[Precarietà a tempo indeterminato/1] Composizione di classe

Fri, 04/07/2014 - 10:27

Pubblicheremo nei prossimi giorni i materiali e le relazioni del seminario nazionale del Network Communia "Precarietà a tempo indeterminato tenutosi il 20 e 21 giugno a Roma. Materiali utili all'analisi della calsse e della sua composizione, ma anche per approfondire sperimentazioni di organizzazione del moderno conflitto sociale. Il progetto è pubblicare queste riflessioni anche in forma cartacea per il prossimo Communia Fest. Intanto buona lettura.

Lo scopo del presente contributo è quello di definire uno sguardo d'insieme sul nostro seminario. Con un'attenzione alle tendenze statistiche della composizione di classe, alle dinamiche del capitale sia pure per sommi capi e con una descrizione che richiederà sempre un approfondimento costante.
Parlare di composizione di classe, infatti, può divenire un esercizio conoscitivo fine a sé stesso che rischierebbe, come avvenuto più volte in passato, di alimentare l'abbondante ricerca sociologica senza offrire utili avanzamenti alla ricerca e all'iniziativa politica.

I numeri del lavoro
La classificazione delle forze lavoro non è difficile da farsi. Si prendano i dati Istat riferiti al 2012. Essi indicano una forza lavoro complessiva di 22,899 milioni di individui di cui 17,214 milioni sono lavoratori dipendenti, comprensivi dei lavoratori pubblici: 5,1 milioni sono occupati nell'Industria, poco più di un milione nelle Costruzioni, 11,6 milioni nei Servizi. La classificazione, redatta dall'Istat, basata quindi sulle qualifiche contrattuali, individua 7,9 milioni di dipendenti come Operai e 7,5 come Impiegati. Il resto sono quadri, funzionari e altre qualifiche. Gli operai, dunque, intesi come qualifica rappresentano il 34% della forza lavoro complessiva (erano intorno al 45% negli anni 70) ma raggiungono il 45% del lavoro dipendente in senso strettamente inteso. Da notare, però, che solo il 22% della forza lavoro e il 29% del lavoro dipendente è occupato nell'industria in senso stretto, a sua volta formata da una miriade di imprese piccole e piccolissime. Solo il 30% della manodopera, infatti, è impiegato nell'industria sopra i 50 dipendenti (verificare dati).
Per quanto riguarda la definizione di precarietà, invece, si può utilizzare il monitoraggio realizzato dall'Isfol nel 2011 da cui, sostanzialmente, deriva una composizione della forza lavoro divisa in una maggioranza di 65% di contratti a tempo indeterminato e il restante terzo diviso tra:
- contratti a tempo determinato (5,9%)
- apprendisti (1%)
- contratti a termine (inserimento, interinale, job sharing 2,4%)
- collaboratori (5,8% tra cui i Co.co.co, i Co.co.pro. gli occasionali)
- un generico 3,3% tra cui tirocinii, stage e alternanza studio-lavoro
- un 17,2% di lavoratori autonomi tra cui partite-Iva, soci di cooperativa, coadiuvanti familiari e imprenditori.

La precarietà stabilizzata
Riepilogando, in Italia ci sono circa 15 milioni di lavoratori con contratti a tempo indeterminato e circa 3,5 milioni di lavoratori con contratti molto differenziati tra loro ma tutti abbastanza precari (anche se molti collaboratori sono di alta fascia e quindi protetti). Poi ci sono circa 3,9 milioni di lavoratori autonomi tra cui esistono ulteriori forme di lavoro parasubordinato (partite Iva, etc.). Dato da non trascurare in nessun modo è quello dei lavoratori stranieri: 2,3 milioni secondo i dati di Bankitalia. Dei 22,9 milioni di lavoratori occupati, 13,4 milioni sono uomini e 9,5 donne a cui aggiungere, a fine 2012, 2,7 milioni di persone formalmente in cerca di occupazione (1,4 milioni uomini e 1,3 donne).
La tendenza è chiaramente indicata dall'indagine già citata: “Un dato per tutti” scrive l'Isfol è che “la diffusione del contratto per antonomasia, quello da dipendente a tempo indeterminato, si è dimezzata in 10 anni”. Nel frattempo “l'occupazione si è progressivamente parcellizzata in forme contrattuali meno stabili e tutelate nel tempo”. Questo significa che “i giovani sono sempre più atipici e la loro precarietà si prolunga nel tempo”. Il fenomeno del lavoro “non standard”, cioè quello diverso dal contratto a tempo indeterminato, come fase iniziale e momentanea della carriera è, per un ingente numero di persone, una parentesi che dura molto a lungo, anche oltre il 10-15 anni.
A questi numeri, però, occorre aggiungere quelli relativi alla forza lavoro espulsa dal sistema produttivo. Non solo 3 milioni, circa, di disoccupati ma anche 3,2 milioni di inattivi, persone che hanno smesso di cercare lavoro ma che vorrebbero lavorare. Sei milioni su 23 milioni è più del 20%, una fetta della "classe" quasi sempre assente dalle priorità politiche.

Si chiude una parentesi
La precarietà del lavoro, quindi, è una “parentesi che dura molto a lungo”, anche oltre i 10-15 anni. Per effetto della crisi, però, la precarietà ritorna anche nella fase di uscita dal mondo del lavoro, sopra i 50 anni oppure anche meno quando si verificano le crisi aziendali.
In realtà, la parentesi effettiva è la stabilizzazione. Il mondo del lavoro, infatti, torna a prima do un'altra parentesi storica nella storia del capitalismo occidentale, quella dei “trenta gloriosi” (la fase di crescita dal '45 al ''74 - che hanno permesso l'avanzata operaia degli anni 60 e 70. I rapporti di classe tornano alla loro normalità storica, la precarietà diventa, tendenzialmente, la norma del rapporto di lavoro e la capacità di comando del capitale, grazie anche alla sua invisibilità globale, si fa estrema. Utilizza tutti gli strumenti a propria disposizione, gli stati o gli organismi sovranazionali, l'azienda globale e quella settoriale/locale, la propaganda e la formazione.
L'esempio di questa tendenza è dato dal processo di precarizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro che data dal 1997, anno del Pacchetto Treu, e arriva al Decreto Renzi-Poletti. Con quest'ultimo più che aggravare una situazione già grave si sancisce l'ineluttabilità di una linea economica: il mercato del lavoro va de-strutturato e riadattato a una domanda di lavoro che si fa strutturalmente saltuaria e incostante. L'esempio macroscopico di questa ipotesi è dato dai “mini-jobs” tedeschi, contratti di lavoro progettati per costruire una massa di manovra super-flessibile e precaria che si pensa stabilmente così. Lavorare con i “mini-jobs” infatti, significa non pensare di poter accedere a un contratto di livello superiore ma impostare la propria vita sulla base di quella tipologia contrattuale, di quei livelli di reddito e di quei ritmi di vita (servono almeno due mini-jobs da 4-500 euro l'uno per avere un reddito di povertà).
Sia con il pacchetto Treu che con la legge Biagi il lavoro a tempo determinato era pensato come ipotesi che prima o poi si sarebbe interrotta per permettere l'accesso a un contratto a tempo indeterminato. Oggi il lavoro precario è organizzato come forma stabile della relazione di classe, i due comparti vengono sganciati l'uno dall'altro e si costruisce un serbatoio di serie B che sarà sempre più voluminoso e importante a scapito del lavoro garantito e sicuro. Non solo, l'esistenza del secondo contribuisce a rendere meno stabile e certo il primo generalizzando la precarietà a tutto il mondo del lavoro. Da questo punto di vista, anche ipotesi come il contratto unico a tutele crescente sarebbero progressive e migliorative della situazione attuale. Non è un caso se, anche se sbandierato, viene osteggiato dagli imprenditori e, di fatto, non sarà applicato mai.

Lavoratori, conoscenza, coscienza
La chiara tendenza alla precarizzazione del lavoro si coniuga con un altro elemento, meno quantificabile sociologicamente e più empirico (quindi, più discutibile): l'affermazione di uno strato di lavoratori della conoscenza. Su questo aspetto la letteratura è ormai sterminata ma soprattutto è importante l'identificazione politica di alcune aree storiche della sinistra (ex autonomia). I fatti, finora, sembrano aver dimostrato che uno strato, politicamente sensibile, di lavoratori della conoscenza non si è affermato come avanguardia trainante di un moderno proletariato e che attorno a esso non si è verificata nessuna nuova lotta di classe né il capitalismo è riuscito ad affermare un nuovo modo di produzione (v. Formenti). Però questa realtà esiste e ha agito in due direzioni: ha senz'altro alimentato la catena del valore garantendo consistenti aumenti di produttività e, quindi, di sfruttamento mentre dall'altro, ha generato una funzione di traino rispetto a tutto il mondo del lavoro. Non esiste, cioè, solo una componente che ha realizzato l'esplosione delle grandi, e piccole, compagnie del "capitalismo informazione" ma una quantità di conoscenze, sempre più ampie, diffuse, sia pure confusamente, che rendono la moderna classe molto diversa dall'immagine plastica che la tradizione comunista ne ha fatto. Una classe in cui, ad esempio, si accorcia la distanza tra "operai" e "quadri" anche perché si fa diffondendo lo schema di lavoro a "team" (vedi Fiat). Il moderno proletariato, quindi, ha flussi di coscienza molto più intrecciati e complessi: forma la consapevolezza di sé sul posto di lavoro, fuori, sulla "rete", mentre consuma o si informa su cosa consuma, etc. Se è vero che "la società della conoscenza" non ha innescato un nuovo "modo di produzione capitalistico", è vero però che il capitalismo globale, le sue relazioni di classe, le sue contraddizioni sono fortemente permeati dall'era della conoscenza. La stabilizzazione della precarietà entra in conflitto, quindi, con l'accresciuto grado di conoscenza dei lavoratori e lavoratrici di questo secolo. Le due tendenze sono opposte e, ovviamente, generano una moltiplicazione di contraddizioni (la conoscenza può svilirsi al crescere della precarietà) ma consegnano una "classe" che appare più mutevole e dinamica di quanto possa sembrare in superficie.

La finanziarizzazione del capitale
A fronte del processo di precarizzazione abbiamo, invece, un capitale che, per effetto della crisi di sovra-produzione, ha dirottato le sue risorse verso la finanza. Se negli Usa il tasso medio della produzione si collocava negli anni 60 tra il 5 e il 6 per cento, nel 2010 era sceso al 2; nei paesi europei, invece, è passato dal 10% a zero. Dai tassi di crescita del 5-6 e anche 8 per cento degli anni 60 nei paesi occidentali si scende al 3% degli anni 70 e all'1,5% degli anni 2000. Contemporaneamente, negli Usa il tasso medio di profitto ha toccato il picco del 16% nel 1966 per scendere al 10% del 1975. Gli utili che scarseggiavano nell'economia produttiva sono stati ricercati nella finanza. Mentre nel 1980 gli attivi finanziari mondiali erano all'incirca pari al Pil mondiale, nel 2007, alla vigilia della crisi, lo superavano di quattro volte (circa 240 trilioni di dollari contro 60). “Poiché la ricerca di profitto nella sfera della produzione – scrive il sociologo Luciano Gallino – appariva sempre più difficile, le imprese si sono poste a cercarlo nella sfera della circolazione”. I soggetti da cui si estorce plusvalore si estendono a figure professionali fino ad allora rimaste in disparte. Il mondo finanziario, quello dei servizi, l'immobiliare, tutto diventa un potente strumento di sostegno ai margini di profitto complessivi. Le filiere di allungano e si diversificano.

Centralità del debito
Tra le conseguenze della ricerca di profitto nel campo della finanza c'è l'esplosione del debito. Emblema del moderno giogo a cui il capitale sottopone una popolazione sempre più ampia è la questione del credito, e quindi del debito, ipotecario nei confronti delle banche. Se prima, per erogare un mutuo ipotecario, si cercava l'assoluta affidabilità degli individui e delle famiglie, a un certo punto le banche hanno interesse a erogare credito a chiunque, alimentando i flussi di cassa anche tramite strumenti collaterali (Cdo, Cds, e tutto quello che la finanza ha saputo inventare). Sopra la testa di un semplice mutuo si formano titoli derivati, certificati assicurativi, derivati con tutto il corollario di commissioni che ne discende. Allo stesso tempo, per alimentare questa attività forsennata, le banche si indebitano a loro volta con altre banche in un crescendo di dimensioni epocali. Nel 2007 il valore complessivo dei derivati a livello mondiale superava i 700 trilioni di dollari mentre il valore di mercato delle attività da loro rappresentate non superava i 50 trilioni.
L'operazione ha un impatto innegabile sul fronte della lotta di classe, sia pure all'incontrario. Tra il 1976 e il 2006 il rapporto tra salari e Pil, in Italia, passa dal 68% al 53%. Una perdita di 15 punti che, a valori attuali, equivale a 240 miliardi di euro. Negli Stati Uniti i salari più bassi sono fermi al 1973 in termini reali: nel 2006 erano intorno ai 30 mila dollari l'anno, sotto il livello di trent'anni prima mentre le famiglie dell'1% più ricco percepivano 1,2 milioni di dollari, cioè 40 volte il salario medio. Scendono i salari, aumenta il debito, i creditori sono gli stessi padroni che prima offrivano un lavoro e ora offrono, quando va bene, un mutuo.

Un capitale gassoso
ll capitale, dunque, almeno nell'occidente capitalistico, si ritira parzialmente dalla produzione per alimentare un circuito finanziario perverso che, al tempo stesso, alimenta l'accumulazione e la crescita dei profitti. Si globalizza senza sosta, è sempre più nelle mani di azionisti “invisibili” invece che in quelle delle grandi famiglie proprietarie. Si pensi al ruolo dei manager, azionisti o meno. Gli Stati sembrano avere un ruolo di secondo piano che fa sì, ad esempio, che si affermi il “corteggiamento” del capitale per attirarlo in un determinato paese tramitle misure di riduzione fiscale – e quindi di aumento del debito – e il consolidamento dell'assioma per cui “occorre obbedire ai mercati” oppure “ce lo chiede l'Europa”.
Anche quando ritorna nella produzione, manifatturiera o di servizi, il capitale lo fa nella forma più anonima possibile, estendendo il capitalismo manageriale e l'azionariato diffuso, riducendo la riconoscibilità dei borghesi in carne e ossa (Marchionne viene identificato con la Fiat più di quanto lo siano gli Agnelli).
Il capitale si rende così sempre più inafferrabile, nascosto dietro il volto dei “manager azionisti”. La sua libertà di movimento alimenta questa condizione mentre gli Stati vengono oltremodo delegittimati. Al contempo, la “classe” è stabilmente precaria: per effetto delle dinamiche liquide del capitale, per la crisi del settore produttivo classico – si pensi alla manifattura (secondo Confindustria, nel 2013 il potenziale manifatturiero italiano è tornato a quello del 1990) – per la sovra-capacità produttiva che genera disoccupazione di massa, per effetto delle politiche di svilimento del welfare e di alleggerimento dello stato sociale.
L'impatto di questa tendenza è stato micidiale: alla gassosità del capitale è corrisposto a) il sezionamento costante delle categorie del lavoro classico; b) un'estensione delle figure sottoposte alla catena di valorizzazione del capitale; c) un'estensione della soggiacenza a quest'ultimo tramite i meccanismi finanziari - la nascita de “l'uomo indebitato” di cui parla Lazzarato -.

Il modello dell'alveare
La finanziarizzazione conduce a un processo di concentrazione progressiva del capitale, su scala nazionale e internazionale, che procede di pari passo con la segmentazione delle funzioni e la moltiplicazione dell'indotto. La tendenza è visibile a occhio nudo: in Italia, ancora negli anni 80, si contavano almeno una ventina o trentina di grandi gruppi capitalistici, pubblici e privati, dai fatturati miliardari. Oggi si arriva a circa dieci. In parte è l'effetto di una "spoliazione" straniera ma soprattutto dei processi di concentrazione a livello bancario, industriale, finanziario. La concentrazione avviene, ovviamente, sul lato della proprietà mentre su quello della filiera si può assistere, contemporaneamente, a una parcellizzazione produttiva che replica il modello dell'alveare: un nugolo di "api" operose lavorano per la stessa "regina" e sono condannate ad aumentare a dismisura i propri livelli di produttività pena la sparizione. Il tessuto di piccola e media impresa che impera in Italia si presta perfettamente a questo schema che, lungi dall'ipotizzare una nuova realtà a capitalismo diffuso (il quarto capitalismo di cui parlava Aldo Bonomi) serve, invece, un apparato fortemente centralizzato basato su tanti sotto-insiemi locali, regionali, distrettuali. E' sufficiente che chiudano colossi come Lucchini o Electrolux per mandare in tilt un'intera provincia italiana (nel caso, Livorno e Pordenone: ma l'esempio può continuare con Ancona, Merloni, Bari, Natuzzi, Torino, Fiat, etc.). L'ultimo rapporto del Centro studi Confindustria, "Scenari industriali", descrive chiaramente questa situazione quando sottolinea l'allungamento delle linee di fornitura, a monte e a valle del sistema produttivo, con la loro espansione su aree sovranazionali ma regionalmente definite. La produzione globale continua a concentrarsi in tre grandi poli mondiali - l'est asiatico, l'europeo occidentale e il nord-americano - con l'Italia cerniera tra la centralità tedesca e i flussi nord-africani e mediterranei.
La "classe" quindi, è spalmata nelle tante piccole imprese, spesso delocalizzate in aree non molto distanti (Balcani, nordAfrica) ma fortemente unificata nella catena di produzione del valore. Il sindacato tradizionale accenna qui e là al problema - l'ipotesi di sindacato unico dell'industria, contrattazione di filiera, etc. - senza però averlo mai affrontato realmente e ponendo così le basi della propria emarginazione.

Manifattura con servizi
Il rapporto di Confindustria è utile anche per affrontare un dilemma storico e cogliere una novità rilevante ai fini del conflitto. Il dilemma riguarda il ruolo dell'industria manifatturiera, la sua centralità e il ruolo del terziario. Come abbiamo visto all'inizio, infatti, la quota di addetti del sistema dei servizi, circa 11 milioni, è più che doppia degli addetti all'industria in senso stretto. Da decenni, questo dato è visto come la prova del declino del settore industriale, almeno in Europa, soppiantato dalle nuove economie, del terziario o, più recentemente, della conoscenza. Secondo Confindustria, invece, "la manifattura emerge come centrale all'interno degli scambi tra i diversi comparti dell'economia" e dunque "costituisce il cuore delle interconnessione nel sistema degli scambi". Per sostenere questa affermazione il Centro studi confindustriale evidenzia l'insieme delle relazioni reciproche tra i vari settori in cui la manifattura emerge nettamente come l'ambito primario. La seguono, per importanza, i servizi legati al Commercio, quelli legati al Business e, qui la novità, la Logistica. In questo schema i servizi rappresentano "una quota della produttività della manifattura". Le imprese specializzate nel terziario, insomma, gravitano e vivono attorno all'industria tradizionale e, in gran parte, ne costituiscono una specializzazione o esternalizzazione di fasi produttive. La deindustrializzazione, quindi, è solo "apparente" perché, in sostanza, esiste ancora, anzi cresce, una forte integrazione tra manifattura e servizi i quali, rileva Confindustria, non possono, da soli, sostenere totalmente un'economia nazionale come è stato sostenuto vigorosamente nel mondo accademico. Il testo si riferisce all'ipotesi secondo la quale le economie occidentali starebbero delocalizzando le produzioni industriali verso i paesi emergenti per fondare il proprio sviluppo solo sull'economia della conoscenza e dei servizi ad alto valore aggiunto. Solo che la "delocalizzazione fisica del processo produttivo" alla lunga si trascina dietro anche "parti di servizi a esse legate" perché, nonostante le nuove tecnologie, la "contiguità fisica" tra servizi e industria è ancora decisiva (da qui lo sviluppo di macro-aree regionali). La delocalizzazione, alla lunga - come avvenuto con l'emersione, nel sud-est asiatico, dell'industria delle batterie al litio - "tende a coinvolgere l'intera filiera, depauperando il bagaglio di know-how manifatturiero detenuto dal sistema 'locale' di produzione". Da qui, l'esempio degli Stati Uniti che hanno ripreso a "reimportare" produzione industriale come dimostra, del resto, il caso Chrysler e General Motors.

Classe, la crescita a sua insaputa
Tutto questo ha un impatto evidente sulle dinamiche della classe, le sue relazioni interne e il suo peso specifico. La produzione si centralizza e si diffonde, le scelte vengono verticalizzate ma la produzione si allunga anche a livello sovranazionale - sia pure con concentrazioni regionali e distrettuali - le fasi si diversificano tra la produzione in senso stretto e i servizi che le ruotano attorno. Servizi "a monte" - ricerca e sviluppo, design, consulenza - e "a valle" - distribuzione-logistica, commercializzazione-marketing. Servizi che sono realizzati direttamente dalle imprese manifatturiere - per il 6% del loro fatturato complessivo - oppure vengono poste fuori dal perimetro della fabbrica. L'impresa manifatturiera cresce ovunque nel mondo - tra il 2000 e il 2011 il tasso di crescita è stato del 36% - ma non in Italia che, nello stesso periodo, ha conosciuto un vero e proprio "declino" con una perdita del 25% del proprio potenziale produttivo lasciando a casa un milione di addetti. Torna dunque lo schema dell'alveare con una miriade di centri di produzione, collocati in settori diversi, che concorrono a formare la stessa catena del valore. Manifattura, logistica, servizi per il commercio, distribuzione e così via hanno tra loro una relazione intima ma sempre più sfuggente. La classe cresce a sua insaputa. Se prima, ad esempio, la rete della distribuzione commerciale si avvaleva del classico negozio sotto casa, con la formazione di una classe intermedia di piccoli commercianti, oggi quel servizio viene effettuato dal conducente del furgone di consegna merci la cui società ha come committente Amazon o Ikea, che lavora a ritmi crescenti, con retribuzione minima, spesso con contratti precari. Tra questa figura e la fabbrica-madre ci sono poi i magazzini della logistica che impiegano manodopera straniera, ultra-precaria, etc. Le varie figure proletarie non si rapportano in nessun modo, spesso sono sindacalmente relazionate a categorie diverse mentre lavorano per l'unica catena. L'unità resta il problema di fondo della moderna lotta di classe. Ma l'unità non si fa per decreto.

La politica del capitale
ll fenomeno di finanziarizzazione del capitale e di sbriciolamento dell'identità della classe lavoratrice sembrano coincidere con una riduzione del controllo politico e quindi con l'inutilità dell'azione politica. Il problema si è posto già all'epoca del movimento antiglobalizzazione con l'ipotesi, rivelatasi poi inefficace, di una contestazione diretta agli organismi sovranazionali.
L'esperienza, però, ha dimostrato che il capitalismo globale non ha un centro mondiale di comando politico né, tantomeno, un fantomatico “Impero” che lo sovrasta. Allo stesso tempo gode di unità ideologica, ha un discorso unitario che regola i suoi diversi e molteplici centri di comando. Si presenta come una rete, con conflitti interni, statuali e inter-aziendali, i cui nodi sembrano tante meduse dalla testa liscia e omogenea – sul piano della determinazione politica – e con mille filamenti disorganici a cui sono collegate le forze sociali.
Per agire in questo contesto non può essere minimizzata la dimensione politica del neoliberismo, cioè la formula ideologica con cui si è accompagnata la trasformazione finanziaria. Come scrivono Pierre Dardot e Christiane Laval, ne La nuova ragione del mondo , il liberismo non è semplicemente l'approdo inesorabile di un'evoluzione economica data ma una precisa scelta politica.
Quella che può essere definita “la grande svolta” di inizio anni 80, non è la “ritirata dello Stato” dall'economia e tanto meno un semplice “ritorno al mercato” ma un “nuovo impegno politico dello Stato”, un “disegno strategico” per ridurre le tasse – da qui l'esplosione del debito – ridurre la spesa pubblica, cedere ai privati le imprese pubbliche. Se nei “trenta gloriosi” si era determinato il “compromesso socialdemocratico”, il “compromesso neoliberista” (Washington consensus) ha fondato una strategia in grado di ripensare i rapporti sociali a cominciare dal ruolo “disciplinare” dell'apparato statale. La “svolta” non costituisce, spiegano ancora Dardot e Laval, un adattamento alle trasformazioni interne del sistema capitalista ma una “reazione-adattamento a una situazione di crisi”, quella degli anni 70. Margareth Thatcher e Ronald Reagan costruiscono un “insieme di risposte”, anche sull'onda delle elaborazioni della Trilaterale – gruppo fondato da David Rockfeller e che riunisce una selezionatissima rappresentanza di economia, politica e cultura a livello mondiale – per rispondere al calo molto sensibile dei tassi di profitto. Mentre il capitale ha trasformato il terreno di formazione di margini di profitti adeguati alle proprie aspettative, sul piano politico si è determinato un intero apparato di “servizio” in grado di supportare questa esigenza. Con le scelte politiche, vedi Thatcher-Reagan, con l'ideologia - “il capitalismo come fine della storia” - con la lotta di classe all'incontrario, generando, cioè, delle sconfitte durissime contro le conquiste degli anni 60 e 70. In questo processo ha giocato un ruolo decisivo la vecchia socialdemocrazia che nel frattempo si è tramutata in un social-liberismo al servizio della modernizzazione (da Blair a Schroeder all'Ulivo italiano, compreso Renzi l'epigone).

L'unità è un progetto
In questa situazione, il passaggio di “ricomposizione dell'unità di classe” non può essere inteso come una giustapposizione di diverse identità, collocazioni, condizioni di lavoro come se si trattasse semplicemente di comporre un mosaico o un puzzle. Non si tratta di realizzare un'aritmetica della riunificazione. Così come occorre rifuggire dalla tentazione, sempre in agguato, di scomporre e ri-definire costantemente le diverse figure sociali nello sforzo di individuare la soggettività centrale attorno a cui “ricomporre”. A questa tentazione è sembrato cedere anche Toni Negri quando ha ideato la categoria della moltitudine come furba definizione per rinominare la classe nella sua attuale conformazione. Il problema della moltitudine non era tanto la sottesa ipotesi di scavalcare il concetto di classe – per quanto la sua definizione appaia una sfera liscia rispetto alle increspazioni della categoria di classe – quanto la pretesa, rivelata in seguito, di incastonarvi dentro una nuova centralità, quella del “cognitariato”, incaricata di sostituire la vecchia centralità operaia. Questa ipotesi si è rivelata fallimentare. Il cognitariato, pur importante e vitale nei processi di accumulazione del capitale, non ha assunto una dimensione tale da far ruotare attorno a sé l'intera classe dei lavoratori.
Il problema potrebbe riproporsi anche se, estendiamo la casistica dei soggetti antagonisti al moderno processo di accumulazione. La finanziariazione si porta dietro, infatti, categorie come “l'uomo indebitato”, vitale e significativa a cui si possono sommare ulteriori sezioni come il “securizzato” o il “mediatizzato” (ancora Negri). Potremmo procedere in sequenza e articolare la poliedrica conformazione della società oggetto del capitale globale fino a identificare ogni piccola articolazione, ogni variabile dipendente.
In realtà, non esiste più una componente “centrale” del proletariato. La dinamica politica che si è sviluppata nei punti alti della storia del movimento operaio non è riproducibile per inerzia o per ripetizione. Per quanto la “classe operaia”, pur in forte diminuzione, sia oggi comunque la componente omogenea più rilevante, non esiste una ipotesi praticabile di centralizzazione dell'intero proletariato attorno ai suoi movimenti, ai suoi ritmi e alle sue irruzioni sulla scena della lotta di classe. Questo non vuol dire sottovalutarne le potenzialità e la capacità di conflitto. In gran parte delle vertenze degli ultimi anni, sono stati proprio gli operai a condurre le iniziative più dure – Alcoa, Electrolux, Lucchini, Ilva, Fiat, Indesit, l'elenco è davvero lungo – ma spesso su lotte difensive, in difesa del proprio posto di lavoro con scarsa capacità di espansione.
Questo non vuol dire, ovviamente, che non bisogna analizzare a fondo le modificazioni strutturali dei processi di accumulazione alla ricerca di linee di fratture, di tendenze conflittuali, di settori aggregabili e coinvolgibili in un processo di lotta. Quanto fatto con il settore della Logistica è importante e va dato atto a chi ci ha puntato di aver colto una contraddizione esplosiva. Un settore sempre più decisivo, ad esempio, è quello dell'elettronica il cui peso nella produzione manifatturiera globale è passato in dieci anni dal 4 al 7,4% mettendosi direttamente alle spalle dei settori più rilevanti (Alimentazione, 12%, autoveicoli, 9%, metallurgia, 8%). Un settore complesso in cui la produzione è effettivamente delocalizzata (Apple), in cui il ruolo dei "cervelli" è decisivo e in cui la distribuzione avviene in forme differenziate (tramite Amazon, ad esempio, ma anche con il modello-Trony).
Una moderna unità “proletaria”, in ogni caso, richiede oggi un processo politico analogo e speculare a quello di cui si è dotato il capitale agli inizi degli anni 80.
Anche sul piano della coscienza “per sé” si tratta di operare una “grande svolta” di portata analoga a quella compiuta dal capitale con il “compromesso neoliberista” e individuare la rivendicazione politica “tout court” che possa attrarre, come una calamita sospesa nel cielo, tutte le variabili sociali.
Questa tesi non presuppone, per citare le osservazioni di Bensaid, che la classe sia “una persona” (Proudhon), cioè un soggetto indistinguibile da identificare nel Partito o, peggio, nello Stato. La molteplicità di classe è un dato anagrafico inconfutabile ed è vero, come spiega ancora Bensaid, che l'unità è figlia della lotta, è cioè un dato evenemenziale.
Il collante di questa unità è però il senso politico, di sé e dei compiti. Non nel senso di una propaganda da portare nelle lotte con la pretesa di una incarnata visione globale. Da questa impostazione occorre uscire definitivamente. Quando affermiamo che il movimento operaio che abbiamo conosciuto storicamente non esiste più non diciamo che non esiste una classe e un movimento di questa che possa lottare per la propria emancipazione. Semplicemente, sosteniamo che occorre costruire un “nuovo movimento operaio” il quale, naturalmente, assumerà nomi, profili, forme oggi poco immaginabili. Il progetto politico di fondo è questo e le sue avvisaglie noi le rintracciamo, ad esempio, in quello che è avvenuto negli ultimi anni con il movimento degli Indignados in Spagna, nelle evocazioni suscitate da Occupy negli Stati Uniti, soprattutto dove ha avuto impatto sulle condizioni del moderno lavoro, così come le rintracciavamo nel movimento “no-global” all'inizio degli anni 2000. Il filo conduttore di questa ricerca resta lo stesso e l'impatto di Podemos in Spagna conferma la validità di una intuizione: solo da una nuova soggettività proletaria, inedita e capace di legare soggetti diversi, può germogliare un nuovo progetto politico.

L'alfabetizzazione primaria
La tesi si compone di un corollario decisivo ai fini della nostra azione.
Un tale progetto politico passa dunque per il riconoscimento che l'elemento “sindacale”, “economicista” di base è un passaggio ineliminabile di una identificazione del soggetto da parte del soggetto medesimo.
Serve l'alfabetizzazione primaria per riconoscere il rapporto di sfruttamento tra salariato e capitale. Questo riconoscimento, per ripercorrere Il Capitale di Marx, come fa Bensaid, passa per il rapporto con il singolo capitalista (il tempo di lavoro ne è un punto chiave), poi il rapporto con il capitale nel suo insieme e infine il rapporto di produzione. Il processo attuale di accumulazione – e quello ancora più complesso, perché necessitato dalla fuoriuscita della crisi, in divenire – rimanda chiaramente al Terzo libro del Capitale. Se vuole giocare una partita efficace il moderno proletariato deve saper riconoscere il rapporto complessivo di produzione e quindi dotarsi di una “teoria complessiva”. Ma questo, al tempo della disfatta del movimento operaio, passa per il riconoscimento di tutti i gradi a cominciare dalla lotta contro il singolo capitalista. Non serve una teoria generale, insomma, per riconoscere nell'Ikea o nelle Coop o, ancora in Eataly, l'avversario di classe. La propaganda, per quanto intelligente e ben fatta, rischia di rimanere muta nel contesto attuale e la stessa rappresentanza politica si presenta come un diversivo.

Quello che noi oggi facciamo, quindi, è ribadire l'esistenza di una classe proletaria che nello sviluppo capitalistico odierno si è ampliata fino a lambire figure che un tempo stavano “dall'altra parte” (falso lavoro autonomo, quadri, distribuzione). La sua possibilità di giocare una partita “antagonista” è data dalla sua capacità di darsi un “progetto”. Una volta era il comunismo, oggi una lettura analitica delle moderne trasformazioni del capitale e una ricerca sul soggetto medesimo in grado di fissarne la collocazione nello scontro di classe.

I processi possono essere due:
• innanzitutto lavorare per il riconoscimento della propria collocazione nel rapporto di classe. Alcune realtà lo hanno ancora chiaro e questo rappresenta oggi il motivo dell'anomalia e della specificità di realtà come la Fiom o di quelle più vitali e combattive del sindacalismo di base (logistica). L'obiettivo può essere sintetizzabile nella ricerca dell'esperienza esemplare in grado di rappresentare, con la lotta e la vertenza, i rapporti esistenti. Quanto fatto all'Ikea o sul terreno della Logistica, va in questa direzione. La vertenza esemplare va intesa in questo senso, come occasione per rivelare il rapporto di classe. In questo senso, va riconosciuto che quella della Fiom contro la Fiat ha svolto una funzione decisiva al di là degli errori, della natura del sindacato o dei risultati raggiunti. L'attacco di Marchionne costituisce uno spartiacque perché determina un arretramento importante dei diritti acquisiti (contratto nazionale) e gli effetti della sua mossa si stanno registrano in molte altre categorie. Lo scontro che ha visto in campo la Fiom è stato paradigmatico di una volontà di resistenza (e quindi di internità alla classe in sé) e, non a caso, ha prodotto l'impossibilità della ricomposizione del gruppo dirigente Cgil che, pure, in una prima fase Maurizio Landini ha cercato.
• In una fase di risorse scarse, questa strada appare quella più utile all'accumulo di esperienza, alla possibilità di giocare un ruolo attivo nello scontro di classe e di ricostruire l'accumulazione originaria delle forze di classe.
• Il nostro secondo asse di lavoro, che ha l'ambizione di collegare l'alfabetizzazione classista con la costruzione di un orizzonte più ampio, è quanto è stato sperimentato con Ri-Maflow. L'occupazione della fabbrica di Trezzano e l'avvio di un dibattito, ampissimo, sull'autogestione operaia è un patrimonio da curare, coltivare ed estendere. Non si tratta di coltivare l'illusione di trovare una via d'uscita alla crisi o una risposta alla decomposizione del movimento operaia ma di far germinare un dibattito progettuale. Il fatto di riprendere la tematica comunista sul versante dell'autogestione costituisce una risposta positiva all'impasse, un terreno di lavoro, parziale ed embrionale, che permette però di toccare i temi dell'alternativa di società, dell'organizzazione della produzione, del rapporto tra lavoro e democrazia in termini nuovi per lo meno nel contesto italiano. Il fatto di utilizzare un tema che rappresenta allo stesso tempo un atout ideologico ma anche il filo di una tela di ricostruzione sociale, costituisce la chiave per tendere la fatica dell'oggi con la prospettiva politica. La strada dell'alternativa oggi può passare per questi vicolo, sicuramente stretto ma creativo. Una strada densa di possibilità che vanno declinate in tutte le varie forme possibili.

La Rete di mutuo soccorso “adotta una lotta”
In questo senso acquista un valore politico generale il progetto del Mutuo soccorso. E' questa infatti l'allusione alimentata da Ri-Maflow per costruire un campo della solidarietà “di classe”, del lavoro in cui ridefinire appartenenze e progetti in comune. Per questo il nostro progetto può essere quello di una vera e propria Rete di Mutuo soccorso al cui interno far vivere un embrione di attività sindacale strettamente connessa all'attività complessiva. Non dobbiamo far nascere l'ennesimo sindacatino di classe ma un progetto, uno spazio più largo fatto di esperienze autogestionali, progetti di solidarietà classista, mutuo soccorso.
Quello che ci proponiamo, quindi, è di realizzare una ampia rete in cui far vivere esperienze di lavoro in comune (co-working), servizi di assistenza (legale, migranti, sindacale, fiscale), scambio “equo e solidale” di prodotti (a partire dai cibi senza sfruttamento), attività di solidarietà primordiali (banca del tempo ma anche vere e proprie 'casse comuni').
Anello prezioso della Rete è un “sindacato di mutuo soccorso”. Non l'ennesima sigla da affiancare alle altre in azione ma nodo di una Rete più ampia - questa si inedita - in cui abbinare l'azione quotidiana e vertenziale sui luoghi di lavoro con la traduzione operativa del concetto di mutuo soccorso: Adotta una lotta. Le lotte da adottare sono quelle “esemplari” che possono realizzarsi o scaturire da un'iniziativa soggettiva. Sindacalizzare i lavoratori di Eataly o delle Coop, organizzare la vertenza dell'Istat, costruire una presenza presso grandi aziende dell'elettronica o dell'alimentazione, ripartendo dal lavoro di mutuo soccorso e di solidarietà (un elemento che giustifica il successo del M5S presso i luoghi di lavoro).
Al tempo della 'precarietà stabilizzata' la ricostruzione di un intervento organico nel mondo del lavoro passa per le dosi di “stabilità”, garanzia, supporto e assistenza che saremo in grado di dare.
Sarebbe questa, del resto, la sfida anche per il movimento sindacale organizzato sempre più screditato e delegittimato nei luoghi di lavoro (come dimostra il recente congresso Cgil). La sua sordità assoluta a questa tematica ne conferma non solo la complicità con gli assetti dominanti ma anche la sua, ampia, irrecuperabilità a un progetto di ri-costruzione.

Un programma politico sindacale
Non si tratta di dotarsi di un minimo piano di agibilità sindacale ma nemmeno di mitizzare il programma generale. Serve una visione delle cose e un'ipotesi progettuale che guardando agli obiettivi di fondo consideri con ponderazione gli attuali rapporti di forza e il dibattito attuali. Il nostro programma di lavoro può oscillare all'interno di coordinate date da alcune coppie:
a) debito-finanza; b) profitti-salari; c) welfare-reddito; d) diritti-mutuo soccorso; e) genere e classe; f) migranti e classe; g) democrazia-rappresentanza.

Debito e finanza. Si tratta di affrontare la finanziarizzazione dell'accumulazione colpendo l'anello debole. Il debito. Ma non va sottovalutata la proposta della patrimoniale mondiale alla Piketty.
Profitti e salari. Il gigantesco ribaltamento dei rapporti di forza ha prodotto uno spostamento enorme di risorse. Il dato non può essere aggirato anche se la quota profitti da riconquistare non è sempre solo negli utili aziendali. La contrattazione aziendale è un passaggio importante (non va demonizzata in quanto fulcro della strategia compatibilista alla Cisl) ma la contrattazione nazionale, ed europea, va ripensata per riconquistare fette di salario, e di diritti, sul piano globale. In questa chiave la contrapposizione tra contratto e salario minimo legale è assurda: un salario minimo, di proporzioni significative (a Seattle, negli Usa, si propongono i 15 dollari l'ora), non può che innescare un circolo virtuoso anche a livello contrattuale.
Precarietà-diritti. La stabilizzazione della precarietà è un progetto di fase. Occorre contrapporgli una risposta altrettanto netta: la stabilizzazione del contratto di lavoro. Il contratto unico a tutele crescente (quello vero, scimmiottato da Renzi che, non a caso, non lo realizza) in cambio del quale eliminare le differenti tipologie a tempo determinato, interinale, etc., va in questa direzione.
Welfare-reddito. Il reddito sociale è ormai una necessità non rinviabile. Da retribuire con l'imposta patrimoniale. Un punto a parte meritano le pensioni viste come tematica relativa solo al “lavoro garantito”. Una battaglia contro la precarietà, invece, è anche quella che ripristina il principio di solidarietà di classe a partire dalla condivisione delle regole per il salario differito rappresentato dalla pensione e dall'aumento della massa dei salariati per garantire le pensioni future.
Diritti-mutuo soccorso. La pratica di mutuo soccorso non è “sussidiaria” all'erosione del welfare. Se così fosse sarebbe un autogol. Dobbiamo chiedere diritti sociali, garanzie fondamentali da estendere sia a livello nazionale che europeo. Il mutuo soccorso è però una pratica “esemplare” e “organizzativa” per rivendicare quei diritti e un passaggio per ribadire i meccanismi fondamentali della “solidarietà di classe” come superiore all'idea dell'individualizzazione e della competizione senza freni. In tal senso va la rivendicazione di finanziamenti pubblici per progetti di auto-recupero, autogestione e riappropriazione produttiva (Rimaflow per tutti, tutti per Rimaflow).
Genere e classe. La sproporzione in termini di occupazione e salari tra uomini e donne resta ancora un'ingiustizia evidente. La parità sul piano del lavoro è ancora una conquista da ottenere e il recupero del gap tra i due “generi” un obiettivo significativo.
Migranti e classe. L'altro divario è in relazione al lavoro migrante. La richiesta del diritto di cittadinanza, contro l'impostazione della clandestinità serve a unificare il mondo del lavoro e a ripristinare una solidarietà di classe che non può che essere inter-nazionale
Democrazia e rappresentanza. Le lotte più efficaci degli ultimi anni si sono fatte anche all'insegna della democrazia e del diritto di auto-rappresentarsi. Oppure, spezzando il monopolio confederale (vedi autotrasporto a Genova). Il Testo unico di Cgil, Cisl e Uil costituisce un passaggio all'altezza della crisi perché sequestra definitivamente la rappresentanza ed espelle dalla contrattazione le esperienze alternative. Legge sulla rappresentanza, autorganizzazione, autogestione e democrazia diretta divengono tasselli di un'unica strategia.