Dietro la logica dei numeri, persone in gabbia e diritti cancellati

Tue, 19/09/2017 - 15:43
di
Fulvio Vassallo Paleologo (da Associazione Diritti e Frontiere)*

Quanto sta avvenendo in Libia, le numerose conferme degli effetti perversi degli accordi intercorsi non solo con la Guardia costiera di Tripoli, ma anche con diverse milizie che sono diretta emanazione dei sindaci con i quali ha trattato Minniti, fanno chiaramente vedere quali sono i soggetti realmente “collusi” con i trafficanti libici, alcuni dei quali oggi hanno trovato più conveniente vestire l’uniforme militare, con la certezza dell’impunità.

Minniti è andato pure a trovare Haftar, per ottenere il suo appoggio, e quello delle milizie che lo sostengono, per fermare i migranti in Libia. E sullo stesso tavolo si è giocata la partita del rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, dove Al Sisi è il migliore alleato di Haftar, malgrado la beffa dell’arresto del difensore egiziano della famiglia Regeni.

Quanto sta emergendo in questi giorni dimostra nel modo sempre più evidente la infondatezza delle accuse rivolte alle ONG che sarebbero state “colluse” con i trafficanti, magari gli stessi, perchè le zone di partenze sono le stesse, con i quali da Roma si stava trattando per realizzare il blocco delle partenze. Appare ormai chiaro lo stretto legame tra le operazioni di arresto e detenzione a terra, avviate formalmente dopo gli accordi con l’Italia, con le attività di arresto in mare operate dalla Guardia Costiera libica, in coordinamento con la Guardia costiera italiana, attività di “soccorso” che già erano partite lo scorso anno, che dopo la “fase di formazione” dei militari libici sulle navi europee, ed anche in Italia, si concludono con la riconduzione dei naufraghi, “salvati” in mare ma ritenuti migranti illegali, in uno dei tanti centri di detenzione, tra i più duri, quelli di Zawia e di Sabratha. Per ottenere questi risultati occorreva allontanare le navi delle ONG dalle coste libiche, ben oltre il limite delle acque territoriali ( 12 miglia). E se qualche giornalista indipendente racconta la corruzione della guardia costiera libica o denuncia singoli trafficanti, arrivano subito le minacce.

Si è data alla Guardia costiera libica la potestà di intervenire in acque internazionali, in evidente coordinamento con il Comando centrale della Guardia Costiera italiana (IMRCC). Gli interventi della Guardia costiera libica si sono svolti senza il rispetto delle Convenzioni internazionali di diritto del mare e senza garantire alcuna sicurezza alle persone poi sbarcate a terra. E tutto questo è avvenuto e continua ad avvenire con la complicità delle autorità italiane, dopo la firma del Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017, che ha ridato efficacia agli accordi operativi stipulati nel 2007, ed al Trattato di amicizia del 2008 che li finanziava, seppure con un governo diverso, che estendeva la sua sovranità a tutto il territorio libico.

Il 19 settembre a Trapani, davanti al Tribunale del Riesame si discuterà il ricorso contro il sequestro della nave Juventa della ONG Jugend Rettet, un’operazione di fermo avvenuta con il ricorso ad uno stratagemma, un trasbordo di tre naufraghi imposto dal comando della Guardia costiera, per costringere la nave a fare rotta su Lampedusa, dove poi sarebbe stata sequestrata. Una indagine partita esclusivamente sulla base delle denunce di agenti di polizia e di contractor di società di security imbarcati a bordo della nave Vos Hestia di Save The Children, chiamata pure in causa nelle dichiarazioni degli agenti infiltrati, ma poi rimasta fuori dalle indagini. Una vicenda nella quale i servizi segreti di diversi stati, insieme all’agenzia Frontex, hanno giocato un ruolo fondamentale. Vedremo quanto valgono ancora le regole dello stato di diritto ed il principio costituzionale della indipendenza della magistratura.

Siamo accanto agli operatori umanitari della Jugend Rettet. Fino ad oggi la nave Juventa è rimasta bloccata sotto sequestro nel porto di Trapani, dopo avere salvato migliaia di vite, mentre la Vos Hestia di Save The Children è tornata al centro delle operazioni di ricerca e salvataggio. Attività di ricerca e salvataggio (SAR) che il comando congiunto italo-libico, previsto dagli accordi tra Italia e governo di Tripoli, gestisce con spregiudicatezza, al punto da suddividere i soccorsi tra quelli affidati ai mezzi di Tripoli, e quelli lasciati alle poche navi umanitarie rimaste operative ed ai mezzi della Guardia costiera italiana. Siamo anche vicini a Don Mussie Zerai ed a tutti i profughi eritrei minacciati dai servizi segreti del loro paese, che hanno campo libero in Italia, e che riescono ad intimidire anche i richiedenti asilo, minacciando le famiglie rimaste in Eitrea, al punto che qualcuno che ha già otenuto la protezione internazionale vi rinuncia per salvare genitori, fratelli e sorelle, rimasti alla mercè del regime. In coincidenza con l’udienza di Trapani, ma ormai questo non ci stupisce più, arriva l’ennesimo attacco a Don Mussie ed a chi lo aiuta nel suo difficilissimo impegno per la salvezza dei migranti, non solo eritrei, in mare, ed anche nelle carceri e nei centri di detenzione nei quali vengono rinchiusi. La macchina del fango è ripartita in parallelo con le inchieste giudiziarie. Un copione già sdrucito.

Risulta sempre più evidente come la campagna di attacco alle ONG impegnate nelle attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale, una campagna che ha avuto organizzatori ed esecutori ben addestrati, abili anche ad operare sui canali telematici, se ha sortito il risultato di fare allontanare alcune navi umanitarie, ha colpito sia chi non aveva firmato ( come MSF), che chi aveva firmato ( come MOAS), il cd. codice di condotta Minniti. Si tratta di un progetto preciso elaborato oltre un anno fa per ridurre la presenza della società civile solidale “responsabile” di mantenere troppo accessibili quelli che venivano definiti come canali umanitari “gestiti” da privati. Quando le operazioni SAR erano comunque cooordinate dal Comando centrale della Guardia Costiera italiana. Adesso chi canta vittoria potrebbe essere presto smentito dai fatti.

Il Codice imposto da Minniti alla fine di luglio si è rivelato un autentico espediente per dividere le ONG che non sono state capaci di reagire unitariamente. Si è così ottenuto il loro allontanamento dalle coste libiche, necessario per riaffermare una zona SAR libica, proclamata unilateralmente dalle autorità di Tripoli, ma con l’evidente supporto del governo italiano. Con quali conseguenze, lo stiamo vedendo tutti i giorni, anche sui corpi di chi ancora riesce comunque ad arrivare. Come confermano gli operatori di Medici senza frontiere che, in Libia, visitano i migranti trattenuti in alcuni centri ancora accessibili, ma in condizioni spaventevoli, ed in Sicilia si occupano delle vittime delle torture subite in Libia. Decine di testimonianze che smentiscono quanto affermano i comunicati di governo e la stampa compiacente. Non sembra che la presenza di UNHCR ed OIM sui quali si punta per giustificare le politiche di respingimento, riesca ad evitare che la stragrande magguioranza dei migranti trattenuti nei centri di detenzione libici continui a subire abusi. Solo una minima parte viene infatti liberata grazie all’intervento delle Nazioni Unite, gli altri, se vogliono uscire, devono pagare. E se non pagano vengono massacrati.

Chi riteneva che la politica italiana in Libia fosse stata capace di uno straordinario “successo” nel contenimento temporaneo delle partenze, crollate nel mese di agosto, è adesso smentito dalla repentina crescita dei salvataggi in mare, e dunque degli sbarchi, oltre 2000 nelle ultime 48 ore. Il “tappo” che si voleva apporre alla rotta libica è già saltato. Anche se i libici hanno “ripreso” in mare oltre 3000 persone in una settimana, 1000 soltanto ieri. Gli accordi con le tribù sono già saltati, o sono finiti i soldi… E ci sono vittime ancora oggi, come ci sono state nel mese di agosto, malgrado la censura imposta dai sostenitori delle politiche governative. Ad agosto addirittura ci sono stati più morti e dispersi che nello stesso mese dello scorso anno, anche se le partenze si sono ridotte dell’80 per cento, ma questo dato è stato sistematicamente cancellato nei comunicati governativi e nei notiziari diffusi dalle agenzie di informazione. Dietro il conteggio dei numeri ci sono persone, uomini, donne, bambini, abbandonati ad un destino atroce, in mare come in terra. Nei vertici che si susseguono, da ultimo a Londra, i politici parlano dando cifre piuttosto che delineando piani per la composizione dei conflitti e la riduzione delle vittime. E purtroppo anche il Papa sembra avere aperto alla comprensione di queste logiche di contingentamento. O almeno così hanno fatto credere. Ma neppure tutta la Chiesa sembra allineata con il governo italiano e gli accordi con le autorità libiche. E cosa diranno sui minori bloccati in Libia, il 77 per cento sottoposti ad orribili abusi? Il loro numero è aumentato proprio per effetto del blocco derivante dagli accordi italo-libici. Si può permettere che per fermare 20 o 30.000 migranti un paese democratico ricorra ad accordi con gruppi criminali?

Non tutto sta andando come previsto dagli ideatori dei piani di attacco contro le ONG. Adesso non è facile nascondere l’aumento degli arrivi, la diversa composizione nazionale, molti sono tunisini, e l’allargamento delle rotte. Alcune ONG sono comunque rimaste operative. E le partenze non si fermano. Spesso chi fugge punta ad est verso Malta o ad ovest verso le acque tunisine, ed è appunto li che Eunavvfor Med e Frontex tengono schierate le loro unità, la spagnola Cantabria di Eunavfor Med, altrimenti definita Operazione Sophia, davanti il confine di Ras Jedir, tra Tunisia e Libia, il rimorchiatore d’altura novegese Olimpic Commander di Frontex tra Homs e Malta. Certo, si tratta di numeri che comunque saranno inferiori rispetto a quelli registrati nello stesso periodo dello scorso anno. Ma dietro i numeri del calo delle partenze, di cui andrà orgoglioso il governo italiano, ci stanno abusi tremendi inflitti a chi rimane in Libia ed a chi ci ritorna a forza come “migrante illegale”, dopo essere stato bloccato in acque internazionali dalla Guardia costiera di Tripoli. Sui rapporti delle milizie libiche con la cd. Guardia costiera libica sta indagando la Corte penale internazionale. Ma il tempo delle denunce è appena cominciato, dopo l’esposto presentato dal Partito Radicale alla Procura di Roma.

Dietro il calo delle partenze e l’aumento degli interventi di blocco della Guardia costiera libica ci sta l’attività dei mezzi di Frontex (con la nave norvegese Olympic Commander) e di Eunavfor Med, o Sophia (con la nave spagnola Cantabria) che non sbarcano più profughi in Italia ma che rimangono in alto mare per monitorare le imbarcazioni in fuga dalla Libia . Da consegnare poi alle guardie costiere italiana e soprattutto libica. Come è scritto nei dettagli nei loro programmi di attività per il 2017, malgrado gli obblighi di soccorso affermati in modo prioritario nel Regolamento europeo n.656 del 2014.

Le navi europee non sembrano comunque contribuire alle missioni di soccorso con la stessa frequenza del passato, anche se sono in acque in cui si verificano eventi SAR. Certamente, con i sofisticati strumenti di puntamento e di rilevazione di cui dispongono, svolgono appieno il loro mandato principale, consistente, non nel soccorso, ma nel blocco e nella diversione della rotta dei battelli che cercano di allontanarsi dalle acque territoriali libiche.

Come è successo nel 2014 con l’operazione Mare Nostrum, chiusa dalle decisioni europee, gli strateghi della chiusura ad ogni costo della rotta libica hanno fatto fuori la maggior parte delle ONG costrette a rinunciare alla loro attività di soccorso umanitario, come MSF e MOAS. Ma non riusciranno ad eliminare tanti testimoni che documentano quanto alto sia il costo umano delle politiche di blocco in mare e di esternalizzazione delle frontiere in Libia, in prospettiva con i paesi che vi confinano a sud (come il Niger, il Mali ed il Sudan). Non sembra che si tratti di confini controllabili con l’invio di cento carabinieri, una missione dagli esiti imprevedibili.

Il tentativo di chiudere la rotta libica ha avuto anche effetti collaterali che si cominciano a verificare sul territorio italiano. Sono aumentati notevolmente gli arrivi di imbarcazione medio-piccole che si arenano direttamente sulle coste delle isole di Linosa e Lampedusa, o vengono soccorse in prossimità della costa, raggiungendo in qualche caso addirittura le coste di Realmonte o Siculiana (Agrigento). Se non è ripresa anche l’attività delle cd. navi madre, che scaricano barchini più piccoli e li riempiono di persone vicino alla costa.

Aumenta il numero di migranti tunisini che cercano una via di fuga verso l’Italia, probabilmente favoriti proprio dai maggiori controlli che si concentrano davanti le coste libiche, e che dunque lasciano spazi liberi di passaggio nella zona meridionale delle acque tunisine, dove probabilmente i mezzi tunisini non intervengono per non correre il rischio di sbarcare in Tunisia migranti fuggiti dalla Libia. Di certo l’aumento degli arrivi di tunisini non è ricollegabile a provvedimenti di amnistia adottati dal governo di Tunisi, qualcuno che lo scrive dovrebbe provarlo, ma dalla fame di lavoro che attanaglia anche chi ha perduto la possibilità di lavorare in Libia per effetto della situazione di conflitto armato attorno agli insediamenti estrattivi. Una situazione che gli accordi tra l’Italia ed il governo Serraj hanno reso ancora più esplosiva. Ne è conferma la presenza tra i migranti in fuga in queste ultime settimane, di personale impiegato nei compound dove si estraevano gas e petroli delle più diverse nazionalità dal Bangladesh alla Mongolia. Impianti estrattivi che oggi sono bloccati dagli scontri. Ed a Sabratha ci sono stati anche morti.

La Libia non sembra certo avviata verso la pacificazione, malgrado ci vogliano fare credere il contrario. Anche il futuro per le imprese italiane in Libia non appare più così radioso.

Ma gli effetti collaterali delle politiche italiane si vedono anche a Lampedusa, che ritorna ad essere palcoscenico delle politiche nazionali, un ruolo che sembrava superato. Quello che era stato finora spacciato come un Hotspot, anche se non esistevano neppure i moduli per presentare una richiesta di asilo, si è trasformato in un centro di detenzione, prevalentemente per tunisini, oltre duecento in questi ultimi giorni, l’ultimo sbarco ieri.

Non si tratta certo di alimentare facili allarmismi, come quelli lanciati dal neosindaco, magari per smentire dopo qualche ora, ma è provato dall’esperienza del 2011, esattamente il 20 settembre, quando un rogo distrusse una parte della struttura, che quando nel centro di Contrada Imbriacola il numero di persone immediatamente rimpatriabili, come appunto i tunisini, supera un certo numero,e quando il trattenimento si protrae oltre i due giorni, quella struttura non è più governabile. O meglio non è governabile con gli stessi metodi adottati nei mesi scorsi e richiede una presenza molto più consistente di forze di polizia, con ulteriore esasperazione delle tensioni.

Il centro Hotspot di Contrada Imbriacola va immediatamente chiuso, o riportato alla sua funzione di struttura di mera emergenza. I migranti che vi vengono rinchiusi dopo essere sbarcati nelle Pelagie non vi devono restare oltre le 48 ore, pena una uilteriore violazione di leggi e normative europee, come in passato numerose commissioni d’inchiesta hanno denunciato. Sembrava che quelle denunce avessero comportato una modifica dei comportamenti delle autorità responsabili della struttura, ma vediamo oggi che si è ritornati ad utilizzare la struttura di Contrada Imbriacola come un centro di detenzione, ritardando i tempi di trasferimento nella terraferma perchè le operazioni di rimaptrio immediato verso la Tunisia, previste dagli accordi bilaterali esistenti con quel paese, non consentono l’accompagnamento forzato di più di 50 persone a settimana, e sono di più i tunisini che per adesso sbarcano nelle Pelagie. Ricordiamo solo per inciso che durante l’Operazione Mare Nostrum e poi nel periodo in cui le ONG hanno svolto la loro attività di ricerca e salvataggio a Lampedusa venivano sbarcate solo le persone in situazione di emergenza sanitaria. E la struttura non veniva sovraccaricata se non in casi eccezionali, con trasferimenti immediati verso la Sicilia. Oggi sembra tutto cambiato in peggio, di nuovo. Qualcuno ha dimenticato troppo presto che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per l’ingiustificato trattenimento di cittadini tunisini nel centro di Contrada Imbriacola, quando era un CPSA, un centro di primo soccorso ed accoglienza. Natura giuridica della struttura che non è cambiata oggi, malgrado la denominazione di Hotspot. E non ci sono norme precise che determinano lo status delle persone che vi vengono trattenute. Per non parlare dei dubbi sulle modalità di gestione della struttura.

Una ennesima scelta del Ministero dell’interno che vorrebbe utilizzare Lampedusa come un isola prigione, e che cerca di nascondere il fallimento della proposta di Minniti di istituire undici nuovi CIE ( adesso chiamati CPR- centri per i rimaptri) in tutta Italia, una proposta che diventa impopolare ogni giorno di più, soprattutto in tempi di campagne elettorali a raffica. Se non si modifica radicalmente l’attuale normativa su espulsioni, respingimenti e trattenimenti, la politica “espulsiva” del nostro paese continuerà a dimostrarsi fallimentare e disumana, colpendo quasi a caso, magari sulla base della disponibilità residua di posti nei centri di detenzione. Adesso si potrebbero ripetere situazioni gravi di rivolta come quelle verificatesi nel 2011. Un rischio che va ssolutamente evitato con la chiusura del centro o con il recupero della sua funzione di pura assistenza. Queste immagini non le vogliamo più rivedere.

Ecco che, ancora una volta, Lampedusa e la sua popolazione sono chiamate a subire l’ennesimo sfregio d’immagine, e l’ennesima situazione di tensione all’interno di un centro che va immediatamente svuotato, con trasferimenti immediati di tutte quelle persone che hanno diritto ad una procedura conforme alle leggi, e dunque non a Lampedusa, prima di essere riportate nel loro paese, sempre che non abbiano titolo a restare in Italia o non chiedano protezione. Negli Hotspot come quello di Lampedusa non si può essere trattenuti per più di 48-72 ore. In ogni caso i minori non accompagnati, di qualunque nazionalità siano, non possono essere rimpatriati, lo impone la legge vigente, e dunque se non si rispettano le procedure di accertamento dell’età ribadite adesso anche dalla legge 47 del 2017 ( cd. legge Zampa), il trattenimento forzato in un Hotspot o in un CPR, come i rimpatri, risultano illegittimi.

Se quanto avviene in Libia conferma la disumanità di una politica che vorrebbe imporre un tetto massimo al diritto alla vita ed al diritto di chiedere asilo in un paese sicuro, diritti sanciti nella Costituzione italiana, nelle normative europee, oltre che dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati,quanto avviene a Lampedusa, o in altri luoghi di sbarco di quelli che si continuano a definire migranti economici, come nella maggior parte dei casi i tunisini, conferma la portata criminogena delle politiche che negano canali legali di ingresso per lavoro.

A tutti coloro che fuggono dalla Libia, nelle condizioni di scontro militare e di violenze generalizzate nelle quali versa questo paese, frammentato in almeno tre parti ( Tripolitania, Cirenaica, Fezzan), vanno riconosciuti permessi per motivi umanitari. Come stanno facendo i magistrati più coraggiosi, dopo decisioni di dineigo assoluto da parte delle Commissioni territoriali. Occorre riaprire i decreti flussi e procedere ad una regolarizzazione permanente di chi ha un lavoro ma non può formalizzare un contratto perchè privo di permesso di soggiorno.

Occorre ricorrere alle espulsioni o ai respingimenti con accompagnamento forzato solo nei casi più gravi e graduare le misure di allontanamento con incentivi che permettano il ritorno nei paesi di origine, quando siano paesi terzi sicuri, attraverso canali legali.

Una politica delle migrazioni che non garantisce il diritto di ingresso sul territorio nazionale a chi deve presentare una domanda di protezione, a chi fugge da un paese in guerra, anche se non direttamente dal proprio, come chiudere la porta in faccia a chi vorrebbe entrare per ricercare un lavoro, magari in quei settori che gli italiani hanno abbandonato, può giovare a vincere una tornata elettorale, ma nel medio e lungo periodo ci condanna a vivere in una società nella quale lo scontro sociale e le attività di repressione e di mantenimento dell’ordine potrebbe davvero incidere sui diritti di libertà di tutti e sulla residua coesione sociale. La sicurezza non è un bene divisibile, se si continua così vivremo presto in tanti ghetti dominati dalla paura e dallo scontro etnico. I segnali ci sono già tutti.

*Da: http://www.a-dif.org/2017/09/17/dietro-la-logica-dei-numeri-persone-in-g...