Chi ti ruba il lavoro? FAQ-Racism verso il I° marzo

Mon, 29/02/2016 - 15:27
di
Thomas Müntzer

Il regime della precarietà totale nei luoghi di lavoro, così come la restrizione degli spazi di cittadinanza e di accesso al welfare, per mantenere un basso livello di conflitto ha bisogno di fornire una rappresentazione convincente di sé.
I termini della propaganda razzista, che è più preoccupante nella sua espressione formale e mediatica che in quella dei comunicati delle organizzazioni di destra, ci descrivono un’Europa esasperata, divisa tra garantiti e non, frantumata in micro-appartenenze in competizione.
“Smontare le bufale” e raccontare la realtà in un altro modo è indispensabile non solo per disinnescare la percezione (esplosiva) dei processi migratori visti come “invasione”, ma soprattutto per sollecitare una coscienza comune tra poveri, oppressi, non garantiti.
Qua però va fatta una prima ed indispensabile precisazione. Le domande che abbiamo selezionato, veri e propri assi del pensiero razzista moderno, sono indirizzate a tutt*, non ai razzisti. Il razzismo è un sistema di semplificazione della realtà, è un modo (sbagliato) per interpretarla, per molti italiani impoveriti è uno strumento per distinguersi da poveri immigrati a cui assomigliano sempre più. Insomma anche il miglior antirazzista può essere razzista, in mancanza di altre risposte.

L’Europa e l'Italia rischiano l'invasione?

Secondo l’UNHCR, 875mila migranti sono arrivati via mare in Europa dal 2008 al settembre 2015. Anche se tutti fossero rimasti in Europa, si tratta dello 0,17% della popolazione europea (che è di 507 milioni di abitanti). Se anche per assurdo tutti gli abitanti della Siria e dell’Eritrea si trasferissero in Europa, queste persone rappresenterebbero circa il 5% della popolazione.
Per quanto riguarda l’Italia, il paese che insieme alla Grecia subisce maggiormente la mancanza di un piano pubblico di accoglienza europea, i migranti sono tra i 5 e i 6 milioni (irregolari compresi). Nonostante gli italiani percepiscano la popolazione straniera al 30% di quella totale, in realtà non supera il 9%. Non vengono tutti da noi insomma, Regno Unito, Spagna e Germania ospitano più cittadini stranieri. Inoltre in Italia è difficile ottenere la cittadinanza (solo dopo 10 anni di residenza ininterrotta) e negli ultimi mesi le commissioni, sempre più politicizzate, che si occupano di permessi di soggiorno umanitari e richieste d’asilo hanno bocciato fino al 70% delle procedure.

Sono rifugiati o immigrati economici?

Negli ultimi 15 anni la popolazione migrante regolarmente in Italia è quadruplicata, passando da 1,3 a 4,9 milioni di persone. Leggere questo dato trascurando i cambiamenti politici, economici e climatici (in ordine di importanza) che influenzano profondamente le vite delle persone su scala globale, è il primo stimolo per costruire teorie complottiste e incominciare a parlare di invasioni organizzate a tavolino. Negare che ciò che avviene nel mondo è interdipendente, e spesso dipendente, dalle politiche economiche promosse da Stati Uniti e Unione Europea è il primo passo per trasformare i carnefici in vittime e sostenere, in piena paranoia d’assedio, di far parte di una minoranza “bianca” in via d’estinzione.
La distinzione tra rifugiati e migranti economici è falsa: dove sta il confine tra il dover scappare a causa di una guerra o essere obbligati ad emigrare a causa della perdita del lavoro o dell’inaridimento del terreno? Ad ogni modo nel 2015 le prime nazionalità tra gli sbarcati in Europa sono: Eritrea (in cui una feroce dittatura ha di fatto abolito i diritti civili); Nigeria (il cui nord del paese è sconvolto dalla milizia islamista Boko Haram); Somalia e Sudan; Siria (il cui conflitto va avanti dalle proteste del 2011 con una dinamica sempre più internazionale).
In secondo luogo l’aumento delle richieste di permesso di soggiorno umanitario è strettamente legato alla riduzione di altri canali per essere regolarizzati. La progressiva riduzione dei bacini di cittadini stranieri non comunitari regolarizzabili dai “decreti flussi” ne è la conferma. Questi a partire dal 2001 sono stati l’atto amministrativo con cui il governo stabilisce quanti cittadini non comunitari possono entrare nel paese per motivi di lavoro. Il decreto flussi del 2016 prevede la possibilità di regolarizzarsi solamente per 3.600 persone, visto che i restanti 14.250 saranno indirizzati a permessi di soggiorno per lavoro subordinato ed autonomo per persone già presenti in Italia.

I migranti non pagano le tasse e prosciugano il welfare?

Quello della spesa pubblica è uno degli argomenti più gettonati della destra radicale per proporre una cittadinanza esclusiva che supporti la marginalizzazione dei migranti e la crescita di nuovi nazionalismi. Il welfare dopotutto fu sia strumento di emancipazione, sia elemento di controllo sociale dei regimi totalitari che promessa progressista di pace tra lavoro e capitale durante i “30 anni gloriosi”. Una promessa che i governi locali e nazionali dopo vent’anni di privatizzazioni e riduzione della spesa pubblica, non vogliono e non possono più mantenere. Il welfare infatti da erogatore pubblico dei servizi sociali è diventato un’arena, un mercato in cui competono vari soggetti privati. Servirebbe invece un welfare finanziato con risorse provenienti dalla fiscalità generale tramite una radicale redistribuzione e soprattutto accessibile a tutte/i a seconda dei bisogni.
A) 35€ al giorno?
In mancanza di strutture pubbliche, le stesse partite dell’accoglienza e delle politiche contro la marginalizzazione sociale, diventano fette di una torta mangiata da soggetti privati (spesso cooperative) sulla pelle di utenti e lavoratori. Noi lo chiamiamo "business dell'accoglienza". In risposta al regolamento “Dublino II” che obbliga a fare la richiesta di permesso nel paese in cui si è stati identificati, e quindi a rimanerci fino alla risposta definitiva, l’Italia ha imbastito un sistema di accoglienza “emergenziale” in cui a guadagnarci sono solo le strutture ospedaliere e le cooperative più fameliche. I soldi - 80% a carico dello stato e 20% a carico dei comuni - per questi interventi provengono dal Fondo Europeo per i Rifugiati che ha una dimensione misera rispetto al volume di tasse pagate dai migranti europei per il rinnovo dei permessi di soggiorno. Insomma nulla viene rubato dalle tasche dei lavoratori bianco e autoctoni. Si tratta anche dei famosi 35€ giornalieri a migrante percepiti dal “gestore” del progetto di accoglienza, dai quali deve ricavare 2,50€ di pocket money, servizi di assistenza alla persona, servizi di pulizia, struttura di accoglienza adeguata, vestiario e servizi per l’integrazione come il sostegno socio-psicologico e la mediazione linguistico culturale. Gli episodi di “Mafia Capitale” e altri scandali sparsi per le provincie italiane, mostrano come si costruiscano profitti risparmiando sulle strutture e i servizi dell’accoglienza e sulle condizioni di lavoro degli operatori sociali che versano nella più totale precarietà.
B) Paghiamo le tasse per loro?
Uno studio dell’OCSE mostra che tra il 2007 e il 2009 in quasi tutti gli stati europei le famiglie immigrate hanno versato più tasse e contributi di quanto non abbiano beneficiato in termini di servizi e sussidi. Questo è dovuto prevalentemente a questioni demografiche. Nel 2014 i contribuenti stranieri hanno inciso per l’8,9% sul PIL, oltre a pagare le pensioni dei lavoratori italiani. L’INPS incassa dai contributi degli immigrati 7 miliardi, ma solo 26mila lavoratori stranieri non comunitari usufruiscono di una pensione previdenziale in Italia e 38mila ricevono una pensione di tipo assistenziale. Anche in Italia quindi, secondo uno studio della Fondazione Monessa, i lavoratori stranieri pagano più tasse di quanto non ricevano in forma di prestazioni. Secondo i dati del 2012, la spesa pubblica rivolta agli immigrati in Italia può essere stimata in 12,5 miliardi di euro (1,57% spesa nazionale pubblica nazionale). Dall’altro lato, tra imposte e contributi previdenziali i cittadini stranieri versano 16,5 miliardi di euro all’anno. Mettendo a confronto entrate e uscite gli immigrati in Italia sono in attivo di 3,9 miliardi di euro. Senza contare l'ammontare di centinaia di milioni di euro di imposte e contributi che i migranti non possono versare poiché costretti a lavorare a nero e senza un contratto regolare. Infatti su 2,5 milioni di occupati stranieri in Italia (11% del totale) solo 1,6mln provenienti da fuori l'UE è regolarmente occupato.
Al contrario arriva ad una cifra tra i 150 e i 200 miliardi di euro l’anno l’ammanco di imposte, tasse e contributi non pagati da grandi aziende, multinazionali e corporation. Queste sì libere di spostare i propri capitali e nominare le sedi fiscali in ogni luogo del mondo gli sia favorevole.

Ci rubano il lavoro e la libertà?

Sembrerebbe quindi che lo spostamento che influisce in senso negativo sulle vite degli europei è quello dei capitali più che delle persone in carne ed ossa. In realtà ciò che spaventa le classi medio-basse in costante impoverimento, è proprio il rischio di tornare alla condizione di povertà, precarietà ed insicurezza che molti migranti vivono. Nelle periferie di mezza Europa la lotta tra poveri nasce dalla “paura di diventare poveri” di famiglie che vedono nei vicini di casa migranti i racconti di vita dei nonni. Un altro elemento che emerge sommando i dati delle risposte che abbiamo provato a fornire è che i migranti sono stati e rimangono un enorme risorsa per un tipo di lavoro dequalificato, irregolare, non garantito ed esternalizzato che contribuisce ad abbattere il costo di produzione per diverse imprese europee o settori cardine come l’industria agro-alimentare di Italia, Spagna, Grecia e Francia. Chi ci guadagna sono le imprese già inserite in meccanismi di produzione e competizione internazionale, le stesse probabilmente che incassano appalti o aprono attività nei paesi più poveri beneficiando di tirannie corrotte, assenza di leggi sindacali e normative ambientali.
Mentre si sostengono “scontri di civiltà” e “guerre al terrore” la struttura imprenditoriale e bellica dei paesi europei beneficia dell’autoritarismo dei governi, della gerarchia creata dalle ortodossie religiose e dagli sconvolgimenti sociali causati dalle guerre. Difficilmente potremmo difendere la nostra “libertà” nel momento in cui non riconosciamo come importante quella altrui. Così come sarà impossibile costruire un serio dialogo culturale ed interreligioso nel momento in cui, oltre al conservatorismo dell’islam più ortodosso, non sottolineiamo i nuovi fondamentalismi cristiani e i processi di colonialismo culturale.
La disoccupazione è fin dalla rivoluzione industriale, uno strumento per mettere in competizione i lavoratori al fine di fargli accettare i peggiori lavori alle peggiori condizioni salariali possibili. È tanto più efficace quanto più i lavoratori si considerano diversi e nemici tra di loro. La crisi può essere un momento in cui radicalizzare questa frattura, proprio come è successo in vent’anni in Italia rispetto una massa di lavoratori (giovani, migranti e donne) precarizzabili rispetto un nucleo maggiormente garantito, o per ridurla provando a creare rivendicazioni unitarie sui luoghi di lavoro su cui far convergere vertenze per un’estensione e un’apertura della cittadinanza.