Rohingya: un popolo senza Stato

Thu, 01/02/2018 - 13:15
di
Sonia Nandik e Douglas Herman*

La scorsa settimana il governo del Bangladesh ha iniziato a pianificare le procedure di rimpatrio di rifugiati Rohingya in Myanmar. Il controverso patto bilaterale, con l'obiettivo di far rientrare 750.000 rifugiati Rohingya nello Stato di Rahkine, avrebbe dovuto avere attuazione concreta a partire dal 23 gennaio, ma è stato rimandato all'ultimo momento. Le ragioni di tale ritardo sembrano apparentemente logistiche: secondo il governo, non sono stati preparati sufficienti centri di accoglienza lungo la via per assicurare un passaggio sicuro e controllato dei/delle rifugiati.

Nessuno è pronto a tornare in Myanmar

Anche se una protesta spontanea dei rifugiati contro il patto sul rimpatrio si è tenuta pochi giorni fa, molti dei residenti del campo erano completamente all'oscuro del piano per rimandarli indietro.

Secondo le Nazioni Unite, più di 900.000 rifugiati Rohingya vivono attualmente nella regione di Cox's Bazar, con nuovi arrivi che quotidianamente espandono le dimensioni del campo. Le azioni del governo sono state criticate da molte delle organizzazioni internazionali che sostengono che i rimpatri possano avvenire solo su base volontaria; invece, le autorità locali non hanno consultato né tanto meno informato la popolazione ospite di quello che sarebbe loro accaduto nel prossimo futuro.

Nonostante varie dichiarazioni pubbliche da parte del Refugee Relief and Repatriation Commissioner (RRRC) riguardo all'importanza della volontarietà nel processo di rimpatrio, il governo del Bangladesh ha già dichiarato che il piano riguarda tutti coloro che sono fuggiti dal Myanmar dall'ottobre 2016. Ciò non lascia dubbi sul fatto che molti saranno quelli che verranno rimpatriati contro la propria volontà.

Ancora in stato di forte trauma, dopo aver subito inimmaginabili violenze fisiche e psicologiche da parte dell'esercito del Myanmar, i rifugiati chiedono che almeno vengano garantiti i propri diritti fondamentali prima di iniziare con il rimpatrio. Tali diritti includono la libertà di movimento, il diritto a poter entrare nel sistema scolastico (legalmente negato dal 2012) e diritti legali per l'ottenimento di un posto di lavoro tutelato sia nelle strutture nazionali che internazionali.

Generazioni senza Stato

M la storia del rapporto tra la popolazione Rohingya e la situazione politica del Myanmar sembra negare anche la minima possibilità di veder riconosciuti tali diritti.

Per decenni, la popolazione Rohingya musulmana non ha avuto alcuna rappresentanza politica o legale all'interno delle strutture dello Stato. Il Consiglio per le Relazioni Internazionali ha riportato che il governo del Myanmar ha istituzionalizzato la discriminazione contro la popolazione Rohingya in materia di matrimonio, pianificazione familiare, lavoro, educazione, libertà religiosa e libertà di movimento.

Ad esempio, le coppie Rohingya nelle città a nord della regione Maungdaw e Buthidaung possono avere legalmente solo due figli. I Rohingya devono inoltre chiedere l'autorizzazione per potersi sposare, autorizzazione che molto spesso richiede un pagamento in denaro e la consegna di fotografie della sposa senza il velo e dello sposo con faccia pulita e rasata. Per traslocare o spostarsi in un'altra città hanno bisogno di un permesso approvato dal governo.

In seguito alla feroce repressione sui civili Rohingya da parte dell'esercito, due grandi ondate di rifugiati hanno lasciato il paese verso il Bangladesh negli anni '70 e '90. Invece che ricevere lo stato ufficiale di richiedenti asilo, molte delle persone scappate allora continuano a vivere nei campi costruiti al loro arrivo, dove un'intera generazione è nata e cresciuta in esilio.

L'ondata maggiore di rifugiati Rohingya trova le sue radici negli eventi dello scorso autunno.

Il 25 agosto 1917, i media dello del Myanmar hanno dato la notizia che 12 agenti di sicurezza erano stati uccisi da un raid armato guidato dall'ARSA- Arakan Rohingya Salvation Army, un piccolo gruppo guerrigliero che conta circa qualche centinaia di membri. In risposta, l'esercito del Myanmar ha giustificato con la scusa del terrorismo un'operazione militare in piena regola nello Stato di Rakhine, facendo più di 400 vittime solo ad inizio settembre.

Mentre l'esercito dichiarava che le vittime facevano tutte parte dei ribelli, Medici Senza Frontiere ha constatato che al 24 settembre le vittime civili erano salite a 6.700. Interi villaggi sono stati bruciati e rasi al suolo, civili disarmati colpiti a morte, le donne e le ragazze violentate, com'è pratica comune durante un conflitto. Quelli che sono riusciti a sopravvivere sono fuggiti nel terrore, e molti di questi sono morti a causa delle ferite o di stenti nel tentativo di raggiungere il Bangladesh. Sembra impossibile trovare qualcuno nei campi profughi che non ha subito violenza o che non ha perso almeno un membro della famiglia.

Il presidente francese Macron, che ha sommessamente definito “un genocidio” tale conflitto durante l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato che avrebbe lavorato sulla questione con altri membri del Consiglio di Sicurezza. “Dobbiamo condannare la pulizia etnica in corso e agire”.

Il ministro degli esteri del Bangladesh si è subito dichiarato d'accordo con Macron, in contraddizione però con la scelta di rinviare i piani di rimpatrio, e non di cancellarli.

Ancora senza Stato

Dal punto di vista economico, il Bangladesh semplicemente non può gestire più di 660.000 Rohingya, né garantirgli l'ingresso nel mercato del lavoro in un paese che non riesce ad assicurare un impiego stabile per la sua stessa popolazione. I rappresentanti delle ONG locali, impegnate dallo scorso settembre a costruire strutture di accoglienza e a garantire servizi di assistenza, credono che il governo abbia negato lo stato di rifugiati ai Rohingya per evitare di lasciargli credere che il Bangladesh li potrà ospitare per un lungo periodo. Nonostante il bisogno di strutture stabili e sicure per far fronte alla stagione dei monsoni in arrivo, le politiche attuali non permettono la costruzione di alcuna struttura permanente nei campi o nell'area circostante.

Benché la presenza di organizzazioni internazionali e locali sia elevata, i servizi garantiti nei campi sono ancora molto basici. Molti dei rifugi costruiti pochi mesi fa sono parzialmente distrutti e i rimanenti non sopravviveranno ai monsoni e gli uragani in arrivo. Circa 700.000 Rohingya dipendono completamente dagli aiuti alimentari distribuiti dal World Food Program. Le razioni non sono sufficienti, e consistono solo di riso, lenticchie e olio di semi.

Attualmente circa 90.000 persone sono state impiegate nel nuovo piano di e-voucher di WFP, che consiste nel ricevere mensilmente una carta prepagata da utilizzare per fare acquisti in negozi afferenti al programma. Chi possiede una carta può acquistare 19 diversi generi di alimenti, tra cui riso, lenticchie, verdure fresche, spezie, uova e pesce secco. Nel frattempo, tra chi riesce a mettere da parte un po' di cibo, si attrezzano negozi all'interno del campo che fruttano un guadagno misero di circa 100 Taka (1,25$) al giorno, per sfamare un'intera famiglia.

Pochissime sono le opportunità per i rifugiati Rohingya nei campi; tristemente, i più fortunati sono quelli cresciuti qui con lo status di rifugiato riconosciuto dal governo. Ancora non ammessi nel sistema scolastico del Bangladesh, hanno almeno un'educazione sufficiente a poter lavorare come traduttori o in altri ruoli delle organizzazioni internazionali. Gli uomini più giovani possono trovare un impiego temporaneo costruendo cliniche, centri comunitari e rifugi commissionati dalle ONG. Al contempo, donne e bambini (che compongono più del 50% della popolazione) dipendono completamente dagli aiuti umanitari, il che vuol dire che sono costrette a passare le loro giornate in caotiche, interminabili file, lottando per riuscire ad ottenere ciò che si sta in quel momento distribuendo; un supporto deciso dall'alto che, sottolineiamo, non è neanche lontanamente sufficiente.

Come spiega Charmain Mohamed, il Direttore della sezione Diritti di Migranti e Rifugiati di Amnesty International, “non può esserci alcun rimpatrio sicuro o dignitoso per i Roghingya in Myanmar, se nel paese permane il sistema di apartheid esistente e migliaia di persone vivono in condizioni che si avvicinano a quelle nei campi di concentramento”.

*Fonte articolo: https://medium.com/@AreYouSyrious/ays-special-stateless-in-myanmar-state...
Traduzione a cura di Federica Maiucci