percorrere per salvare il clima, è come giocare alla roulette russa sul destino di centinaia di milioni di esseri umani e degli ecosistemi. E’ poco dire che la COP21 non smentisce l’analisi eco-socialista, al contrario la conferma: il sistema capitalista, quando entra in contraddizione con i limiti ecologi, non può che riprodurre l’essenza del problema che si trova ad affrontare, rendendolo sempre più complesso e pericoloso.

Avete detto “combustibili fossili”?

A proposito di pericolosità colui o colei che, giustamente, si ostinasse a credere che il 12 dicembre al Bourget sia avvenuto un miracolo, dovrebbe porsi ancora alcune domande:
• Come mai le parole o espressioni “combustibili fossili”,” industria”, “carbone”, “petrolio”, “gas naturale”, “industria dell’automobile” e altre anche cruciali per il posto che occupano, non appaiano una sola volta nel testo di Parigi? E come mai la parola ”energia” sia citata soltanto due volte in una stessa frase a proposito dell’Africa e una volta parlando di Agenzia Internazionale dell’Energia.
• Come mai le parole o espressioni “transizione energetica”, “sobrietà energetica”, “riciclaggio”, “riciclo”, “reimpiego”, “beni comuni”, “localizzazione” non siano mai state utilizzate? E come mai l’espressione “energia rinnovabile” sia impiegata una sola volta e unicamente a proposito dei Paesi “in via di sviluppo” (“l’Africa in particolare”)? E la parola ”biodiversità” sia stata utilizzata una sola volta? E il concetto di “giustizia climatica” appaia una sola volta, come “ importante per alcuni”, precisamente nello stesso capoverso che menziona la biodiversità e l’importanza della Terra Madre?

Queste lacune non sono frutto dell’azzardo ma il marchio di un progetto preciso, di una strategia capitalista che risponde alla sfida climatica. I climato-negazionisti stanno perdendo, almeno in apparenza, la partita anche all’interno della classe dominante e questo è un bene. Però sarebbe ingannevole considerare con sollievo l’accordo di Parigi come un ” segnale forte”: è in grado di cambiare “la pagina dei combustibili fossili”, di segnare la svolta verso una “transizione giusta”, come hanno detto alcuni? In realtà i responsabili del disastro, in linea generale il settore dei fossili e del credito, hanno in mano il timone.

Una svolta , ma quale?

C’è una svolta? Da un certo punto di vista potremmo dire di sì: vi è senza dubbio presa di coscienza, al più alto livello, del rischio maggiore, incalcolabile, che il riscaldamento climatico globale, se non è stroncato, fa pesare sulla società, la sua coesione e la sua economia (l’enciclica di papa Francesco è una manifestazione di questo fenomeno). E’ probabile che alcuni decisori capitalisti non si accontenteranno di utilizzare questa COP come un paravento per nascondere la catastrofe che la loro incuria ha prodotto dopo il vertice della Terra del 1992 e che essi si accorderanno per colmare il fossato tra gli INDC e ciò che è necessario per contenere il riscaldamento climatico al di sotto dei 2°C. Ma è molto poco probabile al contrario che questo obiettivo si concretizzi. Tra le varie ragioni va sottolineato che la svolta è iniziata molto tardi, il capitale fossile ha il piede sul freno e il mondo multipolare è dilaniato da rivalità interimperialiste feroci e senza leadership chiara.
In più, l’obiettivo non è tutto, c’è anche il modo. La “least cost 2°C scenario”, che ispira le strategie, fa ricorso non soltanto alle “energie dolci”, ma anche al nucleare, alla combustione dei fossili con cattura-sequestro del carbone, all’idroelettricità gigante e alla combustione della biomassa con “recupero del carbone”. Il 5° rapporto del GIEC si esprime in modo formale: senza queste misure, restare al di sotto di 2°CC non è veramente “redditizio”, i costi esplodono, i profitti sono minacciati! Sacrilegio!

Nella hit parade delle tecnologie da apprendisti stregoni la combustione di biomassa con recupero di carbone ha un costo importante. I suoi partigiani fanno il ragionamento che bruciando questa biomassa, stoccando la CO2 prodotta da questa combustione e coltivando un nuova biomassa da bruciare, che assorbirà altra CO2 dall’aria, si potrà non soltanto ridurre le emissioni ma anche diminuire lo stock di CO2 accumulato nell’atmosfera. Il ragionamento è impareggiabile! Ma l’enorme consumo di biomassa che questo progetto implica non può che distruggere a sua volta gli ecosistemi e le comunità umane che vi vivono. Ora è in questo senso che l’accordo di Parigi pone le basi. Per esempio annunciando un ampio “meccanismo di sviluppo durevole”. Dalla lettura del testo si capisce che si tratterà semplicemente di amplificare al massimo il “meccanismo di sviluppo proprio” di Kyoto, grazie al quale gruppi europei di case automobilistiche “compensano” le loro emissioni con investimenti nel Sud e con progetti “forestali” sulla pelle dei popoli indigeni.
Ecco “l’ambizione realista” descritta da Hollande al momento dell’apoteosi mediatica della COP21. Ecco il vero volto di ciò che alcuni si ostinano a salutare come la marcia verso il “capitalismo verde”. Guardiamo in faccia la realtà. Ciò che si compie in nome dello “sviluppo durevole” è anti-ecologico, antisociale, non salverà il clima e avrà bisogno sempre di repressione per stroncare le resistenze e far tacere le dissidenze.
Decretato con il pretesto di lotta antiterrorista, lo stato di emergenza poliziesco è ad ogni buon conto molto rivelatore di alcune tendenze nascoste di questa COP21.

* « COP21 : en dépit du spectacle, le verre est vide à 80% »
Traduz. di Giovanni Peta, revisione Simone Febbo