Da Treu a Renzi. Il cerchio che si chiude

Tue, 30/09/2014 - 13:16
di
Big Bill Haywood

Dal pacchetto Treu al Jobs act - parte I e II - un ciclo si chiude. In un arco temporale di soli 17 anni, viene smantellato completamente l’impianto ideologico e normativo che regolava l’idea di lavoro a tempo indeterminato. Diritti e tutele vengono spazzati via e, con il beneplacito dell’Ue (si pensi al Trattato di Amsterdam e alla Strategia europea sull’occupazione), si afferma il nuovo paradigma dell’occupabilità a costo zero e dello scambio tra diritti e ammortizzatori sociali.
Dinnanzi a provvedimenti che, negli anni, hanno aggirato o smantellato le tutele e le garanzie previste nella legge 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) con l’assenso dei partiti e dei Governi di centrosinistra e dei sindacati confederali, fa sorridere la querelle che si è accesa furiosamente in questi giorni attorno alla questione dell’art. 18, che pare essere difeso dai vari D'Alema e Bersani, gli stessi che hanno introdotto la precarietà nel nostro paese.

Solo due anni fa la legge Fornero aveva già depotenziato l’impianto di tutele sul lavoro, tra cui lo stesso art. 18, liberalizzando il licenziamento individuale, per cui da allora basta la giustificazione economica(l'unica tutela prevista è un indennità da 12 a 24 mesi, in base all’anzianità). Il cosidetto Jobs act si somma alla legge Fronero per istituzionalizzare la precarietà come forma di lavoro “tipica”, e la riduzione delle tutele in questi anni è stata accettata come "sacrificio necessario" (per uscire dalla crisi) di fronte alla crisi economica dai partiti e sindacati confederali. Quante volte abbiamo sentito ripetere come un mantra che per ridurre il dramma della disoccupazione bisognava adottare forme di lavoro flessibili, meno costose per il datore di lavoro? Forme che valorizzassero l’occupabilità ossia la capacità di passare da un lavoro all’altro?.

Ma esiste davvero una relazione tra “flessibilità” e aumento dell’occupazione? Secondo i dati Eurostat, pubblicati nell’Empoyment Outlook Ocse 2013, nel 2007 la disoccupazione giovanile toccava il 20,3%, nel 2013 siamo al 46%. Il 52,5% dei giovani under 25 italiani ha un contratto di lavoro precario, di poco superiore alla media dell’area Euro a 17 Stati (51,3%). Ma se analizziamo il flussi di assunzione con contratti a termine che vanno dal 2009 al 2012, scopriamo che in Italia crescono ogni anno del 3,1%, contro una diminuzione dell'1,8% in Germania, un aumento dello 0,25% in Francia e del 0,8% in Spagna. Il processo di precarizzazione dei giovani occupati italiani è insomma tre volte più veloce di quello europeo. E nell’ultimo anno in Italia, la quota di neoassunti con un contratto precario è arrivata al 70%. Nonostante ciò, vi è un continuo aumento della disoccupazione giovanile, accompagnata da un ulteriore “fenomeno”, ossia la percentuale di giovani non in educazione, occupazione o formazione (i cosiddetti 'Neet') salita di 6,1 punti, raggiungendo il 22,4% alla fine del 2013.

La prima conclusione a cui possiamo giungere è che non esiste alcuna correlazione tra aumento della flessibilità e occupazione. Anzi, osservando i dati possiamo dire che con l’aumento della crisi economica e della fase di recessione vi è un aumento della precarietà e della disoccupazione, con conseguenziale peggioramento delle condizioni di vita. L’utilizzo di contratti precari è funzionale solo ad abbassare il costo del lavoro per gli imprenditori, attraverso un continuo turn-over dei lavoratori.
Su come realizzare questo abbassamento del costo del lavoro, i dispositivi presenti nel Jobs act parte I e il dibattito sui contenuti in discussione in questi giorni al Senato sul Jobs act parte II, possono chiarirci le idee:
1) il contratto a termine acausuale può essere prorogato massimo cinque volte, ma la prorogabilità del contratto non è applicabile alla persona, ma alla mansione. Basta modificare la mansione e il contratto può essere prorogato infinite volte;

2) grazie alla flessibilità della mansione, e quindi alla modifica (se non abolizione) dell’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori, sarà possibile assumere lavoratori con determinate mansioni e poi fargli svolgere mansioni inferiori con tutto ciò che ne concerne in relazione al trattamento retributivo, previdenziale e delle tutele, demansionamento che al momento è vietato appunto dall’art. 13;

3) con il testo licenziato dalla Commissione Lavoro del Senato, si istituisce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Un contratto che, nei primi tre anni, di tutele non ne offre nemmeno una, e che da la possibilità al datore di lavoro di interrompere il rapporto lavorativo in qualsiasi momento senza alcuna motivazione. L’articolo 18 infatti, in questi tre anni, non si applica, a meno di licenziamenti privatamente discriminatori (unico caso in cui è previsto il reintegro da parte del giudice) di cui l’onere della prova spetta però al lavoratore e non al datore. Inoltre è legittimo domandarsi per quale motivo un imprenditore, dinnanzi alla possibilità di poter assumere con un contratto a termine senza causa o di poter licenziare entro tre anni dall’assunzione senza alcuna motivazione, dovrebbe far superare l’eventuale periodo di prova di tre anni ai propri lavoratori;

4) dopo l’approvazione del Jobs act II, un neoassunto potrebbe raggiungere 9 anni di precariato in modo assolutamente legale nella stessa azienda. In che modo? Tre anni di assunzione con il contratto a tempo determinato senza causale, una volta scaduto, altri tre anni a tempo determinato senza causale con una agenzia per il lavoro (ex-interinale, il DL Poletti non lo vieta) e per ultimo, dulcis in fundo, il contratto a tutele crescenti per tre anni. Per dirla con una battuta, le tutele crescono ma il precario invecchia! A fronte di una eventuale riduzione di contratti co.co.pro (da notare che il premier non parla abrogazione di queste forme contrattuali, ma immagina che l’uso del contratto a tutele crescenti ne dovrebbe disincentivare l’utilizzo) con le nuove forme contrattuali lo sfruttamento rimane lo stesso;

5) nella legge delega si prospetta una ridefinizione degli ammortizzatori sociali, che assumeranno (specialmente per chi ha perso il lavoro) la forma del welfare to work (Workfare) per cui in cambio dell’accesso ai sussidi di disoccupazione (calcolati in base all’anzianità lavorativa) bisogna garantire allo Stato prestazioni lavorative tramite l’accettazione di un posto di lavoro o formazione. Si tratta di un vero cambio di paradigma, dato che si passa dall’idea di accesso al welfare come diritto garantito, a un rapporto di scambio diritti-doveri tra il cittadino e lo Stato, dove l’accesso agli ammortizzatori sociali si concretizza come un vero e proprio ricatto.

Insomma, non esageriamo quando diciamo che ci troviamo davanti ad un provvedimento che ci condanna alla precarietà a tempo indeterminato.

Dinnanzi a tutto questo, fa sorridere il dibattito tra CGIL, maggioranza e minoranza PD sull’art. 18, svuotato negli anni con la complicità o il protagonismo diretto di ognuno di loro. Quella che si vorrebbe far passare come una battaglia per la tutela di chi lavora, ha gli aspetti evidenti di un regolamento di conti interno. E ci troviamo di fronte al paradosso di accuse condivisibili da parte del premier Renzi verso la CGIL e la minoranza del suo partito, mosse però da chi prospetta come soluzione del problema della precarietà quella di trafsormarla da “atipica” a "tipica".
Fare una battaglia per difendere ciò che rimane dell’art. 18 è fondamentale, ma per essere efficace deve essere legata ad una lotta complessiva, che provi a ribaltare l’impianto ideologico su cui si fondano le ultime riforme del lavoro.
L’art. 18 va difeso per affermare un principio generale, ossia che i diritti - ancora di più in una fase di crisi - vanno estesi e non livellati verso il basso. Renzi vuole eliminare i lavoratori di serie A e B, rendendo tutti di serie B. Il punto è sottrarsi dalla strumentale contrapposizione tra cosiddetti garantiti e non garantiti e lottare per un livellamento verso l’alto dei diritti e delle tutele.
Ma per farlo bisogna essere in grado di formulare una contro-proposta che leghi la rivendicazione di un salario minimo intercategoriale europeo a quelle del reddito sociale, gli stumenti del welfare indiretto con la riappropriazione dei diritti sindacali sul posto di lavoro. Strumenti essenziali per sottrarsi al ricatto di accettare qualsiasi lavoro, anche il “lavoro di merda” e paraservile. E bisogna saper anche indicare le risorse per farlo, rilanciando la necessità di un audit sul debito pubblico, per non pagare i debiti illegittimi. Facendo emergere le contraddizioni delle politiche adottate del nostro Governo di concerto con la Commissione europea, utili solo ad ingrassare le tasche dell’1% a discapito del 99%.
Non bastano gli slogan e le proposte semplicistiche, dobbiamo sfidare il Governo Renzi sui temi concreti, per provare ad aprire una fase di opposizione sociale in questo paese.