Tutta la precarietà che resta dopo il nuovo articolo 18

Wed, 01/10/2014 - 12:02
di
Salvatore Cannavò (da Il Fatto quotidiano)

La direzione del Pd ha partorito una nuova, forse l’ultima, ipotesi di riforma dell’articolo 18. Ma ha dato il via libera ad altre idee di Renzi: l’abolizione della precarietà, in particolare con la cancellazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa (Co.co.co) e dei contratti a progetto (co.co.pro.); la riforma dei Servizi per l’impiego, gli ammortizzatori sociali.

1.Cosa prevede la nuova formulazione sull’articolo 18?
La mediazione che Renzi ha offerto alla minoranza, illustrata chiaramente dal ministro Poletti, si basa sul mantenimento dell’articolo 18 per i licenziamenti discriminatori (per religione, sesso, nazionalità, etc.). Renzi ha recuperato anche il licenziamento disciplinare tra quelli che, se comminati ingiustamente, prevederanno il reintegro (resterebbe l’attuale formulazione?). Per i licenziamenti economici, invece, rimane solo l’indennizzo.

2.Che vuol dire cancellare i contratti di collaborazione?
Il contratto di collaborazione continuata e coordinata è stato istituito nel 1997 dal “pacchetto Treu”. Nel 2003, anche considerato il suo abuso da parte delle imprese, è stato superato con la legge Biagi dal contratto a progetto (a eccezione di alcuni casi come il lavoro pubblico, gli iscritti agli albi professionali, etc.). Si specifica più chiaramente l’oggetto della mansione per evitare la reiterazione di contratti aventi la stessa finalità. Al lavoratore viene applicata la ritenuta previdenziale al 27% (33% entro il 2018) oltre ad altre tutele sociali. Anche in questo caso, però, c’è stato un largo utilizzo da parte dei datori di lavoro per aggirare un rapporto di lavoro subordinato. A fine 2013, però, l'insieme dei rapporti di collaborazione rappresentava solo il 7% dei rapporti di lavoro con una forte tendenza alla diminuzione.

3.Che fine farà il contratto a tempo determinato?
Questa forma di rapporto è quella più largamente utilizzata con il 68% dei nuovi rapporti di lavoro (ministero del Lavoro). Inoltre, sui rapporti a tempo determinato attivati nel 2013, il 46,3% ha avuto una durata inferiore al mese, il 19,3% tra due e tre mesi, il 31,9% tra 4 e 12 mesi e solo il 2,5% ha superato l’anno. Il decreto Poletti, cioè la prima versione del Jobs Act, ha portato a 5 i rinnovi possibili entro 36 mesi in assenza di causale del contratto stesso. Con il contratto a tutele crescenti che fine fa questo tipo di contratto? Finora non è chiaro.

4.Quali altri contratti rimangono oltre ai co.co.pro?
Il contratto indeterminato pesa per il 16,4% sui rapporti di lavoro avviati nel 2013. Accanto a questi c’è il contratto di apprendistato che ha un’incidenza del 2,5% e riguarda i giovani dai 15 ai 29 anni. La tipologia è stata più volte rivista per allentarne le rigidità e permettere, ad esempio, di alleggerire i vincoli sui programmi di formazione. C’è poi un 6% di altre tipologie che pure rappresentano una quota importante: lavoro intermittente, interinale. In crescita il lavoro accessorio.

5.Cos'è il lavoro accessorio e cosa c'entra con i mini-job tedeschi?
Il lavoro accessorio ha un posto importante nella delega-lavoro. Nato con l’idea di far uscire dall’illegalità una serie di piccoli lavori all’interno del tetto dei 5000 euro l’anno, è via via cresciuto. Questi “lavoretti” (giardinaggio, ripetizioni, pulizie) sono pagati con i “buoni lavoro”, i voucher acquistabili anche dal tabaccaio e comprensivi di copertura Inps e Inail. Secondo i dati dell'Inps, nel 2013 i lavoratori che complessivamente hanno avuto accesso a questa formula sono stati 950 mila per un importo medio di soli 527 euro annui. Il 63,5% ha meno di 40 anni e la maggioranza è composta da donne impiegate nel commercio. Si tratta del rapporto di lavoro più in sintonia con i mini-job tedeschi. Per questo il governo intende alzare il limite dei 5.000 euro annui.

6.Quanto contano le partite Iva e che fine fanno?
Un ruolo decisivo nella precarietà oggi è occupato da quelle che vengono definite false partite Iva. Queste regolano l’erogazione di attività professionali svolte in forma autonoma con, appunto, regolare partita Iva. Nel corso degli anni, però, molte forme di lavoro subordinato sono state trasformate in questa tipologia di lavoro – al pari della associazione in partecipazione – che secondo lo studio del Laboratorio politiche sociali del Politecnico di Milano – riportato da Dario Di Vico sul Corriere della Sera – è pari al 12% di quelle complessive: circa 400 mila unità. Una cifra superiore ai contratti di collaborazione o agli apprendistati. Che succederà a questa tipologia?

7.Senza l'articolo 18 lo Stato deve “prendersi cura” di chi perde il lavoro. In che modo?
Chi perde il lavoro può beneficiare di sussidi legati all’azienda – cassintegrazione, mobilità – e dell’Aspi. I servizi per l'impiego, le vecchie agenzie di collocamento, sono però utilizzati da una percentuale bassissima di disoccupati. Renzi propone di istituire un’Agenzia nazionale per l’impiego, partecipata da Stato, regioni e province autonome e vigilata dal ministero del Lavoro. A questa agenzia vorrebbe affidare anche la gestione dell’Aspi, “coinvolgendo le parti sociali” come ha sottolineato ieri in direzione Pd. Un’opportunità allettante per i sindacati. La stessa Aspi dovrebbe essere leggermente ampliata con lo stanziamento di 1,5 miliardi nella legge di Stabilità. Che però sono davvero pochi per un’effettiva universalità. A meno che dietro ci sia l’ipotesi di abolire la cassa integrazione, sia pure in parte.

Tfr in busta paga, rischio rapina
Confindustria stima l’ammontare delle risorse disponibili in 22-23 miliardi di euro. Se a Matteo Renzi riesce l’operazione di modificare il Trattamento di fine rapporto (Tfr), l’impatto complessivo sull’economia può essere importante. Altrettanto, però, quello sulle tasche dei lavoratori che, nell’immediato, si vedrebbero aumentare la busta paga ma in prospettiva perderebbero un istituto importante come la liquidazione.
L’idea di trasferire il Tfr nel salario mensile era stata anticipata una settimana fa dal Sole 24 Ore ed è stata ribadita ieri da Renzi alla direzione del Pd. Un’idea solo abbozzata di cui non si conoscono le modalità precise, ma che potrebbe basarsi su questo schema: si prende il flusso annuo attuale, i 22 miliardi appunto – senza quindi toccare lo stock accumulato storicamente che non può essere modificato – e se ne mette il 50% in busta paga. “Si tratta di andare nella direzione di aumentare il salario, stimolare i consumi”, dice Renzi, e si aggiungerebbe così agli 80 euro già elargiti dal governo. Quindi un sostegno misurabile in mezzo stipendio mensile all’anno. Ma cosa accadrebbe all’altro 50% che resta nelle disponibilità delle imprese? Renzi non lo ha detto.
Occorre ricordare che già oggi, con la riforma del 2007, nelle imprese sopra i 50 dipendenti, il Tfr viene spostato, previo consenso del lavoratore, ai fondi pensione e comunque le imprese lo devono versare, qualunque sia la scelta del dipendente, in un apposito fondo presso la tesoreria Inps. Sotto quella soglia, invece, resta in vigore la gestione di questa preziosa liquidità, che è salario differito, da parte delle aziende. Metterlo in busta paga rischia però di essere un onere che le imprese più piccole non possono permettersi. E infatti ReteImprese, che rappresenta le categorie del terziario, del commercio e dell’artigianato, dichiara che “in questa fase di perduranti difficoltà per il nostro sistema produttivo, è impensabile che le piccole imprese possano sostenere ulteriori sforzi finanziari”. Il Tfr, infatti, viene utilizzato storicamente come liquidità delle aziende che, per il “servizio” devono corrispondere ai propri dipendenti un tasso annuo dell’1,5% maggiorato del 75% dell’andamento dell’inflazione. A tassi attuali si tratta di poco più del 3%, un costo impensabile presso le banche.
A questa obiezione Renzi ha già risposto ipotizzando un accordo con l’associazione delle banche, l’Abi, per garantire la liquidità necessaria, anche utilizzando le recenti misure predisposte dalla Bce.
Resta però il mistero su cosa succederà al restante 50% che potrebbe restare in azienda.
In Confindustria si ipotizza che quella quota possa servire a ridurre il costo del lavoro, quindi a finire nelle casse delle aziende. Una eventualità che rappresenterebbe una vera e propria sottrazione di risorse più o meno indebita. Nel sindacato, si teme infine un altro rischio: quello che la corresponsione del Tfr venga pian piano assorbita da mancati aumenti contrattuali. In questo modo resterebbe la semplice soppressione della liquidazione.