[Precarietà a tempo indeterminato/2] Che genere di lavoro?

Fri, 04/07/2014 - 10:36

La direttrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde, in un'intervista esclusiva al Corriere della Sera di qualche mese fa, ammoniva l'Italia per la poca partecipazione delle donne al mercato del lavoro e consigliava una virata al governo Renzi: «Un cambiamento di rotta, a parte ogni considerazione di progresso sociale, potrebbe avere effetti benefici sulla produzione di reddito aggiuntivo e, quindi, sull’uscita da un periodo di stagnazione». E lodava le scelte fatte dall'Olanda «che ha dato la possibilità di creare lavori flessibili part-time senza alcuna restrizione».
Soluzioni per nulla nuove e facilmente confutabili.

A guardare i dati ufficiali del nostro Paese, sembra quasi che la partecipazione delle donne al lavoro abbia conosciuto una crescita a fronte del calo che ha colpito i lavoratori maschi: tra questi ultimi gli occupati nel primo semestre del 2013 sono diminuiti di 520.000 unità, mentre le donne occupate sono aumentate di 45.000 unità.
Le donne risultano più occupate per una serie di motivi, tutti legati alla crisi economica o ai rimedi ad essa: la maggiore permanenza sul lavoro a seguito della riforma delle pensioni; la necessità di integrare il reddito familiare in tempo di crisi economica; la richiesta di lavori di cura e assistenza, laddove lo Stato sociale è sempre più carente.
Quello che sembra un aumento della partecipazione delle donne al lavoro, rimane però entro il primato negativo delle italiane rispetto alle europee, con un tasso di attività femminile che si assesta intorno al 53,5%, a confronto del 65,8% nel resto del continente.
Inoltre, c'è l'impiego delle donne come esercito di riserva, da pagare meno: a parità di altre condizioni, in media la retribuzione oraria delle donne è dell’11,5% inferiore a quella degli uomini.
Svantaggio che si ritrova anche nelle retribuzioni di chi ha una laurea: gli uomini che hanno un titolo di studio elevato guadagnano in media il 19,6% in più rispetto a chi ha il diploma, per le donne lo scarto tra i diversi livelli di istruzione si riduce al 14,9%.

La situazione italiana mostra ancora una condizione femminile legata al lavoro di riproduzione e poco partecipativa nella sfera della produzione. Condizione aggravata dalla mancanza di servizi sociali e sanitari e da un divario retributivo di genere consistente.
La sempre crescente difficoltà di vedere applicata la legge 194, la crescita dell'obiezione di coscienza e delle retoriche pro-vita, lo sbandieramento della famiglia tradizionale come unico modello riconoscibile, appaiono come elementi ideologici necessari a un'economia che vuole scrollarsi di tutti i costi sociali e farne ricadere il peso sulle famiglie.
In questo impianto ogni deviazione dalla norma è una minaccia: così il capitale dimostra un incessante bisogno di reprimere o di sussumere e normalizzare le istanze che via via gli vengono contrapposte.
Queste istanze hanno la potenzialità di mettere in crisi i modelli socialmente accettati e aprire delle consistenti brecce, purché si sottraggano all'avviluppamento del sistema. Il matrimonio egualitario e l'omogenitorialità stanno rischiando di imporsi come nuovi e unici modelli alternativi di famiglie dello stesso sesso, a scapito di altre e diverse forme che necessitano di riconoscimento e tutela.
È per questo che oggi più che mai, le lotte delle donne, delle lesbiche, dei gay, trans e intersex devono tornare a essere protagoniste e non possano essere slegate dalle battaglie per un nuovo modello di welfare.
Un nuovo welfare che non può più essere improntato su un'idea anacronistica di famiglia, e deve nascere dall'opposizione allo smantellamento dei diritti e della dignità del lavoro e dal rifiuto totale delle politiche di Austerity.
L'attacco ai diritti, come quello a un aborto gratuito e assistito, i tagli al sistema sanitario operati dalle politiche di Austerity che distruggono lo Stato Sociale, cancellano il diritto alla salute e acuiscono, in qualche modo, la subordinazione delle donne e dei soggetti lgbti, ponendo gravi limiti alla propria autodeterminazione.

Analizzare le intersezioni fra le oppressioni razziali e di genere con lo sfruttamento del lavoro, è necessario per una corretta analisi e per pensare una strategia vincente di lotta.
Cinzia Arruzza, parlando di queste intersezioni, suggerisce un valido esempio: «per analizzare il rapporto fra mercificazione del lavoro di cura e la razzializzazione dello stesso, non si può prescindere dall'analisi delle politiche migratorie repressive, perché esse sono funzionali ad abbassare il costo del lavoro migrante e a forzarlo in direzione di condizioni semi-servili».
L'utilizzo di soggetti oppressi in modo funzionale alla ricerca del profitto, è un'indicazione chiara della relazione tra oppressione e sfruttamento: le leggi economiche non sono pure, non sono cioè indipendenti dai meccanismi di dominio e oppressione.
Quando il capitalismo ha avuto la necessità di scaricare sulla famiglia il lavoro della riproduzione, la subordinazione delle donne ne ha garantito il risultato. La partecipazione delle donne nel mondo lavorativo non è un fatto recente, ma è stata una costante di tutti i secoli: quello che ha fatto il capitalismo, è stato usare alcuni elementi preesistenti (a livello sociale e culturale) a proprio vantaggio.
La distinzione tra lavoratrice e casalinga è nata solo col boom economico degli anni Sessanta, quando anche in Italia la produzione si orientò verso i dettami tayloristi e fordisti. La retorica voleva che un operaio, con il suo stipendio, potesse mantenere da solo la famiglia, mentre la moglie si occupava della casa e dei figli. Il lavoro riproduttivo viene confinato nelle mura domestiche, ma non per questo si separa dalla produzione. Le donne sono scomparse dal discorso sul lavoro, in particolare da quello di fabbrica, ma hanno continuato a lavorare, sia nella sfera privata che in quella pubblica. A garantire, quindi, al sistema un corretto funzionamento, perché «il modo di organizzazione della riproduzione sociale mantiene un intrinseco rapporto con il modo in cui sono organizzate la produzione e la riproduzione della società nel suo complesso, e dunque con i rapporti di classe».

Negli anni Settanta il tema del lavoro e del salario erano centrali nelle rivendicazioni delle femministe. Anche se formalmente, la parità di salario era stata riconosciuta nel 1960, di fatto non era una realtà. Solo un salario Per lungo tempo i sindacati sono rimasti indifferenti alla rivendicazioni delle donne, che oltre a una retribuzione inferiore, dovevano convivere col ricatto di perdita del lavoro, in caso di matrimonio o maternità.

Negli anni in cui il femminismo era più forte è iniziato un processo di femminilizzazione del lavoro, che ha almeno un duplice significato: che le donne sono sempre più partecipi al lavoro di produzione, ma anche che l'impiego della forza femminile svolge un ruolo essenziale dal punto di vista del capitale, con la riduzione del lavoro nel suo complesso alle condizioni di precarietà e carenza di diritti che tradizionalmente ha caratterizzato quello femminile. Le donne hanno continuato ad essere parte dell'esercito di riserva nel mercato del lavoro e la svalutazione delle loro mansioni sarebbe volta a tenere bassi i salari di tutta la classe lavoratrice. Questo fenomeno è quello che Lidia Cirillo definisce emancipazione malata.

Le donne nel mondo del lavoro subiscono una segregazione di genere, che si articola in:
Una segregazione orizzontale, cioè la tendenza di un genere a occupare solo determinati settori, a causa degli stereotipi sociali.
Una segregazione verticale, relativa alla presenza ridotta delle donne ai vertici, nonostante l'aumento delle donne laureate e qualificate.
Negli ultimi anni è invece in crescita la segregazione contrattutale, cioè la diversa distribuzione di genere nelle differenti tipologie di contratti esistenti. Nella crescita di forme di lavoro atipiche, le lavoratrici sono quelle più precarie e con meno diritti. Anche fra i giovani, le più svantaggiate sono sempre le donne.

Il tasso di inattività è un altro parametro che la dice lunga, su quanto le donne non lavorino perché disincentivate dalle condizioni del mercato, schiacciate spesso nella difficoltà di conciliazione tra il lavoro domestico e quelle esterno.
Se infatti il tasso di inattività degli uomini tra i 15 e i 64 anni è del 26,7% , quasi raddoppia per le donne, arrivando al 46,1%. A fronte di 5 milioni di inattivi maschi, in Italia ci sono quasi 10 milioni di donne che non sono impegnate in alcuna attività e che hanno smesso di cercarla.
Il problema della conciliazione dei tempi di vita è di assoluto rilievo: in Italia solo il 18% dei bambini trova posto negli asili nido pubblici e negli ultimi anni, a causa dei tagli, sta salendo la percentuale dei bambini non ammessi nelle graduatorie delle scuole pubbliche per l'infanzia.
Un'altra importante asimmetria è relativa all'intreccio fra lavoro retribuito e lavoro non retribuito, frutto della separazione fisica e temporale del lavoro di produzione (che è pubblico) e quello di riproduzione (privato, invisibile e percepito come ambito femminile).
Secondo un rapporto Ocse del novembre 2013, ogni donna in Italia dedica 36 ore la settimana ai lavori domestici, mentre gli uomini non vanno oltre le 14. Sono 22 ore di differenza e si tratta del divario maggiore tra tutti i Paesi industrializzati. Le donne impiegano in media 5 ore e 20' nei lavori domestici e di cura della famiglia, mentre gli uomini solo 1 ore e 35 minuti. A fronte delle 6 ore lavorative retribuite, in media, degli uomini e le 4 ore e 28 minuti per le donne.

Un'indagine ISTAT svolta su un campione di famiglie con un figlio tra i 12 e 18 mesi, mostra che il 58,8% delle madri lavorava all'inizio della gravidanza: il 9,7% di esse era stata licenziata e il 20% rispondeva che il motivo era l'inconciliabilità del lavoro con gli impegni familiari.
Questo illustra anche i motivi per cui sempre più donne scelgono, talvolta loro malgrado, di non essere madri o rimandano questo momento in là con l'età, anche a causa della precarietà lavorativa.

Il filone d'indagine l'uso del tempo, promosso da Eurostat si propone di fornire dei dati sulla divisione sessuata del lavoro interno alla famiglia. A questo si aggiunge anche una valutazione della qualità della vita.
Nelle lavoratrici si registra un'insoddisfazione relativa al tempo che riescono a dedicare a sé stesse. Tra le donne meno del 40% riesce ad affermare di poter gestire in modo soddisfacente il tempo libero a sua disposizione. Paradossalmente la situazione peggiora per una madre lavoratrice part-time: confrontando la gestione dei tempi, si intravede come le donne che fanno il part-time non hanno comunque più tempo per sé stesse. Meno lavoro e uno stipendio più basso, comportano maggiori oneri familiari. Questo ci fa pensare che non sia il part-time una strategia vincente.

All'introduzione di contratti lavorativi che aumentano la flessibilità (e in sostanza, la precarietà) delle donne, contrapponiamo un'idea di Stato che si faccia carico del lavoro di cura e che rimetta le donne al centro. Così come è importante dare una risposta concreta al problema della violenza di genere, che si acuisce in contesti di crisi economica, in cui la disoccupazione e i bassi salari costringono i soggetti deboli a ulteriori rapporti di dipendenza.

La chiusura dei consultori, la riduzione dei servizi e degli asili vanno in direzione opposta a quella auspicabile. Per questo l'8 marzo scorso, come Degender abbiamo ritenuto indispensabile la nostra partecipazione in un percorso cittadino, promuovendo la rete #iodecido, volto a rimettere al centro il diritto all'autodeterminazione, all'assistenza gratuita, e a servizi sanitari alla portata di tutti e tutte.

Abbiamo creduto che una rete fosse lo strumento necessario per mettere insieme gli spazi di donne e creare connessioni fra le lotte. Abbiamo partecipato al Roma Pride 2014 perché crediamo alla possibilità di mettere in discussione le norme egemoniche e proporre l'elaborazione di un discorso alternativo: contro l'invisibilità a cui sono costretti i soggetti LGBTI, contro le politiche di diversity management e la retorica becera di “valorizzazione delle capacità femminili dei gay” o la concessione di qualche minimo diritto per rendere lavoratori e lavoratrici più docili e produttivi.
Per ribadire che il riconoscimento di un diritto, come ad esempio il matrimonio, perde di significato se non si accompagna alla difesa di tutti i diritti: sul lavoro, sulla salute, sull'istruzione, sulla mobilità etc.
C'è bisogno di uno sforzo di indagine su come classe, genere e razza si intreccino nelle relazioni di potere del capitalismo e contrapporre a questo potere un progetto complessivo di liberazione.
Pensare al mutuo soccorso non solo come uno strumento pratico di supporto all'azione, ma come esperienza viva delle connessioni fra le lotte. Un patto di solidarietà e reciproca alleanza fra le lotte, che non cada nella trappola di creare delle gerarchie fra le lotte stesse, ma un meccanismo grazie al quale le singole lotte e soggettività si oppongano allo sfruttamento come parti di un ingranaggio collettivo.