Nel frattempo Emiliano tenta di privatizzare l'acquedotto pugliese

Mon, 28/11/2016 - 15:45
di
Federico Cuscito

Mentre la Camera approva impunemente la legge popolare presentata dai movimenti per l'acqua pubblica, privata però dell'art. 4 che prevedeva come unica forma giuridica consentita per il servizio idrico integrato quella pubblica, in Puglia già da mesi si approntano strategie per privatizzare l'acquedotto più grande d'Europa.
Il futuro di Aqp Spa, società “in-house” di cui la Regione Puglia è azionista unico (forma giuridica che comunque resta privatistica), sembra sempre più nero, e soprattutto, sempre più distante dalla volontà popolare chiaramente espressasi con i referendum del 2011, quando il 52% dei pugliesi votò a favore della gestione pubblica dei servizi idrici integrati.

Nel 2018 scadrà la concessione della gestione del servizio, e quindi ogni scenario è plausibile. Inclusi i peggiori, come la gara di appalto a soggetti privati. Certo, ci sarebbe tutto il tempo di mettere al riparo l'acquedotto, e avviare una vera politica di ripubblicizzazione, e del resto Napoli insegna, con tutte le contraddizioni del caso, che non è impossibile. Ma la giunta Emiliano sembra, a giudicare dagli atti delle commissioni regionali e dalle notizie che circolano sui quotidiani e non smentite, che abbia intenzione di muoversi in direzione diametralmente opposta.

In pieno Agosto il consiglio regionale ha istituito un'agenzia regionale nuova di zecca che avrà il compito di affidare ad un gestore unico terzo lo smaltimento dei rifiuti, e quindi l'impiantistica, ovvero discariche, inceneritori, termovalorizzatori e tutto il peggio che possa venire in mente, esautorando di fatto gli Ato locali (L'Anci ha puntato i piedi su spazzatura e raccolta, che rimane saldamente nelle mani dei comuni, che non volevano rinunciare alle proprie clientele). La nascita della suddetta agenzia può essere letta in diversi modi. L'obiettivo primario, dichiarato senza troppa vergogna da alcuni consiglieri regionali del Pd durante la seduta, è quello di “spegnere i focolai delle proteste” nei territori contro gli impianti che vengono di volta in volta imposti. Effettivamente, per un comitato, un collettivo o un'associazione, che concentra la propria azione su una vertenza locale, contro una discarica, o contro un inceneritore, dati i rapporti di forza esistenti, è meno difficile ottenere una vittoria se la controparte è rappresentata da un livello istituzionale più “vicino”, quale può essere un'amministrazione comunale, rispetto ad un'agenzia regionale, che ha i propri uffici lontani 100 km dal territorio in questione, e che soprattutto non deve rispettare vincoli elettorali.

Il punto da evidenziare è che questo principio di centralizzazione dei poteri decisionali sulle politiche energetiche ed ambientali, è proprio alla base della riforma costituzionale su cui saremo chiamati ad esprimerci il 4 dicembre, per quanto riguarda le modifiche al Titolo V.
In pratica il Presidente Emiliano, che per motivi opportunistici, e di guerra tutta interna al Pd, si strappa le vesti contro la riforma Boschi, a livello regionale ne riproduce in sedicesimi gli aspetti fondamentali.

La cosa più inquietante, però, è che diversi dirigenti del Pd propongono che il famigerato “soggetto terzo”, che si occupi della gestione dello smaltimento regionale dei rifiuti sia proprio Aqp Spa, che si trasformerebbe così in una vera e propria multiutility, dando un deciso slancio al processo di privatizzazione totale della società. Non è un caso che una delle proposte iniziali fosse quella di far combaciare la nuova agenzia con l'Autorità Idrica Pugliese (l'ente che ha sostituito l'Ato, ereditandone le competenze) in un'ottica di “risparmio di soldi pubblici” (altre parole d'ordine ricorrenti nella comunicazione governativa, peraltro un po' fuori luogo se consideriamo che il consiglio regionale ha recentemente votato quasi compattamente per il taglio delle tasse sul proprio vitalizio).
Ma non basta. C'è un disegno più grande ed ambizioso peraltro in perfetta linea con il ddl Madia, confermato dai giornali e dalle stesse dichiarazioni di Emiliano durante la Fiera del Lavante alla presenza di Matteo Renzi: “Nell'interesse anche dell'intero Mezzogiorno d'Italia - disse in Fiera il presidente della Regione - intendiamo dare avvio e realizzare un percorso nel quale Aqp si trasformi in una holding industriale partecipata da quelle Regioni che intendano partecipare al progetto attraverso il conferimento delle rispettive partecipazioni azionarie nelle aziende regionali attive nell’acqua». «Un ampio progetto di aggregazione, prevalentemente delle regioni del Mezzogiorno d’Italia» .

L'accorpamento dei servizi idrici meridionali sotto l'egida di Aqp, ormai trasformato in holding e multiutility, sarebbe la pietra tombale su ogni speranza di ripubblicizzazione dell'acquedotto, e di conseguenza del rispetto dell'esito referendario del 2011, poiché si tratta di operazioni dalle quali è evidentemente difficile tornare indietro e che spalancano le porte ai privati in un futuro prossimo, specialmente alla luce delle politiche nazionali.

Le responsabilità della situazione attuale, comunque non ricadono esclusivamente sulla giunta Emiliano, ma anzi, soprattutto su chi l'ha preceduta. In dieci anni di governo, Vendola e la parte politica che rappresentava, avrebbero potuto blindare Aqp, avviandone una vera ripubblicizzazione, mutandone la forma giuridica da Spa ad azienda speciale. Invece è stata presa una direzione politica ben diversa e, peggio ancora, in maniera assolutamente consapevole: si è deliberatamente scelto lasciare tutto immutato, ben consci dello scadere dell'affidamento alla società in-house nel 2018, e del fatto che la patata bollente sarebbe stata nelle mani di altri. E' mancato il coraggio di difendere un servizio pubblico fondamentale ed il bene comune per antonomasia dalle mire delle lobby; assenza di coraggio toccabile con mano nelle tristemente celebri telefonate tra Vendola ed Archinà, responsabile rapporti con l'esterno dell'Ilva, nelle quali l'ex “rivoluzionario gentile” si prostrava, tra assicurazioni e risatine, ai piedi di un potentato economico che ha ucciso una città.

Eppure, le possibilità di cambiare l'andamento degli eventi non sono mancate. Nel 2010 un tavolo tecnico composto da esperti della Regione e il Comitato Pugliese Acqua Bene Comune aveva prodotto una legge regionale ad hoc per la definitiva ripubblicizzazione di Aqp. Era una legge che non parlava semplicemente di gestione pubblica, ma avanzava dei meccanismi di partecipazione dal basso e di gestione comune. Purtroppo la maggioranza decise di inserire alcuni emendamenti palesemente inammissibili, che portarono alla prevedibilissima bocciatura della legge da parte della Corte Costituzionale. Il testo è comunque ancora valido, e potrebbe rappresentare ancora oggi una base di partenza per riprendere quel percorso di ripubblicizzazione.
Le responsabilità più grosse però della giunta Vendola, riguardano il mancato rispetto dell'esito referendario per quel che riguarda il secondo quesito, e cioè l'eliminazione della remunerazione del capitale investito dalle voci della tariffa. Il governatore aveva la possibilità ed il dovere di far rispettare la volontà popolare, specie dopo essersi espresso a favore del sì come tutta Sinistra e Libertà, ma fece l'esatto opposto, rivendicandolo per giunta con orgoglio. Il 26 giugno del 2011, due settimane dopo il referendum, durante la presentazione del piano industriale di Aqp, ad un giornalista del Corriere del Mezzogiorno che gli chiedeva del perché non avesse detto in campagna elettorale che non avrebbe rispettato l'esito del referendum in caso di vittoria del sì, Vendola rispose in maniera surreale: “Perché nessuno me l'ha chiesto”.
Vedere oggi in tv esponenti nazionali e parlamentari di Sel, specie chi in quegli anni ricopriva incarichi istituzionali in Puglia, parlare di “acqua pubblica” e di referendum del 2011, appare quasi grottesco.

Insomma i governi regionali di centrosinistra hanno preparato il terreno ad una privatizzazione che sembra sempre più vicina.
Il sacrificio dei “beni comuni”, che eppure erano al centro di una narrazione tossica che ha presto perso ogni credibilità, e di una politica ambientale sempre genuflessa ai profitti delle lobby della grande industria ha prodotto una diffusa sensazione di scoramento, specialmente in chi aveva creduto nella cosiddetta “Primavera pugliese”.
Ciò ha comportato un maggiore riflusso di molti di quei soggetti provenienti dal mondo dell'ambientalismo e dell'associazionismo “verde” che si erano comunque spesi su alcune vertenze negli anni precedenti.
Cosa fare, allora, considerando la delicatissima fase che ovviamente non è solo pugliese?

Occorre una risposta che cerchi di superare forme e prassi che non sono più evidentemente efficaci. Provare a fare rete, dal basso, con chi prova a resistere a privatizzazioni, inceneritori, trivelle, ed altre deturpazioni ambientali, ma anche con chi lotta per i propri diritti, dal lavoro alla casa, sino alla libera circolazione, chi riapre spazi abbandonati e si riappropria di terre. Serve abbattere in primis certi vecchi compartimenti stagni, tenendo insieme le lotte in maniera organica in un'ottica anticapitalista, assolutamente imprescindibile.
Non basta più rivendicare una gestione pubblica delle risorse e dei servizi, ma immaginarne forme di autogoverno. Del resto ci sono collettivi di lavoratori e lavoratrici che sperimentano già diffusamente quelle forme in fabbriche occupate, come la RiMaflow, e nelle campagne come nei punti di distribuzione delle autoproduzioni agroecologiche nelle città, come nel caso delle esperienze di Sfuttazero in Puglia, Mondeggi a Firenze, e tantissime altre nel resto d'Italia.

Occorre insomma una risposta adeguata all'offensiva che i territori stanno subendo: ambiziosa quanto necessaria.