“Noi e loro”? Come sono cambiate le migrazioni

Mon, 05/03/2018 - 09:39
di
Mimmo Perrotta*

Il dibattito politico e mediatico sulle migrazioni, centrato anche in periodo elettorale sull’attualità e sull’emergenza, dimentica spesso che l’immigrazione interessa l’Italia ormai da quarant’anni. Rispetto a soli quindici anni fa, il panorama delle migrazioni in Italia è cambiato sotto moltissimi aspetti. È quindi necessario provare a leggere questi processi con maggiore profondità storica. Dopo aver rapidamente ricordato quali erano le caratteristiche delle migrazioni e del dibattito pubblico nella prima metà degli anni duemila, partirò da alcuni dati per descrivere cinque grandi mutamenti avvenuti in questi quindici anni e proporrò tre considerazioni.

Tra la metà degli anni novanta e la metà degli anni duemila, il ritmo di crescita del numero di immigrati in Italia era molto sostenuto. Molti di loro entravano in Italia irregolarmente o con un visto turistico di tre mesi; trascorrevano mesi o anni in Italia senza un permesso di soggiorno, per poi “regolarizzarsi” attraverso una delle sanatorie che periodicamente i governi italiani emanavano. La più grande fu quella connessa alla legge Bossi-Fini (2002), che consentì a quasi 700mila persone di ottenere un permesso per motivi di lavoro. Tra il 31 dicembre 2003 e il 31 dicembre 2007 (prima cioè della crisi economica), il numero di stranieri regolarmente residenti in Italia è passato da meno di due milioni a quasi tre milioni e mezzo: un tasso di crescita doppio rispetto a quello dei dieci anni successivi. In quegli anni, il dibattito pubblico era ossessionato dalla distinzione tra “migranti regolari” e “clandestini”. La parte xenofoba della società italiana demonizzava i “clandestini” e li considerava come criminali indesiderati, senza tenere in considerazione il fatto che una quota altissima di stranieri era costretta a trascorrere in Italia un periodo più o meno lungo senza permesso di soggiorno a causa della mancanza di efficienti canali di ingresso regolari per la ricerca di lavoro (un tema su cui tornerò dopo); “clandestini” e “regolari”, quindi, non erano individui differenti, ma persone in fasi differenti della propria esperienza migratoria. Le organizzazioni e i movimenti di solidarietà con i migranti puntavano l’attenzione sulla “clandestinizzazione”, protestavano contro i Centri di permanenza temporanea e i rimpatri e facevano notare come lo stretto legame istituito dalla legge italiana tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro obbligasse i cittadini stranieri ad accettare condizioni di lavoro peggiori di quelle degli italiani, creando una fascia di individui vulnerabili sul mercato del lavoro. Molti lettori di “Gli asini” ricorderanno bene quel periodo. A partire dalla metà degli anni duemila, questo quadro è completamente cambiato, a causa di alcuni processi sociali, economici e geopolitici.

L’allargamento a Est dell’Unione Europea

Il primo gennaio 2007, centinaia di migliaia di cittadini rumeni e bulgari, precedentemente “extracomunitari”, si ritrovarono a essere cittadini dell’Ue; quanti tra loro erano “clandestini”, nei mesi successivi poterono regolarizzare la propria posizione. I rumeni sono da molti anni la nazionalità di stranieri maggiormente presente in Italia, più di un milione di persone, un quinto del totale. La loro mobilità in Europa è pressoché libera e non regolata da visti e permessi di soggiorno.

La crisi economica

A partire dal 2008, molti dei settori economici che maggiormente avevano attratto migranti nei vent’anni precedenti, come l’edilizia e le piccole e medie imprese manifatturiere del centro-nord, hanno subito gli effetti della crisi. Negli anni successivi, sono diminuiti gli ingressi di stranieri in Italia (nel 2010 i nuovi permessi di soggiorno erano quasi 600mila; da allora sono in costante diminuzione, dal 2012 sono meno di 300mila; nel 2016 sono stati 226.934) ed è scesa la percentuale di persone che entrano in Italia per motivi di lavoro (dal 60% del 2010 al 5,7% del 2016; all’opposto, i nuovi permessi per motivi umanitari sono cresciuti dall’1,7% del 2010 al 34,3% del 2016; la quota maggiore è comunque quella dei nuovi permessi per ricongiungimento familiare, che da cinque anni sono tra il 40 e il 45% del totale). Inoltre, la crisi e la disoccupazione hanno rappresentato la principale ragione addotta dai governi per la diminuzione progressiva dei migranti reclutati attraverso gli annuali decreti flussi, unico canale “legale” d’ingresso in Italia per motivi di lavoro: tra il 2004 e il 2008 i decreti flussi si ripromettevano di reclutare tra i 115mila e i 230mila lavoratori all’anno, con un picco di 550mila nel 2006; dal 2012 al 2018 sono passati prima a circa 50mila e poi costantemente attorno ai 30mila all’anno.

La “profughizzazione” delle migrazioni

Dal 2011, a causa delle “primavere arabe”, dei conflitti e delle dittature nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in alcuni paesi dell’Africa Subsahariana, è aumentato enormemente il numero di persone che hanno attraversato il Sahara e il Mediterraneo per arrivare in Europa, a rischio della propria morte. Circa 600mila persone sono sbarcate sulle coste italiane tra il gennaio 2014 e il luglio 2017, prima che l’accordo tra Minniti e le fazioni libiche non mettesse (temporaneamente) un freno a questi movimenti, per lasciare centinaia di migliaia di migranti a soffrire e morire in Libia. Questa è storia recente e nota a chi legge questa rivista. È interessante notare che: 1) il dibattito centrato sul dualismo clandestini/regolari è stato sostituito da quello tra migranti forzati (considerati “davvero” meritevoli di protezione e asilo) e migranti economici (che quindi vanno rimpatriati); 2) le politiche basate su sanatorie e decreti flussi sono state sostituite dalla accoglienza generalizzata ai richiedenti asilo; 3) quello che non è cambiato è la mancanza di canali legali di ingresso per cercare lavoro in Italia e in Europa. La crescita delle domande di protezione internazionale, dunque, è causata non solo da conflitti e dittature, ma anche dal fatto che questo è per molti l’unico modo per entrare nel territorio europeo con un permesso di soggiorno. È la chiusura delle frontiere europee a rendere molti migranti dei “profughi”, costringendoli a un terribile viaggio e a subire maltrattamenti e torture in Libia (molti tra coloro che sbarcano in Italia non avrebbero alcun bisogno di “accoglienza” da parte dello Stato e se la caverebbero meglio se fossero lasciati liberi di andare dove e da chi vogliono, a patto che venisse loro assegnato un permesso di soggiorno valido in tutta Europa, magari per ricerca di lavoro; questo peraltro libererebbe le risorse necessarie per accogliere bene quelli che ne hanno davvero necessità). Se negli anni novanta e duemila la maggior parte dei migranti entrava in Italia (dal confine orientale, per lo più) con un visto turistico o in maniera del tutto informale, oggi si entra (dal mare, per lo più) con una domanda di asilo. Poi richiedenti asilo e rifugiati cercano un impiego, di solito in nero e ad alto tasso di sfruttamento, come accadeva quindici anni fa ai “clandestini”. Peraltro, gli alti tassi di dinieghi da parte delle commissioni territoriali fanno prevedere che nei prossimi anni aumenterà nuovamente il numero di persone prive di permesso di soggiorno sul territorio italiano. Dalla clandestinizzazione alla profughizzazione, di nuovo alla clandestinizzazione.

Le acquisizioni di cittadinanza

Nel frattempo, senza troppo clamore, la presenza di milioni di persone straniere sul territorio italiano si è stabilizzata, anche dal punto di vista giuridico. Se gli stranieri residenti in Italia sono più di cinque milioni (l’8,3% della popolazione) e se gli occupati stranieri sono poco meno di due milioni e mezzo, aumenta di anno in anno il numero di quanti non sono più stranieri: hanno ottenuto la cittadinanza italiana 154.686 persone nel 2014; 178.035 nel 2015; 201.591 nel 2016. Si stima che in totale siano più di un milione e trecentomila: un milione e trecentomila persone di nazionalità italiana e di origine straniera. La maggior parte dei migranti presenti oggi in Italia è arrivata tra il 1990 e il 2010: pian piano tutti arriveranno alla fatidica soglia dei dieci anni di presenza regolare continua necessari per accedere alla cittadinanza italiana. Nonostante la difficoltà delle procedure, esistono oggi moltissimi italiani neri, italiani musulmani, ortodossi o sikh, e ce ne saranno sempre più nei prossimi anni. Non solo: due milioni e mezzo tra coloro che sono ancora stranieri sono titolari di un permesso di durata illimitata, ovvero non devono più chiederne il rinnovo, perché residenti regolarmente da più di cinque anni (sono “solo” un milione e mezzo i titolari di permessi di soggiorno soggetti a scadenza e solo mezzo milione quelli tra loro che soggiornano per lavoro subordinato). Persone, quindi, non più obbligate ad accettare condizioni di lavoro penalizzanti solo per il rischio di perdere il permesso di soggiorno; e, per questo, forse, più inclini a mobilitarsi per migliorarle, soprattutto nel Nord. Ci sono poi gli 800mila figli di migranti che frequentano le scuole italiane. Se ce ne fosse bisogno, questi dati ci mostrano quanto sia stata cieca la scelta di non approvare la legge sullo ius soli: anche nelle condizioni attuali, estremamente vessatorie, l’acquisizione della cittadinanza italiana è solo una questione di tempo. Presto avremo due, tre milioni di italiani di origine straniera. Che non avranno molti motivi di simpatia per lo Stato italiano. Non è un caso se decine di migliaia di persone, una volta ottenuta la cittadinanza italiana, la usino non per “integrarsi” in Italia, ma per spostarsi in altri paesi, grazie al fatto che il passaporto italiano consente una mobilità più libera rispetto a quello – per esempio – indiano, pakistano o albanese. Questo ci porta al quinto importante processo.

La nuova emigrazione italiana

Non si era forse mai interrotta, ma è prepotentemente aumentata negli anni della crisi economica. Come i pochi studi disponibili stanno accertando, non si tratta solo della “fuga dei cervelli”, dei ricercatori presenti in tutte le università europee o degli ingegneri che lavorano per le multinazionali in mezzo mondo (secondo il rapporto statistico Idos, tra il 2002 e il 2015 hanno lasciato l’Italia 202mila diplomati e 145mila laureati). Molti dei “nuovi emigrati” non sono diversissimi da quelli del passato e si muovono per cercare impieghi di tipo operaio, nell’edilizia o nella ristorazione. Nel 2015 gli emigrati sono stati circa 175mila. Si parte dal Nord e dal Sud; quest’ultimo ne è sicuramente più impoverito, essendo anche origine di una consistente mobilità interna verso le regioni del Nord. Secondo alcuni, il numero di emigrati è superiore a quello degli ingressi: l’Italia ridiventa così, dopo soli quarant’anni, un paese di emigrazione più che di immigrazione.

Ragionando su questi cinque grandi processi, propongo tre considerazioni.

“Noi e loro”

Non ha più senso – se mai ce l’ha avuto – usare in maniera rigida la distinzione tra “noi” (italiani) e “loro” (immigrati). Una distinzione onnipresente nei media, nella politica e purtroppo anche nel linguaggio e nel senso comune. Non ha senso non più solo perché queste categorie sono complesse e sfaccettate al loro interno (gli immigrati sono di tantissime nazionalità, a esempio; alcuni sono qui da quarant’anni, altri sono appena arrivati), ma soprattutto perché una quota crescente di immigrati diventa italiana e una quota crescente di italiani diventa migrante. Tuttavia, è prevedibile che questa dicotomia non sparirà e che sotto questo aspetto l’Italia somiglierà alla Francia, dove molti figli e nipoti di migranti, anche se cittadini francesi, subiscono la stessa segregazione e discriminazione dei loro genitori anni fa. A meno che la generazione nella quale per la prima volta figli di italiani e di migranti hanno convissuto quotidianamente nei banchi di scuola non si dimostri più saggia delle precedenti.

L’Italia sta diventando un paese sempre più marginale

Nonostante molti immigrati arrivati prima della crisi si siano stabilizzati (come mostrano i dati sui permessi di soggiorno di lunga durata, le acquisizioni di cittadinanza, i ricongiungimenti familiari), l’Italia sta diventando un paese marginale nei sistemi migratori internazionali. Si tratta di una considerazione contro-intuitiva, visto che il dibattito pubblico si concentra su come fermare quanti cercano di entrare in Italia. Tuttavia, i dati dei nuovi permessi (soprattutto per lavoro) sono in diminuzione almeno dal 2010, mentre aumentano quelli degli emigrati dall’Italia. Inoltre, è una constatazione di senso comune che molti dei migranti che sbarcano dopo il terribile viaggio nel Sahara e nel Mediterraneo, se avessero potuto prendere un aereo e scegliere liberamente dove andare, probabilmente non avrebbero scelto l’Italia. E, se non vi fossero costretti dal Regolamento di Dublino, lascerebbero l’Italia appena possono, come molti fanno anche a costo di diventare irregolari in altri paesi europei. Nel 2014 l’Istat rilevava che l’82% dei cittadini non comunitari regolarizzati con la Bossi-Fini era ancora residente in Italia dieci anni dopo; a testimonianza di un mutamento, tre anni dopo l’Istat ha notato che, tra i migranti giunti nel 2012, solo la metà era ancora presente in Italia nel 2017.

La mancanza di politiche migratorie

I governi degli ultimi anni hanno rinunciato a mettere in atto politiche di gestione dell’immigrazione. Il testo unico sull’immigrazione risale al 1998, la Bossi-Fini al 2002. Erano criticabili allora e le abbiamo combattute; sono ancora più dannose oggi, in un contesto completamente diverso.

Da attivista, penso spesso che la totale apertura delle frontiere (non solo di quelle italiane, ovviamente) sarebbe la politica più sensata: le persone potrebbero spostarsi liberamente, prendendo un aereo (spendendo molto meno denaro di quello che oggi danno ai passeur e risparmiandosi molte sofferenze); l’industria della migrazione illegale sparirebbe; le persone senza permesso di soggiorno potrebbero tornare nel paese d’origine; forse molte dittature cadrebbero con più facilità e meno spargimento di sangue. Nei pochi casi in cui le frontiere si sono aperte non c’è stata la temuta “invasione”: penso all’allargamento a Est dell’Ue, che non ha portato tutti i rumeni e i bulgari in Europa occidentale, ma li ha semplicemente resi più liberi di andare e venire. In ogni caso, la chiusura ermetica delle frontiere è un’idea certo più irrealizzabile della libera circolazione degli individui.

Ma anche se ragionassi da uomo di governo, mi renderei conto che non c’è oggi alcun ragionamento di ampio respiro sulle dinamiche demografiche interne e internazionali o sulle prospettive economiche, nessun tentativo di regolare le migrazioni negli interessi dello Stato italiano, qualunque cosa questo significhi. A meno che non vogliamo considerare politiche migratorie il blocco dei migranti in Libia e questa accoglienza senza senso (la “grande messa in scena”, come è stata definita un anno fa su “gli asini”).

Quelle che vengono spacciate per politiche migratorie non hanno in realtà l’obiettivo di regolare gli spostamenti dei migranti, come sarebbe ad esempio se si cercasse di reclutare nei paesi d’origine quei lavoratori che si reputano necessari per l’economia italiana. Queste politiche coprono invece probabilmente obiettivi di politica estera, come quello di intervenire in paesi e aree del mondo nelle quali il governo ritiene di avere interessi. Mandando militari, stringendo accordi o concedendo aiuti economici con l’argomento di “bloccare i migranti” (o, addirittura, di “favorire lo sviluppo” per convincere i potenziali migranti a rimanere a casa loro), in Libia, in Niger o altrove, si perseguono obiettivi geopolitici o si sostengono attori economici italiani, spesso grandi imprese, in concorrenza con altri Stati europei, Stati Uniti o Cina. Certamente senza fare gli interessi dei luoghi dove si opera; e certamente sulla pelle dei migranti, che diventano vittime di queste politiche. Sul mercato del lavoro italiano, queste politiche hanno invece l’effetto di creare una nuova stratificazione e nuove vulnerabilità. Se i “vecchi” immigrati hanno ormai aumentato la quota di diritti a cui hanno accesso in Italia (i comunitari grazie allo status di cittadini Ue; altri grazie all’ottenimento della cittadinanza italiana), i “nuovi” immigrati – richiedenti asilo, titolari di protezione o ex-richiedenti asilo diventati “clandestini” – li hanno sostituiti come lavoratori deboli, utili a molti settori economici per abbassare il costo del lavoro. Inoltre, banalmente, quelle che vengono chiamate politiche migratorie servono a ingraziarsi la crescente parte razzista e xenofoba dell’opinione pubblica italiana e degli elettori.

Forse, quando davvero “ripartirà la crescita”, la necessità di nuovi lavoratori spingerà i governi a cercare seriamente di reclutarne all’estero; più probabilmente, però, i meccanismi di reclutamento saranno ancora una volta penalizzanti per i nuovi migranti. Ecco: quello che non è cambiato negli ultimi vent’anni è che le politiche migratorie hanno avuto l’effetto di causare grandi sofferenze, e talvolta la morte, delle persone che decidono di spostarsi da un paese povero a un paese ricco.

*Fonte articolo: http://gliasinirivista.org/2018/02/cambiate-le-migrazioni/?utm_content=b...