Che cos'è la Carta di Roma comune?

Tue, 26/04/2016 - 15:28
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Decide Roma*

La Carta di Roma Comune nasce dall'esigenza sempre più avvertita, in questo periodo di crisi della sovranità popolare, di sviluppare nuove forme di democrazia partecipativa.
Partecipare ha una doppia valenza semantica: significa prendere parte ad un atto, e essere parte di un organismo. Il percorso di lotta per il diritto alla città è proprio questo. E un percorso aperto, e nello stesso tempo, un organismo che vuole dare la possibilità di elaborare dal basso le linee della gestione del patrimonio pubblico e i vincoli all’avanzata indiscriminata della grande proprietà privata.
L'ambizione è sicuramente quella di determinare le decisioni di chi governerà questa città. Ciò anche in virtù del principio di sussidiarietà orizzontale espresso in Costituzione, il quale afferma che i cittadini devo avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidono sulle realtà sociali a loro vicine. Devono essere quindi i cittadini a prendersi cura e a fare uso dei beni comuni. Questa Carta si offre come lo strumento per elaborare principi condivisi e per creare una forma di autogoverno del patrimonio di questa città.
Bisogna guardare al tema dei beni superando l'obsoleta normativa positiva rappresentata dalla dicotomia pubblico/privato, classificando un bene non per la sua titolarità ma per l'intrinseca connotazione alla realizzazione degli interessi dei cittadini. Anche la giurisprudenza da tempo ha affermato che un bene è comune quando è funzionale alla realizzazione di un diritto fondamentale, a prescindere dalla sua titolarità. Il bene una volta classificato come comune diventa per definizione estraneo a qualsiasi logica di commercializzazione ed è collocato così, per sua natura, fuori dal mercato. Questo è il presupposto su cui si basa il categorico rifiuto alla vendita del patrimonio e alle concezioni neoliberiste dilaganti. Spunti interessanti sulla possibile classificazione dei beni relativa alle utilità che questi offrono ci vengono offerti dalla Commissione Rodotà sui Beni comuni. I lavori della Commissione hanno prodotto una nuova tassonomia: beni pubblici, beni comuni, beni privati che supera il tradizionale concetto di proprietà.

Che cos’è la Carta di Roma Comune?

La Carta di Roma Comune è un percorso di scrittura collettiva, a carattere pubblico, che attraversa la città di Roma. E’ una consultazione generale che coinvolge i cittadini, per formulare una proposta di uso comune del patrimonio pubblico e per imporre dei vincoli sociali alla proprietà privata. Affermare un uso comune, perciò alternativo, del patrimonio, equivale a porre le basi per un’altra idea di città.
La Carta di Roma Comune vuole fissare dei principi condivisi, e irrinunciabili.
La Carta di Roma Comune vuole tracciare una linea oltre la quale nessun intervento normativo possa spingersi. Gli interventi normativi presi in questi anni da un ceto politico, sfiduciato dai cittadini, sono stati rivolti contro la società. Per questa ragione, è necessario andare oltre la coppia legalità - illegalità, e riconoscere giuridicamente la legittimità degli usi, delle pratiche, delle regole, che si danno all’interno degli spazi sociali così come al loro esterno.
Gli spazi sociali - che investono il patrimonio pubblico così come la proprietà privata - sono infatti la cartina di tornasole di un movimento urbano più ampio, che rivendica e pratica un uso differente dei beni, degli spazi e dei servizi pubblici.
Per questa ragione, la Carta di Roma Comune non è una semplice narrazione delle buone pratiche disseminate in ogni angolo della nostra città. E’ un processo di creazione di nuovo diritto, un diritto “sorgivo”, un diritto comune. Vuole perciò dare riconoscimento giuridico a queste pratiche.

Perché la Carta vuole avere natura giuridica?

Per rispondere a questa domanda occorre fare una precisazione importante: il diritto non è solo quello prodotto dall’autorità, che siano le istituzioni dell’Unione Europea, lo Stato o un Ente Locale. Il diritto non coincide con una direttiva, con una legge, con un atto amministrativo o con un provvedimento di carattere repressivo.
C’è un altro diritto. Il diritto è anche quello prodotto dal basso, diritto convenzionale, consuetudinario, fondato sulla storicità e nello stesso tempo sull’innovazione.
Il diritto nasce dall’esperienza e non nella solitudine dei tavoli o degli uffici dei tecnici. Per questo ci piace parlare di esperienza giuridica.
La Carta di Roma Comune vuole opporre al diritto concepito solo come strumento repressivo, o come strumento coercitivo nei confronti dei comportamenti sociali, un diritto vivente, che nasce nella società e che non può essere catturato dagli apparati statali.
Come sostiene Paolo Grossi, attuale Presidente della Corte Costituzionale, negli ultimi due secoli il diritto è stato concepito come strumento punitivo, rivolto al lato “patologico” della società, Se cambiamo il nostro modo di vedere, se ampliamo lo sguardo, indietro (e avanti) nel tempo, il diritto concerne la “fisiologia” della società. Di una società che deve riappropriarsi del diritto e farne un campo di lotta politica.
Gli spazi sociali, mediante la Carta, si autocostituiscono come luoghi politici di autogoverno e fanno leva su un insieme molteplice di fonti giuridiche (in particolare privilegiando la “legalità costituzionale” rispetto alla ormai obsoleta legalità statale, ma non solo: la giurisprudenza, i precedenti, la stessa dottrina).

Come sarà scritta la Carta?

A differenza dei tradizionali processi normativi, la scrittura della Carta non sarà delegata a dei tecnici o a degli specialisti. Al contrario, differenti saperi e discipline - il diritto, l’economia, l’urbanistica - saranno messi al servizio di un processo di partecipazione democratica, per disegnare un’altra città.
La scrittura si articolerà in momenti pubblici nei quali i soggetti destinatari della Carta saranno anche i protagonisti del processo stesso di scrittura. Consultazioni, dibattiti, assemblee, incontri tematici saranno gli strumenti attraverso i quali si formeranno i contenuti della Carta.
La Carta sarà presentata anche a coloro i quali si candidano a governare la città. I candidati a sindaco dovranno tenere conto di questo processo, perché da oggi in poi non c’è governo che possa decidere sulle nostre teste, senza rispettare i nuovi spazi di partecipazione democratica, indipendenti dai partiti, che si sono aperti.
Infine, tale processo sarà affiancato da momenti di studio e di ricerca, sulla casistica, sulla giurisprudenza a sostegno dei beni comuni, finalizzati a rafforzare le fondamenta giuridiche della Carta.

Perché parliamo di riconoscimento dell’autonomia di queste esperienze?

Il riconoscimento dell’autonomia degli spazi sociali e delle altre esperienze di uso comune, è la premessa, la precondizione, per ogni confronto con l’amministrazione. L’autonomia, infatti, si qualifica come un principio fondativo della Carta.
Autonomia significa, letteralmente, “darsi le regole da sé”. Per questa ragione, la Carta sarà portatrice di un’interpretazione radicale del principio di sussidiarietà, sancito dalla nostra Costituzione come da alcune fonti giuridiche comunitarie.
Lo ribadiamo: bisogna cambiare il nostro modo di vedere, e superare la tradizionale “piramide” del diritto statale. Si parte dal basso, e non dall’alto. Nella visione della Carta non c’è un potere di vertice che delega, di volta in volta, dei poteri “decentrati”. Al contrario, ci sono delle comunità di base, delle comunità di autogoverno, che costruiscono una delega di carattere federativo, dunque sempre revocabile.
La parola autonomia va perciò intesa in duplice senso: creazione normativa dal basso e indipendenza relativa. Usando ancora le parole di Paolo Grossi: «Se la sovranità erige delle monadi, facendo di ciascuna di esse un pianeta pensato e risolto come autosufficiente con l’unica capacità relazionale che consiste nella tendenza imperialistica a inglobare i pianeti limitrofi, l’autonomia – quale indipendenza relativa – immerge l’entità accanto alle altre, in un reticolato che le collega alle altre».

Perché parliamo di comune, oltre il pubblico e il privato?

L’uso supera la proprietà, sia pubblica che privata.
Il pubblico e il privato, meglio, la proprietà privata e pubblica, costituiscono due facce della stessa medaglia, l'una non è pensabile senza l'altra. Che si tratti di una proprietà pubblica o di una proprietà privata, il principio fondativo è lo stesso: quello dell'esclusione.
La proprietà privata, riconosciuta e garantita dalla nostra Costituzione, è subordinata alla sua funzione sociale (art. 42). A quale funzione sociale risponde uno spazio di proprietà privata abbandonato e chiuso per anni? Gli spazi sociali provano a dare consistenza alla funzione sociale richiamata in Costituzione e riconsegnano alla cittadinanza spazi privati abbandonati. In questo modo gli spazi privati soggetti ad abbandono o a speculazione, si trasformano in spazi comuni, in quanto comune è la gestione che se ne fa, sottraendoli a logiche utilitaristiche e di profitto.
Lo stesso vale per la proprietà pubblica: ciò che è di tutti è di nessuno, come spesso si dice. Di fatto, ciò che è pubblico viene gestito attraverso pratiche e procedure amministrative da un gruppo ristretto di persone che impongono le regole per l’accesso e il godimento dei beni. Per chiudere il cerchio, ad oggi, la proprietà pubblica è sempre più sottoposta a logiche di privatizzazione, alla privazione cioè del comune. La cattiva gestione e lo stato di abbandono in cui versa, sempre più frequentemente, la proprietà pubblica costituiscono premessa e alibi per la sua svendita.
Gli spazi sociali – è questo il loro punto di forza – non rientrano in nessuna delle due tipologie. Si fondano sul diritto all'uso a prescindere dalla proprietà, pubblica o privata che sia, sottraggono un "bene" all'abbandono o alla speculazione e lo recuperano ad un uso sociale, mentre la proprietà lo condanna all'indisponibilità.
Con un paradosso solo apparente, praticano la riappropriazione per istituire l'inappropriabile. Un bene può essere usato senza appropriarsene, senza cioè escludere altri dal suo uso: anzi è proprio l'uso slegato dalla proprietà che permette la sua autentica riqualificazione e riconversione nel senso dell’utilità collettiva. Per questo rivendichiamo la legittimità dell'uso, contro la legalità della proprietà. La Carta afferma una più alta legittimità dell’uso. Con una contraddizione solo apparente, le pratiche di occupazione e di riappropriazione dei beni dismessi o sottoposti alla speculazione, non istituiscono una nuova proprietà ma l’inappropriabile. L’inappropriabile è la regola fondativa di ogni atto di occupazione. In questo modo l’occupazione è un atto che crea diritto, e non un atto di illegalità.

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