Tra rotture e responsabilità, le prospettive economiche del nazional-populismo

Wed, 12/09/2018 - 12:32
di
Marco Bertorello

La crisi economica è stata gestita da forze politiche della cosiddetta seconda Repubblica, ora il testimone della fase post-crisi è passato a formazioni nazional-populiste che sono diretta espressione del malcontento prodotto proprio dalla gestione precedente. Il governo giallo-verde capitalizza una crescente adesione di massa a partire dai temi a sfondo razzista, di esclusione dei migranti e, perché no, d’ordine, ma al contempo è costretto a misurarsi con l’incombenza dei temi economici che hanno contribuito in maniera decisiva a screditare la precedente classe politica. Qui il passaggio tra rappresentanza (propaganda) e concretezza (politiche economiche) si fa decisamente più stretto. E quello che sta accadendo non è poi così banale, se ci si pone l’obiettivo di cambiare. La nuova maggioranza e il governo da essa sostenuta è un coacervo di istanze che vanno dal neoliberismo spinto fino a progetti neo-statuali. Il tutto coperto dall’ambizione di un recupero di sovranità politica, economica, monetaria. Dall’inizio dell’estate il ruolo di rompighiaccio e di freno viene interpretato a turni alterni prima dalla Lega e poi dal M5S. Indice che esistono difficoltà non semplici da superare. L’Europa pesa, come pesa il ruolo dei famigerati mercati. Quest’ultimi non sono una proteiforme dimensione diabolica e neppure un rappresentazione astratta dei cosiddetti poteri forti (definizione tanto famosa, quanto inutile), ma l’infrastruttura che consente il funzionamento dell’economia contemporanea. Qualsiasi prospettiva, sia sovranazionale sia nazionale, non può non tenere conto della loro funzione di architrave delle politiche economiche globali dominanti. Quello che sembra in gioco, al più, è la costruzione di una loro variante a trazione locale. Sarà possibile? Aprirà degli spazi?

Dico subito che il combinato di nazionalismo e politiche sociali lascia presagire tempi difficili. De-globalizzare frammentando, dividendo il popolo (perché di questo si tratta), proprio quel popolo a cui il populismo si rifà, non consentirà un vero e proprio cambio di fase. Realisticamente la partita in gioco è per l’affermazione di un mercato competitivo su scala minore, ma dove resta la centralità di quest’ultimo, dove esso rimane il movente dell’agire economico e politico. Non vanno sottovalutate le proposte di reddito di cittadinanza, la messa in discussione delle privatizzazioni oppure l’ambizione a chiudere i centri commerciali nei giorni festivi, ma il rischio è che nella migliore delle ipotesi vengano realizzati solo parzialmente, in modo spurio, finendo per diventare solo delle bandierine, simboli dunque, piantati su una fortezza con le fondamenta ancorate ai meccanismi del mercato.

Vale, però, la pena riflettere sulle difficoltà che anche queste politiche stanno incontrando e che con tutta probabilità saranno causa, perlomeno di una loro diluizione in attesa di tempi migliori per il governo. A ogni frattura, infatti, corrisponde sempre un annuncio responsabile e di moderazione. Oggi il M5S, domani la Lega e viceversa. Lo spread, però, si è ripetutamente avvicinato ai 300 punti, un livello che non si vedeva da tempo, cioè da quando la Bce ha messo in campo una politica monetaria espansiva e accomodante. Acquisto di titoli pubblici e tassi d’interesse a zero. Il debito italiano durante la crisi è stato abbondantemente “ri-nazionalizzato”, ma quel 30% in mano a operatori stranieri non rappresenta l’unico elemento di debolezza per il paese, come paventano alcuni esponenti della Lega. Gli stessi risparmiatori e le stesse istituzioni finanziarie locali sottostanno alle regole di volatilità che l’attuale finanza globale riesce a imporre. Tutti gli investitori, dunque, a prescindere dalla loro provenienza, potrebbero rifuggire dall’Italia se ritenuta eccessivamente debole o potenzialmente causa di profonda instabilità per l’Europa. Inoltre il panico e i conseguenti shock possono esser generati da un numero relativamente contenuto di investitori, specie se in un quadro non del tutto stabilizzato e solido come quello attuale. Basti pensare a Turchia o Argentina. Per far mancare un sostegno finanziario all’Italia è sufficiente che fuggano una percentuale ben inferiore al 30% dei detentori di titoli di Stato. L’ambizione a far tornare il debito in mano agli italiani appare un miraggio non solo per la sua impraticabilità (quali sono le ragioni per cui gli italiani dovrebbero acquistare titoli a rischio? Si veda gli slogan inconcludenti di Erdogan a comprare lire turche), ma anche per la sua inefficacia. Non a caso esponenti di governo provano a rinviare il problema tornando sulla teoria d’impronta liberista, che solo la crescita economica consentirebbe di riassorbire il debito. Da qui i soliti programmi basati sull’abbassamento delle tasse, riposizionando al centro le condizioni dell’offerta, magari con tinte protezioniste, ma nulla di più.

Se, però, il debito fa paura a chi governa (e fa paura, considerato l’aumento dei costi in corso), ciò accade non solo per ragioni politiche, cioè non si deve considerare solo il potenziale destabilizzante dell’alleanza giallo-verde, ma anche la fine del programma della Bce. Nel 2019 terminerà il quantitative easing e si temono gli effetti di tale scelta. Al Forum Ambrosetti, appena concluso, è apparso uno studio in cui si sostiene che anche in assenza di una nuova crisi se i tassi dovessero crescere repentinamente, il prezzo per le casse pubbliche aumenterebbe di 22 miliardi all’anno. Si aggiunga che esistono rischi specifici per un paese che è tornato a crescere, ma meno di tutti gli altri, con bassi investimenti, infrastrutture scadute e produttività ferma. Per non dire dell’invecchiamento della società. Insomma i nazional-populisti un giorno si e l’altro no si presentano come responsabili anche per chiedere un qualche progetto indulgente per il 2019 da parte della Bce, per non fare precipitare la situazione. Un’ambizione a recuperare il controllo più stringente sulle banche centrali che non costituisce certo un’anomalia per il polo sovranista in giro per il mondo (Trump docet).

Per concludere, i problemi per chi prova a cambiare esistono, quello che non si può certo affermare è che le tendenze nazional-populiste, per quanto in maniera contraddittoria, non abbiano un progetto. Oggi provano a resistere in Italia, in attesa che il 2019 consegni un quadro politico continentale a loro più favorevole. Accumulano forze per provare a rimettere in moto la politica, per consentirle di contenere l’economia, senza stravolgerla. L’iper-competizione resterà il meccanismo di fondo, gli attori saranno più locali di prima, la finanza si svilupperà su basi più regionali. Non è semplicemente una prospettiva di ritorno agli Stati-nazione, ma la conformazione di un modello di economia di mercato a geometria variabile. La stessa Cina gioca le sue carte dentro questo panorama in fieri, anzi in buona misura contribuisce a partorirlo. Altro che esponente della globalizzazione! Essa gioca dentro questo possibile scacchiere cercando di conquistare quante più pedine possibili. In tutto ciò che fine faranno le classi subalterne e popolari? Questo è un capitolo a cui prima o poi qualcuno dovrà iniziare a pensare. Avendo chiare le trasformazioni in corso.