Electrolux, la crisi della competizione

Wed, 19/02/2014 - 03:24
di
Marco Bertorello

Il clamore sorto intorno al caso Elettrolux genera quasi stupore. Nei più svariati settori, dalla politica al sindacato, passando persino per il giornalismo, molte voci denunciano come inaccettabile il ricatto della multinazionale svedese. Forse tale indignazione è frutto del fatto che le richieste dell'azienda fotografano in maniera plastica le tendenze della globalizzazione contemporanea. Ma sono almeno 20 anni che tale processo ha preso corso. Da tempo ormai si delocalizza o si minaccia di farlo, anche da parte delle multinazionali nostrane, in nome della competitività. Quello che cambia con Elettrolux è che per la prima volta l'equazione elevato costo del lavoro uguale uscita dal mercato individua come soluzione una vera e propria equiparazione con le condizioni di lavoro presenti in altri paesi concorrenti. Per non esportare la produzione in Polonia si tratta dunque di percepire quanto percepiscono gli addetti polacchi, altrimenti si sposta l'impresa. Per la prima volta si ipotizza esplicitamente che i lavoratori italiani debbano essere direttamente competitivi sul costo del lavoro con quelli di paesi emergenti.

Il caso Elettrolux rappresenta una nuova pennellata dentro l'affresco della globalizzazione. L'ultima conseguenza di un disegno macroeconomico ben più vasto. Non a caso gli scandalizzati risultano piuttosto afoni quando si tratta di arrestare tale macro-processo. Le soluzioni avanzate sono sempre le stesse. Ridurre il costo del lavoro oppure specializzarsi nelle produzioni a elevato valore aggiunto. Vediamo. La prima ipotesi, tanto in voga in questo periodo, sostiene che il costo del lavoro in Italia sia troppo elevato, senza considerare che il carico fiscale complessivo in Italia non è molto differente dai principali paesi, come ci ha ricordato recentemente in un breve pampleth persino Innocenzo Cipolletta. Chi parla di riduzione del cuneo fiscale sul lavoro solitamente omette di spiegare dove si dovrebbero reperire le risorse in assenza di tale prelievo. Forse andrebbe spostato il baricentro del fisco su rendite e proprietà, ma in genere chi vuole risparmiare sul costo del lavoro è il medesimo che possiede maggiori patrimoni. Senza riflettere, poi, che una parte del prelievo sul lavoro non sono tasse, ma oneri previdenziali, cioè risorse differite sempre del lavoro. Sulla scia di questa ipotesi l'impresa, in una recente lettera del presidente di Confindustria, aggiunge anche la proposta di ridurre il costo dell'energia (ma chi dovrebbe pagare la differenza considerando il processo di privatizzazione avviato ormai da tempo? di nuovo lo Stato?) e le rigidità del mercato del lavoro. Qui la difesa del lavoro indigeno sconfina nel suo opposto, cioè si torna alla soluzione Elettrolux, proponendo una ulteriore precarizzazione. Come se le decine di formule contrattuali esistenti e la manomissione prolungata dell'articolo 18 non fossero abbastanza.
C'è però anche la proposta fondata sulla qualità. Apparentemente di maggior buon senso. Si sostiene che la rincorsa al ribasso su merci a basso valore aggiunto non può condurre da nessuna parte, che bisogna tornare sui segmenti produttivi di qualità, dove la concorrenza è minore e dove un paese sviluppato ha maggiori carte da giocarsi. Ma un'offerta nei prodotti di qualità può trovare una corrispettiva domanda? Esiste, su scala internazionale, una richiesta tale di qualità che consentirebbe ad altri paesi fondati sull'export di affermarsi? C'è spazio nell'attuale globalizzazione per altri paesi come Germania o Corea? La famosa legge di Say che sostiene che sia l'offerta a determinare ex post la domanda sembra non trovare alcuna conferma in questa crisi, come in tante altre precedenti per altro. Non è sufficiente fare come suggerisce Enrico Moretti, l'economista italiano insediatosi all'università della California, il quale ha in mente alcuni segmenti avanzati presenti negli Usa, dove i servizi tecnologici svolgono in alcune aree il ruolo di volano in grado di trascinare persino i servizi a basso valore aggiunto. Tali processi si sono affermati a partire dall'avvento della new economy, ma al momento non si sono neppure generalizzati in America nonostante essa possegga un retroterra ben più solido di quanto possa avere un paese periferico europeo. Per non parlare a che prezzo in questi anni ha marciato l'economia statunitense, con imponenti iniezioni di liquidità e deficit pubblici considerevoli.
Insomma, qualsivoglia ragionamento intorno a una ripresa economica imperniata sul manifatturiero (spesso trascurando la commistione tra industria e finanza) non si sottrae dalla cornice prevalente: tornare a essere competitivi. Non importa se sui prezzi ci sarà sempre un paese che diventa miglior offerente sul proprio costo del lavoro oppure sulle agevolazioni fiscali che è capace di offrire. Non importa se sulla qualità per anni c'è stato detto che il modello era quello scandinavo, fino a quando la finlandese Nokia è stata soppiantata dalla coreana Samsung, e allora il modello è tornato a essere asiatico, seppur specializzato. Non importa se gli ultimi rapporti Almalaurea raccontano che in Italia sono in diminuzione persino i neoccupati in materie tecno-scientifiche come gli ingegneri, a dimostrazione che persino l'export non consente di svolgere quella funzione di trascinatore per un intero paese con 60 milioni di abitanti. Ma la cornice non si smuove. La legge di natura a cui conformarsi è la legge della competitività. È a questa che tutti pensano quando parlano delle riforme necessarie per un paese come l'Italia. Nessuno lo esprime mai chiaramente, ma le riforme che nessuno riesce a fare (almeno, e per fortuna, non così in profondità come auspicato dai più integralisti filo-mercato) sono quelle lacrime e sangue per diventare competitivi nel mondo.
Forse invece è tempo per immaginare un processo, sicuramente lungo e articolato, che ci conduca fuori da questa suprema lex, una transizione verso forme di economia non più incentrate su principi di mercato totalizzanti, dove la collaborazione svolga una funzione importante per salvare l'eco-sistema insieme alla società, dove si smetta di distruggere per creare profitto, dove l'accumulazione infinita di capitale venga sostituita da una razionalizzazione delle risorse e dei consumi invertendo la rotta delle diseguaglianze. Il capitalismo è finito in un vicolo cieco, non per questo è finito, ma certamente il suo stallo rappresenta una spinta obiettiva a sperimentare nuove strade, senza alcun rimpianto per i fallimenti del Novecento, è tempo di ricercare nuove forme di programmazione e coordinamento dell'economia per affrontare i dilemmi ambientali e sociali che abbiamo di fronte. E non si dica che è dagli incentivi del capitalismo che si crea ricchezza e benessere estesi, poiché ormai non è neppure vero questo. La ricchezza creata in Occidente e sempre più concentrata e dove viene spalmata su segmenti sociali nuovi, ciò avviene al prezzo di una dura lotta di classe, come dimostrato nei paesi asiatici. E senza alcune precauzione per l'ecosistema. Si tratta allora di ripartire dai soggetti, e sono tanti, esclusi o che si prova ad escludere. Alleanze sociali tra diversi, sovranazionali e locali al contempo. È questo il livello dello scontro, senza illuderci con ipotesi neo-sovraniste: il vero buco nero che inghiotte ambiente, diritti e condizioni di vita è l'organizzazione su scala internazionale della produzione e della finanza incentrate sul profitto. Proviamo a riformare queste, altro che il mercato del lavoro!