Il fragile mito del leader carismatico

Thu, 13/02/2014 - 12:40
di
Lidia Cirillo

Se è vero – come scrive Bensaid nell’Elogio della politica profana – che la ricostruzione di un progetto rivoluzionario passa anche attraverso “una paziente attenzione alle lacerazioni del dominio da cui può sorgere una possibilità intempestiva”, allora la crisi politica italiana va monitorata senza distrazioni. E non perché allo stato di cose presente qualche possibilità nel senso a cui allude Bensaid ci sia davvero. Le classi subalterne sono troppo disorganizzate, troppo prive di canali attraverso i quali possano diffondersi racconti diversi da quelli dominanti per poter approfittare a proprio vantaggio di lacerazioni e crisi altrui.
La questione è che il contesto politico mantiene, malgrado tutto, una notevole capacità di condizionare caratteristiche ed esiti della rivolta sociale. Di quella visibile e invisibile, di quella che c’è davvero e di quella che potrebbe esserci e che invece manca.

Una stabilità che somiglia a una paralisi

L’idea espressa da Letta dopo la rottura del centro-destra che il suo governo sia adesso più stabile, ammesso che creda a quel che dice, si fonda su un concetto di stabilità matematico e non politico.
Le coalizioni di governo che mettono insieme partiti altrimenti concorrenti rappresentano uno dei numerosi espedienti con cui si comprimono gli spazi di democrazia, in questo caso tagliando anche i sottilissimi e residui fili di comunicazione tra la protesta e le istituzioni. Dal momento che in concorrenti di ieri assumono insieme la responsabilità di colpire fasce larghissime di elettorato, la possibilità che un’opposizione sociale a suo modo lambisca le assemblee elettive si riduce spesso al suo minimo storico.
Ora, è difficile trovare un paragone per un governo con un’opposizione così ampia e variegata come il governo Letta. Come era prevedibile, non avendo ricavato i vantaggi personali in cui sperava, Berlusconi passa all’opposizione già precedentemente presidiata da avamposti della destra; Grillo continua a occupare la posizione programmatica di oppositore, che non avrebbe alcun vantaggio ad abbandonare; Renzi, ora che il partito di cui è segretario rappresenta il sostegno di gran lunga maggiore del governo, non ha alcun interesse a lasciarsi logorare dalla crescente impopolarità dell’esecutivo. Questo non vuol dire che gli sarà semplice svincolarsi, soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale che obbliga il parlamento a una nuova legge elettorale.
Su uno stato di cose già precario, si è abbattuta infatti una sentenza che dichiara illegittimi sia un premio di maggioranza che non prevede una soglia minima, sia l’impossibilità per l’elettore di esprimere una sua preferenza. Secondo un minimo di logica politica dovrebbero essere illegittimi non solo i 148 eletti con il premio suddetto (come dicono Forza Italia e Grillo), ma anche tutti gli altri, perché nessuno è stato eletto con un sistema legittimo.
Napolitano e Letta tranquillizzano, contentandosi ancora una volta di certezze solo formali.
Una campagna elettorale già in atto delinea una direzione di ricerca della crisi politica italiana su cui vale la pena di ragionare per un momento.

Partiti di massa e dinamiche plebiscitarie

Nel corso del Novecento, soprattutto dopo la rivoluzione del 1917, l’esigenza di fronteggiare il movimento operaio ha costretto i gruppi sociali egemoni a costruire o utilizzare forme della politica che, pur mantenendo importanti elementi di continuità con il passato, sono state comunque nuove e diverse. Più adeguate, insomma, ai bisogni padronali in uno specifico contesto di conflitti di classe. Con i partiti di massa le forme della politica si sono adattate all’attivizzazione delle classi subalterne, alla loro irruzione sulla scena politica e alla loro tendenza a costruire un’organizzazione propria. Essi hanno affrontato e per un certo periodo realizzato l’obiettivo di un controllo statale e padronale sull’attivizzazione effettiva e potenziale, non di rado con una torsione in senso conservatore e reazionario di partiche e ritualità costruite da lavoratrici e lavoratori di cultura socialista e rivoluzionaria. In alcuni casi hanno potuto appoggiarsi a reti e aggregazioni già esistenti, per esempio quelle della Chiesa cattolica in Italia, da cui hanno avuto origine mutualismo e sindacalismo cattolico, poi dei partiti, in modo particolare quello che dopo la seconda guerra mondiale è stato per più di quaranta anni partito di maggioranza. Altre volte sono stati costituiti con le pratiche di potere che, per esempio, aggregarono e mobilitarono in sostegno del fascismo italiano.
Hanno convissuto con la democrazia liberale o hanno irreggimentato generazioni di uomini e di donne, in un’attivizzazione obbligatoria e subalterna. Sono stati l’effetto di mutazioni di partiti di origine operaia, con cui tuttavia il padronato ha dovuto contrattare, lasciando sul terreno conquiste grandi e piccole, di democrazia e di relativo benessere.
Le forme politiche plebiscitarie sono state un’altra modalità di adattamento, che ora ha convissuto, ora è stata in qualche modo alternativa ai partiti di massa. Teorico ne fu l’intellettuale tedesco Max Weber che propose la figura di un capo, un furher, che immaginò tuttavia con caratteristiche assai diverse dal furher reale che avrebbe occupato poi il potere politico in Germania dal 1933. Weber pensò a un leader carismatico ma compatibile con un parlamento capace di porgli dei limiti. Considerò la politica il compito di piccole élites, che però avrebbero dovuto rendere possibile l’identificazione in un capo a un popolo guidato prevalentemente da sentimenti, impressioni e pratiche di affidamento. In realtà il modello weberiano si è realizzato in qualche modo negli Stati Uniti, dove l’assenza di un partito operaio di massa e la possibilità di una gerarchizzazione razzista del lavoro salariato hanno posto nel Novecento problemi di adattamento in parte diversi da quelli dell’Europa. Qui invece partiti di massa, irreggimentazione, leader carismatico hanno convissuto (per esempio) nei fascismi europei come fenomeni non alternativi.
Tutta la vicenda delle trasformazioni nelle pratiche di dominio del secolo passato mostra che le formazioni sociali egemoniche non hanno mai mitizzato alcuna forma istituzionale e politica, hanno usato disinvoltamente di volta in volta ciò che supponevano, a torto o a ragione, fosse più utile per se stesse. La mitizzazione di forme organizzative specifiche è propria invece delle burocrazie e pour
cause
, cioè perché quelle forme state le condizioni sine qua non del loro potere.

Un confronto tra capi

Quando anni fa si è parlato di “americanizzazione” del contesto politico europeo, in modo particolare di quello italiano, chi lo ha fatto intendeva riferirsi anche a uno degli effetti della crisi dei partiti di massa. Si è detto che, venuta meno l’esigenza di fronteggiare la robusta organizzazione costruita sulle lotte operaie, è stata sollecitata e si è in parte anche prodotta un’evoluzione verso forme di controllo più simili a quelle statunitensi. Si tratta di una convinzione non falsa, ma superficiale, perché tiene conto solo degli elementi di continuità, come lo sono anche quelle che tengono conto solo degli elementi di rottura.
La crisi italiana è approdata in questi giorni al confronto tra tre capi più forti delle fragili strutture organizzative a cui fanno riferimento. O perché, come Berlusconi, ne sono i proprietari o perché, come Grillo, l’hanno evocata a furia di urla dalle visceri del popolo elettore o perché, come Renzi, si sono affermati a dispetto della maggioranza dei loro apparati.
Una parentesi indispensabile, anche se complica un poco discorso. Sarebbe facile ironizzare sul carisma dei tre personaggi in questione, ma l’ironia è fuori luogo perché significherebbe credere che in passato il carisma sia stato una cosa seria. Nella storia del Novecento sono stati portatori di carisma individui invariabilmente di sesso maschile, spesso dotati di un narciso ipertrofico, talvolta grandi psicotici o bipolari in fase maniacale. Con delle eccezioni perché il carisma non è solo un’attitudine personale, è anche in larga misura costruito dal possesso o dal controllo dei mezzi di comunicazione e dalla possibilità di dar vita a grandi eventi collettivi, in cui il capo è investito dal carisma della folla e lo rimanda indietro come in uno specchio. Il feticismo del capo è esattamente l’attribuzione a un’entità esterna della forza degli sfruttati, quando per un momento si fanno “massa critica”. Ma se nel Novecento le forme di controllo politico hanno combinato elementi di continuità con l’esigenza di risolvere problemi nuovi, la stessa cosa dovrebbe valere per il presente.
Ci sono molti dati della realtà che rendono il mito del leader carismatico più fragile che in passato: un senso critico più sviluppato, una quantità senza precedenti di voci e di informazioni, problemi da affrontare più complessi e che mettono rapidamente alla prova il carisma.
I tre protagonisti del conflitto prossimo venturo sono tutti e tre portatori di un messaggio semplice che, a ben vedere, è in salsa diversa sempre lo stesso. Il messaggio è quello di una differenza, di una rottura con il passato più e meno recente, che si incarna in modo specifico nei tre personaggi. Berlusconi è stato a suo tempo l’uomo nuovo, estraneo alla politica e costruttore di fortune proprie e altrui. Oggi ha mutato maschere e racconti e sopravvive a se stesso perché non è un politico qualunque; è un padrone, dispone dei mezzi per riproporre continuamente se stesso e la sua fama di vincitore ancora polarizza gli umori conservatori e reazionari che fermentano nel corpo sociale in assenza di una sinistra. Grillo esprime la rottura e il rifiuto nella forma più esplicita possibile, con gli improperi e la fobia della contaminazione e porta nella politica lo sberleffo del comico. Nel libro La politica a 5 stelle Roberto Biorcio e Paolo Natale accostano Grillo al comico francese Coluche la cui candidatura alle elezioni presidenziali del 1981 ebbe un grande successo. “L’ingresso in politica di un comico – scrivono – può avere però un’efficacia particolare perché utilizza e trasforma elementi molto importanti della cultura popolare più volte messi alla prova dagli studi degli antropologi. Con il linguaggio della satira, delle imitazioni e delle caricature dei politici si possono comunicare contenuti altrimenti indicibili. Contenuti che possono più facilmente superare le barriere poste dalle norme sociali e influenzare in profondità le idee e i sentimenti del pubblico.”
Quanto a Renzi, la diversità viene costruita attraverso un giovanilismo che sposta l’attenzione dal nuovo politico al nuovo biologico, mentre la rottura si identifica con la rottamazione dei gruppi dirigenti, vecchi in senso generazionale e politico.
Non è facile fare ipotesi su come tutto questo si rifletterà sulla crisi politica italiana. L’assetto tripolare delle forze politiche che abitano le istituzioni e le caratteristiche dei convitati lasciano pensare che la soluzione del problema tutto padronale della governabilità non sia proprio a portata di mano. Ma il discorso rischia a questo punto di arenarsi su poco interessanti considerazioni politiciste. Quel che potrebbe invece interessarci è come reagire al ritorno del leader carismatico. In sé basterebbe attendere che un prestigio oggi assai più volatile venga messo alla prova dei fatti, ma la questione non è di persone. Morto un leader carismatico se ne fa rapidamente un altro, anche perché esistono oggi i mezzi per rendere tale un pollo lesso. Il problema è quello di un’attitudine e di un’abitudine; è il problema del feticismo del capo maschio ed eterosessuale.
Bisognerebbe sperimentare pratiche e discorsi che restituiscano alle masse il prestigio che proiettano sul leader, ma qui si apre un altro capitolo della ricerca.