L'aziendalizzazione dei flussi migratori: l'accordo UE-Turchia

Mon, 21/03/2016 - 10:55
di
Gianni De Giglio

La notte tra il 18 e il 19 marzo i governi europei hanno trovato un accordo, approvato anche dal governo turco, per la gestione dell’arrivo dei migranti sulle coste greche, mentre per mesi non sono riusciti a concludere nessun accordo riguardo la ricollocazione e l'accoglienza interna tra i paesi membri.
Al prezzo di sei miliardi di euro la Turchia, attraverso dei veri e propri centri di identificazione all'interno del suo territorio, impedirà l’entrata in Europa (via Grecia) dei migranti catalogati come "economici". A questo si aggiungerà il respingimento forzato in Turchia di quei migranti che stazionano già in Europa, lungo la rotta balcanica, e che saranno anche loro "certificati" come "economici" e quindi non meritevoli di protezione internazionale. Il controllo delle frontiere si fa così economia di scambio e le persone diventano semplicemente oggetto di logiche neoliberiste che determinano le politiche di gestione delle migrazioni.

Con la formula di "uno dentro e uno fuori" si aprirà una specie di rubinetto: per ogni siriano che potrà arrivare in Europa ci dovrà essere in cambio il respingimento di un irregolare. Consci che questa sia una vera e propria forma di deportazione all'interno di lager in territorio turco, ma voluti e finanziati dall'apparato europeo, si usano termini più consoni ai valori civili come quello di "istituzione di un corridoio umanitario per i profughi siriani", per i quali l’Unione "accetta l’impegno di Ankara che i migranti tornati in Turchia verranno protetti in base agli standard internazionali". Alcuni capi di governo, tra cui Matteo Renzi, consapevoli della deriva xenofoba e reazionaria dell'accordo, per lavarsi le mani hanno cercato nei giorni precedenti, e fino all’ultimo, di rassicurare l'opinione pubblica più sensibile. Ma questa volta non è bastato, l’indignazione mediatica è tuttora trasversale: dall’UNHCR ai vescovi, dalle Ong istituzionali ai dubbi di qualche media mainstream, il coro è unanime.

Rispetto al passato c’è qualche nuovo dettaglio non indifferente, ma la sostanza rimane la stessa: i capi di governo continuano a formalizzare accordi che segnano l’inesorabile deriva razzista delle istituzioni europee. In nome dell’emergenza profughi lo "stato di eccezione" continua a farsi prassi. Il valore dei migranti e dei profughi è sempre inferiore a quello delle merci che continueranno a circolare liberamente all’interno dell’UE e tra l’Europa e il resto del mondo. Per il gas e il petrolio, per le armi e il business che produce l’industria dei confini, così come per qualsiasi altro settore ad alta profittabilità, le rotte devono restare sicure e garantite. Si salpa da un porto all'altro con tutta la certificazione e le tutele del caso, a prescindere se queste merci siano causa ed effetto delle stesse migrazioni provenienti da Africa e Medio Oriente.

Per le leggi del capitalismo le merci e la finanza hanno bisogno di corridoi regolari e ben attrezzati. Invece per le persone che continueranno a scappare da carestie alimentari e crisi ecologiche, guerre, spossessamento di terra e risorse naturali, alcuni corridoi devono rientrare nel complesso industriale della sicurezza delle frontiere, altri devono invece rimanere rotte per miserabili. E non importa se le attuali e le prossime "maree migranti" continueranno a dotarsi di barconi inaffidabili in mano a trafficanti spietati e a mietere morti in mare. E non importa se ora è il turno della Turchia non rispettare la Convenzione di Ginevra o il diritto di asilo e tutte le sue procedure. L’importante è che il "regime delle deportazioni" non si applichi su territorio europeo ma ne rimanga fuori dai confini, affinché appaia meno vergognoso per l’opinione pubblica europea, portatrice dei valori dei diritti universali dell’uomo. Come se la vergogna dei ghetti e gli sgomberi di Calais, le tendopoli e il fango di Idomeni non fossero in Europa; come se gli hotspot già operativi in Puglia e Sicilia con le loro "illegali" procedure di identificazione e di trattenimento non fossero in Italia, dove in 72 ore senza un minimo di copertura giuridica e di informazione sui propri diritti si procede alla selezione tra chi merita la protezione internazionale e chi il rimpatrio, per usare un termine meno imbarazzante.

Per le normative europee, così come riportato anche nell’accordo con il governo turco, il respingimento seppur di natura straordinaria è una "misura necessaria per porre fine alle sofferenze umane e ripristinare l’ordine pubblico al confine tra Grecia e Macedonia". I flussi migratori devono continuare ad apparire un’emergenza permanente, di conseguenza la loro governance è un susseguirsi di accordi bilaterali tra Europa, singoli stati terzi ed apparati industriali privati (si pensi a Finmeccanica, Sagem, Airbus per citarne alcuni). Meglio sostituire tempi richiesti dal diritto pubblico per garantire le tutele basilari, con le regole e il metodo just in time propri dell’attività flessibile d’impresa. L’emergenza rende lo strumento aziendalistico del "consiglio di amministrazione" (i vertici tra i capi di stato europei) più celere ed efficace rispetto alle lunghe ed inutili discussioni parlamentari, a prescindere se si violino i diritti degli immigrati, quelli dei richiedenti asilo o dei rifugiati, o se le frontiere rimangano chiuse arbitrariamente, o all’improvviso compaiano fili spinati.

Fino a qualche anno fa si firmavano accordi con Gheddafi e Mubarak, oggi gli statisti di turno sono al-Sisi ed Erdogan. L’intervista ad al-Sisi pubblicata da Repubblica la scorsa settimana, e la dichiarazione pungente di Erdogan a poche ore dall’accordo del 18 marzo scorso, dimostrano quanto siano loro due oggi ad utilizzare al meglio la destabilizzazione dell’area e le migrazioni che ne scaturiscono per ricattare e tenere sotto scacco la pavida e ininfluente classe dirigente europea, il cui baricentro politico rimane inalterato, ossia fondato esclusivamente sull’economia del debito e dell’austerità, alla ricerca ossessionata della crescita del PIL, ad un’uscita dalla crisi che non c’è e a breve non ci sarà.

Nel frattempo ci siamo noi. Noi che piano piano ci stiamo accorgendo degli effetti nefasti di una serie di politiche economiche e sociali che non fanno altro che produrre un progressivo livellamento verso il basso delle nostre condizioni di vita e di lavoro, in perenne stato di precarietà e ricattabilità. Si tratta di condizioni sempre più equiparabili a quelle in cui si trovano anche i migranti. Non è un caso però che si vogliano rendere sempre più disagiate e miserevoli le loro condizioni, costringendoli ad entrare e soggiornare illegalmente in Europa per periodi di tempo sempre più lunghi ed incerti. Uno stato permanente di illegalità significa maggiore vulnerabilità e ricattabilità di fronte a qualsiasi esigenza che sia alloggiativa, di reddito o di lavoro. In fondo le imprese e i nostri governi vogliono che consideriamo i migranti non come soggetti sociali portatori di istanze e diritti ma solo come persone appese al filo della nostra carità e del volontarismo, perché consapevoli del potenziale conflittuale e rivendicativo che deriverebbe dall’unione tra noi e i migranti stessi.

Se da un lato rimane prioritario utilizzare le strutture di base e le risorse a nostra disposizione per organizzare al meglio l’immediata solidarietà, come la raccolta di beni di prima necessità o il supporto legale, contestualmente è necessario continuare a sostenere concretamente i percorsi di rivendicazione e autodeterminazione dei migranti, favorire l’incontro tra diverse vertenze e sperimentazioni di accoglienza dal basso, unire le pratiche mutualistiche a quelle conflittuali. Riuscire a strappare permessi di soggiorno collettivi, migliori condizioni di lavoro, alloggi dignitosi significa prendere consapevolezza collettiva dei propri diritti con l’obiettivo di scardinare ed abbattere quel muro che ci vuole sempre più divisi tra migranti e nativi.