Capitale dell'esclusione. Per capire il "problema" rom a Roma

Tue, 25/11/2014 - 16:38
di
Antonio Ardolino*

Puntuale, virale, feroce. La campagna politica e di stampa contro la popolazione romanì italiana è ripartita. Con una velocità e una violenza verbale forse senza precedenti. Forse perché nel 2008 l'ultima grossa campagna, quella che culminò con i pogrom di Ponticelli, non disponeva della potenza di fuoco che ormai i social nerwork hanno raggiunto. Forse è quindi solo più evidente. Ma, senza forse, perché la crisi economica e sociale in questo Paese è devastante e ha bisogno più di altre passate di “nemici pubblici”, come dimostra la campagna politica in atto nelle periferie romane.

E quindi servizi giornalistici di media nazionali e di testate di quartiere, talk show, trasmissioni di intrattenimento pomeridiano. Nessuno si tira indietro nel fare il “proprio lavoro”. E, soprattutto, non si tirano indietro gli esponenti politici. Quelli che stanno facendo propaganda per occupare il posto lasciato da un centro destra al tracollo, quelli che stanno soffiando sul fuoco del malcontento del vivere nei ghetti urbani e pure quelli che veleggiano al governo del Paese e delle grandi città. Ecco. E da questi che ho deciso di partire nel primo di una serie di articoli per il nuovo sito di OsservAzione. Da chi i “campi nomadi” li ha creati e, oggi, quando va bene non sa gestirli, quando va male li usa a proprio piacimento. E a questo proposito non si prescinde da Roma, Capitale dell'esclusione e della segregazione dei rom immigrati negli ultimi 4 decenni.

“Rom a Roma” è argomento preferito, anche in questi giorni, di cronache e dibattiti. Ma in nessuno di questi si chiarisce che rom a Roma è una presenza storica come nel resto d'Italia, una presenza raccontata e analizzata da molte ricerche scientifiche.

Anche senza andare indietro nei secoli ma limitandoci al 900, moltissime famiglie rom sono arrivate con l'esplosione demografica della città del dopoguerra, Roma è cresciuta di un milione di abitanti tra il 1951 e il 1971. Come il resto degli “immigrati” di allora provenivano dall'Abruzzo, dalla Ciociaria, dalla Campania, dal Molise. E come il resto dei figli e degli immigrati di quegli anni oggi abitano in case proprie nella zona sud-est della città, in quartieri come Torre Angela, Borghesiana, Finocchio oppure in case popolari a Spinaceto, Nuova Ostia, Laurentino e Casilino. Ne parla la propaganda? No.. “Rom a Roma” significa parlare di “campi nomadi”, di furti e di (inventati, sia chiaro!) casi di rapimenti di bambini.

Ebbene, quindi.. parliamo di questi di rom. “Emergenza” è ancora una volta la parola usata e abusata. Ma l'ultimo arrivo di rom a Roma è quello coinciso con la forte immigrazione con la Romania, alla fine degli anni '90 e inizi 2000. 15 anni fa. Si può parlare di emergenza? No. E quanti sono i rom “stranieri” negli ultimi 30 anni, quelli che per la cronaca e la propaganda politica “devono andare a casa loro”? La percezione di “assedio” non corrisponde alla realtà neanche in questo caso. I numeri ufficiali (un censimento riportato dal Piano Regolatore Sociale 2011-2015 di Roma Capitale) parlano di 7.877 persone distribuite tra campi “abusivi”, “tollerati” e “Villaggi Attrezzati”. L'ultimo censimento nazionale, quello del 2011, ha contato 2.600.000 abitanti per la capitale. Vuol dire 0,3 della popolazione romana. Si può parlare di emergenza? No.

Che queste 7.800 persone vivano in una condizione di esclusione sociale ed economica e, come tutto il resto della popolazione dei ghetti urbani, molti vivano dentro o ai margini di quella che si definisce, volta per volta, illegalità è un dato di fatto. Si può parlare di emergenza? Facciamo un passo in dietro per capirne le radici.

E' negli anni 80 che Roma comincia a confrontarsi con la presenza “rom immigrati” sul proprio territorio ovvero quelli che, contrariamente a quelli già presenti, arrivano innanzitutto dall'allora Jugoslavia. E da subito gli interventi pubblici hanno privilegiato i “campi” come spazio abitativo e sociale adatti alla “cultura nomade”. Risale al 1985 la legge regionale n. 82 “Norme in favore dei rom” che prevede “l’erogazione di contributi a comuni e comunità montane per la realizzazione, gestione e manutenzione di campi di sosta e transito appositamente attrezzati” (Art. 2). Subito dopo, nel 1986, il Comune di Roma istituisce i “campi attrezzati per le comunità nomadi”. Da allora i diversi “piani nomadi” succedutisi nel corso degli anni hanno proposto il “campo”, come la forma dell’abitare da “concedere” a chi viveva nelle baracche di allora. Questo nonostante che quasi tutte le famiglie arrivate a Roma in quegli anni non avessero alle spalle una storia di nomadismo. Così come storie abitative urbane sono quelle delle famiglie rumene arrivate negli anni novanta. E invece anche negli anni 90 l'intervento pubblico fa suo il pregiudizio atavico degli “zingari nomadi” lasciando quindi fuori i rom dal resto delle politiche sul resto degli immigrati di quegli anni. Addirittura istituisce l’Ufficio Nomadi, una struttura interna all'allora Dipartimento Politiche Sociali che anche se oggi ha cambiato nome è, come si può leggere nei documenti ufficiali, ancora preposta al “coordinamento delle attività di allestimento, ristrutturazione, gestione, manutenzione ordinaria e straordinaria dei campi rom, comprese le attività di bonifica delle aree, nonché degli interventi socio-assistenziali”. Quindi sviluppo dei campi e “assistenza”, tra l'altro separata da tutto il resto della città.

Con la seconda giunta Rutelli comincia l'iter politico e amministrativo che porta alla situazione attuale. Nel 1999 il Consiglio Comunale impegnò il Sindaco e la Giunta (delibera 31/99) a costituire “un coordinamento interassessorile” che, tra gli altri, aveva come compito “l’individuazione delle aree destinate agli insediamenti abitativi”.

Campi e solo campi, contrariamente ad altre città che nello stesso periodo andarono in direzione diversa. E, ancor peggio, quella stagione iniziò con una serie di sgomberi dei campi abusivi senza nessuna soluzione alternativa che sparpagliò migliaia di persone distruggendo tutto quello che avevano e creando in altri quartieri un clima, appunto, di emergenza e di “invasione”.

Ma è tra il 2005 e il 2009, con le amministrazioni Veltroni prima e Alemanno poi, che la situazione prende definitivamente la piega di cui oggi si occupano continuamente i media nazionali e locali. Prima la costruzione dei due mega villaggi di via di Salone e di Castel Romano, ancora oggi i più grandi e più ingestibili campi romani. Poi nel 2007 il primo Patto per Roma Sicura, che prevede la costruzione di quattro villaggi della solidarietà in aree attrezzate in grado di ospitare 1.000 persone e attività di “abbattimento di insediamenti abusivi” con successiva riqualificazione delle aree liberate. Poi nel 2008il decreto che dichiara lo “stato di emergenza” in relazione agli insediamenti di “nomadi” in Campania, Lombardia e Lazio e che da ai Prefetti della Repubblica poteri straordinari e milioni di euro per “gestire l'emergenza”. Solo per Roma 32 milioni di euro.

Come sono stati spesi? L'attuale Prefetto che in questi giorni si è detto “pronto ad intervenire” è lo stesso di allora: Giuseppe Pecoraro. Assieme al sindaco Alemanno, ha firmato un “Piano Nomadi” che prevedeva la costruzione, fuori dall’area urbana, di 13 “villaggi autorizzati” 14 in grado di ospitare 6mila persone provenienti dagli oltre 100 campi presenti nella città. Nei “villaggi” sono previsti un presidio fisso di vigilanza h24, l’uso di telecamere, l’identificazione delle persone che entrano nel campo (compresi i residenti). I principali obiettivi del piano sono, oltre alla costruzione dei nuovi “villaggi” dotati di presidi socio-educativi, la chiusura di oltre 80 campi abusivi e di 9 tollerati, la ristrutturazione dei villaggi autorizzati e la realizzazione di nuovi insediamenti, la bonifica e il recupero delle aree sgomberate, la distribuzione della popolazione rom tra i campi e la realizzazione di un censimento.

Campi, costruzione di campi, ristrutturazione di campi, gestione e “controllo” di campi. 32 milioni di euro che si sono aggiunti ai 10 milioni annui che, con la ricerca “Segregare Costa” abbiamo certificato vengano spesi per la gestione ordinaria dei capi stessi.

Soldi che avrebbero potuto invece essere spesi per politiche abitative inclusive e diffuse in tutto il territorio. E poi in scuole, servizi socio-sanitari, trasporto pubblico, politiche del lavoro. E non per “i nomadi”, ma per tutti i cittadini. Ma di questo parliamo nel prossimo articolo. Questo serviva per mettere le cose in chiaro. I “campi nomadi” non c'entrano niente con i rom. Sono il prodotto di una politica escludente e segregazionista che ha contraddistinto tutto il Paese, e in particolare la sua capitale, e che ha fatto dell'Italia quello che la ricerca “ERRC” del 2000 definì “Il Paese dei Campi” e che ancora oggi non accenna a cambiare.

*Fonte articolo: http://www.osservazione.org/it/2_70/capitale-dellesclusione.htm