Di precarietà si muore

Thu, 09/02/2017 - 17:52
di
Communia Roma

“Ognuno deve dare qualcosa, per fare in modo che alcuni di noi non siano costretti a dare tutto…”
A Michele… ma anche a tutte e tutti noi.

“Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi”. Inizia così la lettera di Michele, grafico precario di trent'anni, nella quale spiega con estrema lucidità le ragioni del suo suicidio.

“Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità.” Nelle sue parole si legge l'amara consapevolezza di far parte di una generazione, la nostra, derubata del proprio futuro, della possibilità di trovare spazio in un mondo del lavoro sempre più stretto e competitivo. Agghiacciante ed ammirevole, la lucidità delle riflessioni di Michele riesce a trasformare il gesto più individuale e nichilista in assoluto in un puro atto politico - controverso, disperato e doloroso - che acquista immediatamente una dimensione storica e collettiva in grado di raccontare la condizione di isolamento, sfruttamento e sottomissione di milioni di giovani.
Parliamo di un paese in cui abbiamo il peggior ministro del lavoro d'Europa e forse il peggiore della nostra storia repubblicana. Un ministro che si permette di insultare chi è costretto ad andare via dal proprio paese per ambire ad una vita dignitosa (perché si, qui si vive e si lavora di merda, anche grazie a lei sig. Poletti), un ministro che invita gli studenti a lavorare gratis in estate e a non fare i debosciati che si godono troppe vacanze e che è stato in grado di condannare milioni di persone – vecchi, giovani, su questo non fa differenze – allo sfruttamento e alla precarietà grazie a politiche sul lavoro tra le peggiori mai promosse in Italia e in Europa.
Politiche sul lavoro di matrice ultraliberista, improntate al massimo sfruttamento dei lavoratori per il massimo profitto dei privati. Il Jobs Act, Garanzia Giovani, i voucher, la liberalizzazione dei contratti a termine ci consegnano un paese in cui la disoccupazione giovanile non scende mai la di sotto del 38% (con punte del 41%) dove, una volta eliminato di fatto l’articolo 18 e finiti gli incentivi per la creazione di nuovi posti di lavoro, nel 2016 i licenziamenti sono saliti del 31% rispetto al 2015, mentre le assunzioni calano dell'8,5%. Con i licenziamenti disciplinari nei confronti dei lavoratori più combattivi che sono aumentati del 28% rispetto al 2015.

Ecco il paese in cui viveva Michele e altri milioni di persone che vivono la stessa condizione lavorativa e umana.
Michele aveva studiato per diventare grafico, era passato da una formazione all'altra, da uno stage all'altro, senza mai riuscire a ottenere la minima gratificazione per i propri sforzi. “Sono stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte”. In un mercato del lavoro che pretende il massimo in cambio del minimo, forte dell'enorme sacca di disoccupazione e di lavoro gratuito o semigratuito. Che pretende che tu abbia sempre la speranza che i tuoi sforzi portino ad una svolta lavorativa e di vita, che promette che questa condizione sia solo passeggera in attesa di una tanta agognata tranquillità lavorativa in grado di permetterti una vita dignitosa, che però tarda sempre più ad arrivare.
Michele era relegato in una condizione di precarietà che alla lunga l'ha estenuato, l'ha escluso, l'ha ucciso.

Al di là della materialità dello sfruttamento, del continuo stillicidio di energie e prospettive, la precarietà è una forma subdola d'oppressione perché genera senso di colpa e può indurre all'isolamento più totale. Agisce facendo leva su un sentimento di inadeguatezza e di vergogna, che spesso porta a trincerarsi nella propria solitudine e a non riconoscere la precarietà per quello che è: una forma infame di sfruttamento ormai non solo generazionale, ma generalizzata. Non è un caso che la retorica del potere contribuisca da anni a quest'opera di demistificazione, colpevolizzando e ridicolizzando i giovani con epiteti sempre più irritanti. Da “bamboccioni” a “sfigati”, passando al più raffinato “choosy” della macellaia Fornero, fino alle ultime insopportabili uscite del ministro Poletti.

Michele non è caduto nella trappola. Anche se si è trasformato nel carnefice materiale di se stesso, è riuscito a conservare una determinazione tale da additare il vero “mandante” di quel gesto: un sistema sempre più ingordo e sfacciato, che sacrifica sogni, aspettative e vite intere al solo scopo di accumulare profitto. Un capitalismo rappresentato emblematicamente proprio dal ministro del lavoro, al quale Michele “dedica” il gesto disperato in un post scriptum dal tono ironico, ma deciso: “Complimenti al ministro Poletti, lui sì che ci valorizza”. E di nuovo la penna individuale si esprime con un “ci” che accomuna tutte e tutti in una condizione di rabbia condivisa.

Nelle parole di Michele sembra infatti di leggere un bisogno di rivalsa e di reazione politica collettiva, che non ha trovato i canali adatti per esprimersi, sfociando nell'isolamento e nel pessimismo più totale. “Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo”.

Ecco, queste parole di Michele interrogano tutti noi, si rivolgono alla nostra "incapacità" di riconoscerci in quanto sfruttati, in quanto soggetti che condividono lo stesso destino a cui ribellarsi radicalmente. Non è impresa semplice, in quanto il mercato del lavoro e i dispositivi normativi che lo governano sono concepiti in modo tale da rendere tutti noi incapaci di riconoscerci come sfruttati, bensì come falliti che non riescono ad avere un lavoro e una vita dignitosa per demeriti propri. Dovremmo essere in grado di far emergere l’infamità di questo mercato del lavoro che divide, disciplina, ti educa allo sfruttamento e alla colpevolizzazione per interessi di governi e padroni; di costruire legami solidali e identità comune tra gli sfruttati, di creare strumenti di alternativa e di difesa collettiva in grado di opporsi allo sfruttamento che subiamo quotidianamente.
Strumenti di mutuo soccorso, pratiche di sindacalismo sociale, antidoti utili a ricostruire i perduti legami sociali, in grado di offrire un’alternativa di lotta collettiva alla disperazione individuale.

Alla fine Michele, troppo “sensibile” per una “realtà sbagliata”, si è suicidato; ma forse già era stato ucciso dal senso di impotenza e disgusto verso un mondo sempre meno umano, dove le disuguaglianze crescono esponenzialmente, e ogni vita è sacrificabile quando non può più essere sfruttata. Dai giovani lentamente divorati dalla precarietà fino ai migranti costretti al lavoro gratuito e alla detenzione, o crudelmente lasciati annegare nei canali di Sicilia e di Venezia. “Un disastro a cui non voglio assistere”, le sue ultime, strazianti, confessioni.
Ci sarà il tempo per le analisi e per i dibattiti... ora è il tempo del silenzio.
Ci auguriamo che almeno di fronte a tale tragedia il ministro del lavoro e la politica in generale non perdano l'occasione per stare zitti. Che tacciano per sempre.