Glifosato, la scienza intossicata

Tue, 23/08/2016 - 12:53
di
Silvio Paone

Se gli uomini di scienza non reagiscono all'intimidazione dei potenti egoisti, la scienza può rimanere fiaccata per sempre. E quando, coll'andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall'umanità.
Bertolt Brecht

È notizia recente quella dell'emanazione da parte del Ministero della Salute di un decreto che limita l'utilizzo dell'erbicida glifosato sul territorio nazionale. Nello specifico, il Ministero ne vieta l'utilizzo nella fase precedente alla raccolta, e sui territori urbani. Il glifosato, infatti, dalla data della sua apparizione sul mercato, nel 1977, è divenuto l'erbicida più utilizzato al mondo, tanto in campo agroalimentare, quanto per le normali procedure di manutenzione di aree urbane e private.
Questo sulla base di una sua presunta bassa tossicità per l'uomo e di una scarsa penetrazione nel terreno, che dovrebbe rendere irrilevante la contaminazione delle falde acquifere. Ma anche e soprattutto per l'azione di Monsanto, l'azienda che per prima ha commercializzato questo erbicida.

La Monsanto, infatti, colosso mondiale dell'agrobusiness, ha detenuto fino al 2001 il brevetto sull'erbicida, ed ha agito in condizioni di sostanziale monopolio per decenni su questo specifico settore del mercato. Nonostante il brevetto sia scaduto la Monsanto continua ad essere l'azienda leader a livello mondiale nella produzione di glifosato. E i suoi profitti sono saliti alle stelle da quando ha introdotto sul mercato varietà di piante resistenti all'erbicida, che permettevano dunque di eliminare da un terreno selettivamente le piante infestanti. Le conseguenze dell'utilizzo estensivo del glifosato sono piuttosto ovvie. Una drastica riduzione della biodiversità e l'emergere di piante resistenti all'erbicida sono fenomeni diffusissimi, soprattutto in America, dove il glifosato viene utilizzato in maniera particolarmente massiccia.

La decisione del Ministero della Salute si colloca all'interno di un lungo e complesso dibattito a livello europeo. Dopo mesi di tentennamenti, infatti, l'Europa ha deciso di prolungare la commercializzazione del glifosato solo fino a fine 2017, per poter poi decidere i termini del futuro utilizzo del composto. Queste difficoltà non sono casuali. Infatti la decisione dell'Europa è basata sulle conclusioni tratte da due studi sulla pericolosità dell'erbicida per la salute umana. Uno, svolto dalla IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro), ha incluso il glifosato tra le possibili sostanze cancerogene per l'uomo. L'altro, svolto dall'EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare), è giunto a conclusioni opposte, escludendo possibili danni per la salute umana. La proroga della Commissione Europea è funzionale ad attendere un terzo parere scientifico, quello dell'ECHA (Agenzia Chimica Europea sui Rischi per la Salute).

Inutile dire che nessuno dei due studi svolti abbia in qualche modo inteso i danni per la salute umana in termini complessivi. È infatti piuttosto evidente che la diminuzione della biodiversità, della varietà dei cibi portati in tavola, la devastazione dei terreni agricoli possano avere ricadute sulla salute umana e sulla qualità della vita. Ma secondo l'approccio riduzionista diffuso in campo scientifico si tende a definire i rischi per la salute limitandosi ai danni eventuali causati dalla diretta esposizione al composto in analisi.

E fin qui, prescindendo dalle considerazioni di ordine politico e sociale che evidentemente emergono, nulla di strano, in effetti. Due organi scientifici forniscono due pareri contrastanti, si attende che un terzo parere sbrogli la matassa.

Peccato che secondo molti il parere dell'EFSA sia gravemente viziato da un forte conflitto d'interesse. Se infatti la IARC ha svolto lo studio considerando unicamente ricerche i cui autori non avevano alcun legame con l'agroindustria, lo stesso non ha fatto l'EFSA. L'agenzia ha incluso tra le ricerche considerate diversi lavori finanziati direttamente dai colossi dell'agrobusiness, alcuni dei quali mai apparsi su riviste scientifiche. E come se non bastasse i comitati di valutazione dell'EFSA hanno sempre avuto al loro interno funzionari delle multinazionali dell'agrochimica. E il 59% dei membri del panel dell'ente hanno legami con aziende del settore, agendo dunque in palese conflitto d'interesse. Non è un caso se in seguito all'uscita dei risultati dell'EFSA vi sia stata una significativa mobilitazione di numerosi ricercatori volta proprio a chiedere all'Europa di non considerare le conclusioni di questo studio.

Una disamina sulla nocività del glifosato per l'uomo esula dagli scopi di questo articolo. Per questioni di competenze, di mezzi, ma soprattutto di scopo. Basterebbero infatti un paio di rudimenti di ecologia e biologia evoluzionistica, acquisibili fin dalle scuole superiori, per comprendere quanto l'utilizzo estensivo del glifosato e delle monocolture resistenti associate possa essere dannoso per l'ambiente tutto, ancor prima che per l'uomo. Basterebbe un minimo di coscienza sociale per rendersi conto di quanto l'azione di monopolio della Monsanto e l'esproprio dei territori agricoli ai piccoli produttori in ogni parte del mondo siano forieri di povertà, esclusione, devastazione. E basterebbe un minimo di etica scientifica per rendersi conto dell'incompatibilità di un conflitto d'interesse con la persecuzione del fine di una ricerca corretta, al servizio della società, libera ed indipendente.

Tutti principi che a quanto pare non sono patrimonio di parte della comunità scientifica.

In effetti è un errore a priori ritenere che possa in qualche modo esistere una scienza puramente indipendente e libera da influenze esterne. La scienza è un prodotto della società, non vive di vita autonoma. Gli strumenti cognitivi di cui si dota sono un prodotto della società, e le sue stesse finalità sono in ultima analisi, socialmente stabilite. E ogni azione in campo scientifico porta con sé, in partenza, un carico di supposizioni, ambizioni, pregiudizi, che sono frutto di immaginari e narrazioni diffuse a monte nella società.
In tal senso, se delle ricerche sono state effettuate al fine di commercializzare il glifosato, questo è avvenuto perché a monte vi era una richiesta, da parte di un soggetto esterno alla scienza, affinché si potesse ottenere un simile composto. Così come gli studi sulla nocività eventuale di questa sostanza sono conseguenza di una pressione esercitata dall'esterno sul mondo scientifico, dai comitati, dalle associazioni ambientaliste, dalle organizzazioni degli agricoltori. Non vi è nulla di strano in questo. Al buon scienziato, ad una comunità scientifica moralmente corretta, non resta che assumere questo problema, e tentare di arginarlo al fine di produrre risultati che siano tanto più vicini all'oggettività dei fenomeni naturali. E attraverso l'utilizzo di strumenti d'indagine robusti e di procedimenti appropriati, e magari affermando il principio per cui l'attività di ricerca non possa essere delegata ai finanziamenti di aziende private che hanno evidenti interessi nella produzione di un risultato piuttosto che di un altro.

Un discorso tanto banale quanto osteggiato da parte della comunità scientifica. Che pretende viceversa di essere da un lato totalmente indipendente dalla società, e dall'altro di collocarsi a monte rispetto alla società. Che pretende che sia la Verità scientifica ad orientare il sociale ed il politico, e non viceversa. Peccato che casi come quello del glifosato dimostrino esattamente come questa presunta verità sia fragile e malleabile dinanzi al potere economico.
Questi scienziati (scientisti ingenui, a dire il vero) sono poi spesso gli stessi che si lanciano in accorate disamine volte ad affermare che, per dirne una, gli OGM (il cui utilizzo è spesso fortemente associato, come detto, a quello del glifosato) siano la soluzione al problema della fame del mondo. Perché le loro ricerche dimostrerebbero un aumento netto della produzione ed un abbattimento dei costi. In questi termini giungono a contraddirsi e a mettere in luce la nuda realtà. Per quanto infatti le loro ricerche possano risultare robuste nel dimostrare tanto un aumento della produzione, quanto una riduzione dei costi, questo non porta in alcun modo a provare l'ipotesi per cui “gli OGM sono la soluzione alla fame de mondo”.
Questa affermazione contraddice in effetti uno dei principi fondamentali del procedimento scientifico, teorizzato da Karl Popper. Non è in alcun modo falsificabile. Non vi è modo alcuno di sperimentarla, se non attendendo decenni. C'è un evidente salto logico. Un salto logico che sta esattamente nel fatto che quest'affermazione è squisitamente politica, ancor prima che scientifica. Ed è squisitamente politica perché è il sistema dominante, coi suoi interessi, ad individuare negli OGM, e negli enormi profitti che ne derivano, una strada da battere sempre più. E gli scienziati, volontariamente o meno, assumono questa necessità particolare. Perchè, più banalmente, una soluzione alla fame nel mondo potrebbe partire da una ridistribuzione delle ricchezze e dalla restituzione delle terre espropriate ancor prima che dall'ingegnerizzazione del genoma di una pianta.

Se dunque la scienza non può sottrarsi alla società, il problema sta nel capire quale parte della società debba servire. Le multinazionali ed i potenti, oppure i popoli. Tertium non datur. È su questa scelta che la comunità scientifica si gioca tutta la sua credibilità, e non su altro. Le polemiche, spesso ridicole per chi opera in ambito scientifico, sulle verità della scienza discendono esattamente da questo progressivo asservimento del mondo della ricerca a chi ha come unico interesse il profitto. L'elemento unificante delle critiche, spesso a tinte complottiste, sull'utilizzo dei vaccini, sulla sperimentazione animale, persino sulle famigerate scie chimiche, è uno ed uno solo: la non neutralità della scienza. E allora possiamo continuare a ribadire che i vaccini non sono dannosi, che la sperimentazione animale è necessaria, e che le scie chimiche non sono strumenti di controllo sociale. Ma come risposta continueremo a sentirci dire che siamo asserviti alle multinazionali del farmaco nel primo caso, alle company che forniscono le cavie nel secondo, ed ai governi nel terzo. Tutte affermazioni, ahimè, in buona parte veritiere.

In questo quadro la vicenda del glifosato è l'ennesimo colpo che scuote l'autorevolezza della comunità scientifica. Che da autorevole diviene sempre più autoritaria e vista con diffidenza. Bisogna tornare ad intendere la scienza come uno strumento collettivo della società, sottratto a interessi particolari, finalizzato al soddisfacimento dei bisogni sociali, e soprattutto intellegibile. La questione della cittadinanza scientifica non è in questo senso secondaria. I cittadini devono poter comprendere quel che la comunità scientifica produce, e devono poter dare un giudizio, se non nel merito tecnico/scientifico della questione almeno sulle sue implicazioni sociali, e sulle sue ricadute applicative.

Si potrebbe iniziare ad esempio eliminando ogni conflitto d'interesse tra gli organi scientifici e le aziende private. Che significa tornare ad investire sulla ricerca pubblica, in un contesto nel quale invece ogni ricercatore, dai vertici degli istituti scientifici internazionali ai più sparuti laboratori delle università, per ottenere fondi per i propri lavori è tenuto in sostanza a bussare alla porta di qualche privato.

In attesa del parere dell'ECHA sull'azione del glifosato sulla salute umana, ad ogni modo si può concludere che sicuramente la scienza è già stata fin troppo intossicata. Speriamo non tocchi anche all'uomo.