Renzi e il lavoro dei padroni

Sat, 01/03/2014 - 11:26
di
Big Bill Haywood

Renzi o non Renzi, le nuove rilevazioni Istat sull’andamento del mercato del lavoro parlano chiaro. I dati nel mese di gennaio 2014 ci consegnano uno scenario inquietante: il tasso di disoccupazione è balzato al 12,9%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su dicembre e di 1,1 su base annua. Un ecatombe! In Europa, invece, il dato resta fermo al 12%. La disoccupazione giovanile, tra i 15 e i 24 anni è pari al 42,4%. I disoccupati italiani, sfiorano i 3,3 milioni. Il dato è il più alto dal 1977. Se nei tempi descritti dall’agenda Renzi il problema del lavoro si risolve in un mese per poi passare ad una nuova questione, be' siamo di fronte ad un vero stregone, a cui affidare i destini di milioni di persone. Peccato per il Super giovane premier - e soprattutto per noi - che la realtà è più complessa.
Alla luce di questo bollettino di guerra, il neo presidente Renzi non ha perso occasione per ribadire l’urgenza del Job Act, ossia una riforma del mercato del lavoro che “istituzionalizza” e legittima la precarietà come unica forma di lavoro, in cambio di un esiguo “reddito di miseria”.
Queste dichiarazioni rendono inequivocabili le intenzioni del nuovo Governo. Proseguire nel solco già tracciato dai suoi predecessori, facendo dei diktat dell’Unione Europea e delle politiche neoliberiste il proprio credo. Insomma, gli attori passano ma la sceneggiatura rimane la stessa.
E’ interessante osservare come precarietà e flessibilità, vere cause di questa disoccupazione dilagante, vengano utilizzate dal capo dell’esecutivo come la soluzione in grado di risolvere il problema occupazionale. E’ sempre lo stesso mantra fin dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 che lanciò la Strategia europea sull’Occupazione (SEO): più flessibilità in cambio di più sicurezza! La solita minestra riscaldata che in questi 15 anni ha distrutto le vite dei lavoratori del Vecchio Continente e generato un esercito di precari. I dati dell’Istat dovrebbero far riflettere sull'assenza di correlazione tra flessibilità e aumento dell’occupazione, dimostrando anzi trend inverso, tra l’altro già rilevato nel 2008 dall’OCSE presieduta dall’attuale Ministro dell’Economia Padoan, che aveva evidenziato come con l’aumento dei contratti atipici, dal 1996 al 2008 l’indice della rigidezza della protezione dell’occupazione (strictness of employment protection) è sceso da 3,57 a 1,89.
L’idea di lavoro che il Governo Renzi ha in mente emerge anche dalla composizione della squadra di Ministri di cui si è circondato, in particolare spiccano i nomi di Federica Guidi come Ministro dello sviluppo economico e Giuliano Poletti come Ministro del lavoro. La prima figlia di un imprenditore italiano che ha interessi in aziende come Finmeccanica e Bredamenarinibus, - che negli ultimi anni hanno licenziato migliaia di lavoratori - nonché fiera sostenitrice, insieme al caro papà, delle delocalizzazioni aziendali: la Ducati energia (azienda principale della famiglia Guidi) negli anni Ottanta aveva 600 lavoratori, in gran parte operai. Dopo trent’anni i dipendenti sono 200, in larga parte impiegati e tecnici, mentre gli operai sono solo 60. Eppure l’azienda è cresciuta, e molto. Com’è possibile? Semplice. In Italia non ci sono più le linee produttive: papà Guidalberto le ha spostate, poco per volta, in Romania, Croazia e India. Poletti invece viene dal mondo delle cooperative rosse, salite recentemente agli onori della cronaca per il modello di lavoro e contrattazione riservato a migliaia di lavoratori della logistica.
Nel giorno dello sciopero generale della logistica, "i lavoratori in lotta per la dignità e i diritti" hanno bloccato sia la produzione che la circolazione delle merci alla Granarolo di Bologna e Modena (e non solo), e adesso al governo è presente direttamente chi è stato (ed è ancora!) al vertice di un sistema di sfruttamento fondato sui soci lavoratori, sull'utilizzo della "cooperazione" e del lavoro migrante, come mix di agevolazioni fiscali e gestione di risorse per raggirare la forza lavoro, ricattarla smantellando diritti, tutele e salario. Non a caso il neo ministro del Lavoro si è mostrato entusiasta del Job Act, e per combattere la disoccupazione propone lo sfruttamento di giovani a costo zero (o quasi) attraverso un programma di formazione e inserimento professionale finanziato dall'Unione Europea e destinato ai disoccupati con meno di 25 anni, la cosiddetta Youth Guarantee.
Argomentazioni queste che dovrebbero far vacillare la fiducia anche nei più ottimisti sostenitori di questo Governo in evidente continuità con quelli del passato. L’idea di lavoro che emerge è ancora l’idea dello sfruttamento. Il lavoro esiste in quanto domanda da parte dei padroni, non esistono tutele, non esistono diritti. Chi lavora si dovrà sentire un privilegiato senza pensare ad avanzare alcuna richiesta. In quello che negli anni è stato definito lavoro “atipico” c'è di fatto un “ritorno alle origini”, a quelle forme di lavoro ad intermittenza, cottimo, senza tutele e diritti che sono da sempre le forme di sfruttamento utilizzate dal capitale per salvaguardare i propri profitti e che hanno avuto un breve freno negli anni a cavallo tra la seconda guerra mondiale e i primi anni 80.
Un tasso di disoccupazione così alto non si aveva dal 77. Rispetto a quegli anni la percentuale è rimasta la stessa, ma è cambiato il contesto. Alla rabbia dilagante e alla voglia di lottare di quegli anni si sta sostituendo una rassegnazione di massa, come se le politiche che vengono adottate siano frutto di un destino ineluttabile; rassegnazione che nel peggiore dei casi provoca individualismo, senso di colpa, impotenza. Bisogna costruire dei percorsi che siano in grado di mettere in discussione questa idea di lavoro, con pratiche di mutuo soccorso per resistere tutti insieme ad una precarietà che si fa esistenziale. Prendere coscienza della propria condizione per immaginare un modo di lavorare alternativo che fa della cooperazione e dell’autogestione conflittuale un modello da perseguire e da imporre a Governi e padroni. Togliere insomma ai padroni il monopolio della lotta di classe, per tornare ad essere pratica di chi vede le proprie vite devastate in nome del profitto.