A proposito dell'articolo di Nancy Fraser

Fri, 24/01/2014 - 22:10
di
Lidia Cirillo

E’ cominciata anche in Italia la discussione sull’articolo di Nancy Fraser pubblicato da The Guardian. Conosciuta e apprezzata come una delle femministe più lucide di un tempo che produce più nebbie che luci, Fraser esprime la sua preoccupazione per la metamorfosi del femminismo, avvitato ormai in una relazione pericolosa con le spinte neo-liberiste. Le idee femministe – scrive Fraser – erano un tempo parte di una visione radicale del mondo, ora vengono espresse in modi sempre più individualistici; criticavano il carrierismo, ora consigliano alle donne di “darci dentro”; si fondavano sull’idea di solidarietà, ora guardano alle donne imprenditrici, al successo personale, alla carriera e alla meritocrazia.
L’articolo continua con una serie di argomenti condivisibili, che sono però costretta a tralasciare.
L’obiezione più diffusa alla provocazione di Fraser è stata la più ovvia e cioè che il femminismo a cui l’articolo allude esiste, ma non è certo l’unico. Cinzia Arruzza (femminista e docente di filosofia alla New School for Social Research di New York) nella breve presentazione dell’articolo, pubblicato in Italia da communianet.org, ricorda le correnti femministe che non possono essere assimilate a quella che Fraser critica a ragione, ma con il torto di presentarla come “il femminismo” tout court: il femminismo materialista, il femminismo intersezionalista, il marxismo queer, il femminismo lotta di classe, le teoriche della riproduzione sociale, il femminismo marxista.
A questo tipo di obiezione, fatta per altro da molte, Fraser risponde che quello a cui si riferisce rappresenta comunque la grande maggioranza del femminismo e ciò che resta è invece marginale.
Non conosco lo stato del movimento negli Stati Uniti, né sarei in grado di valutare quanto pesino l’una o l’altra cultura femminista e tutte nel loro insieme. So tuttavia che certi discorsi possono essere facilmente tradotti in italiano, valgono cioè anche per il nostro paese.
In Italia l’idea che “il femminismo” sia questo non deriva tanto della sua maggiore consistenza quanto dalla scarsa visibilità degli altri per le stesse ragioni per cui sono poco visibili e quasi mai hanno voce le resistenze molteplici del corpo sociale al neoliberismo e alle politiche di austerità. La generalizzazione, se fosse estesa alla situazione italiana, non renderebbe un buon servizio proprio ai femminismi che non meritano certo l’accusa di essere ancelle del neoliberismo. In più essa rischia di riprodurre, negli ambienti che ancora lottano per la giustizia sociale, un vecchio pregiudizio duro a morire. E cioè che in ultima analisi il femminismo sia il giocattolo di donne borghesi o, per dirla in modo meno volgare, di una piccola borghesia intellettualizzata, magari talvolta con legittime aspettative, ma incapace di sparare nella giusta direzione.
L’articolo di Fraser merita tuttavia un piccolo ma indispensabile approfondimento. Il femminismo, cioè l’insieme dei movimenti e dei discorsi di donne contro le ingiustizie e le discriminazioni, nasce sempre e invariabilmente al fianco di correnti democratiche, riformiste o rivoluzionarie.
Della rivoluzione del 1789, del nazionalismo dei popoli oppressi, del movimento per l’abolizione della schiavitù, del movimento operaio del XIX e XX secolo, della radicalizzazione degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Diciamo con una semplificazione estrema e tanto per intenderci che il femminismo nasce e ri-nasce sempre a sinistra.
La ragione è ovvia e dipende da ciò che si intende per sinistra. Nella ricerca di un criterio generale e valido per tutta la storia contemporanea per distinguere la destra dalla sinistra molte cose sono state dette. La più convincente è quella che vede nella sinistra l’insieme delle correnti di pensiero e di pratiche che criticano e rimettono in discussione i rapporti di potere esistenti in un certo tempo e in un certo luogo, che la destra si sforza invece di mantenere, rafforzare o restaurare.
Le grandi correnti maschili democratiche, riformiste o rivoluzionarie hanno opposto un’iniziale (e non solo iniziale) resistenza alle rivendicazioni delle donne, ma sono state poi messe in contraddizione sulla base delle loro stesse convinzioni e dei loro stessi paradigmi. Intellettuali donne capaci di elaborare discorsi in funzione della liberazione femminile hanno di volta in volta fatto un abile uso di nozioni e categorie fondate dal pensiero politico maschile, diciamo così, di sinistra. Hanno rivendicato l’uguaglianza e i diritti al fianco delle rivoluzioni borghesi; hanno rimproverato agli uomini del movimento abolizionista statunitense di lottare contro la schiavitù e di imporla poi alle loro donne; hanno chiesto giustizia al movimento operaio o rivolto l’accusa di essere compagni in piazza e fascisti a letto.
Le conquiste della rivoluzione femminile hanno poi agito sui rapporti di potere, sulle condizioni di vita, sul modo in cui una società percepisce le donne. Nel corso dei due secoli di vita sia pure intermittente del movimento, rivendicazioni e discorsi che erano propri del femminismo hanno finito col diventare senso comune. E’ allora normale che prima di tutto che ci sia un ascendente dei temi femministi in ambienti diversi da quello originario con le ovvie torsioni e metamorfosi, che l’adattamento a un altro ambiente comporta. E può anche accadere che ci sia un femminismo di destra: è esistito per esempio, sia pure per un solo momento, un demente femminismo tedesco che parlava agli uomini nazisti con il loro linguaggio, chiedendo che non replicassero l’atteggiamento dell’ebreo misogino Otto Weininger.
Esiste però anche un altro fenomeno ed è possibile che Fraser si riferisca piuttosto a questo. In Italia la parte più visibile del femminismo nato intorno al ’68, al fianco dei movimenti di critica e di lotta, ha a un certo punto cominciato a utilizzare nozioni proprie di culture politiche diverse da quelle di cui avevano inizialmente adottato i paradigmi. Per esempio la critica della vittimizzazione, che un argomento elaborato a destra contro le idee di ingiustizia, sfruttamento, oppressione ecc. Oppure la tematica dell’empowerment, legittima se si riferisse a un soggetto collettivo, ma utilizzata per indicare soluzioni personali, le cui presunte ricadute positive si manifesterebbero poi sul piano esclusivamente simbolico. O ancora il rifiuto di pensare in termini di soggetto collettivo, di movimento, di lotta in nome di una presenza critica individuale.
La rottura tra lotta femminista e lotta di classe è avvenuta per una parte importante del femminismo italiano già nel ’68 e si è manifestata con il rifiuto delle rivendicazioni economiche, considerate l’espressione di una specie di femminismo di rango inferiore, il cosiddetto emancipazionismo.
Questo fenomeno si spiega prima di tutto con il carattere perentorio e assoluto di ogni rivoluzione (e quindi anche della rivoluzione sessuale), che per affermarsi ha bisogno di fare tabula rasa del resto. In secondo luogo con le resistenze delle sinistre di allora di riconoscere la dignità di politica a fenomeni come l’autocoscienza o come i discorsi sulla sessualità, che produssero invece in un paese cattolico e conformista come l’Italia un vero e proprio salto di civiltà.
Nelle metamorfosi del femminismo, o meglio della sua parte non per caso più visibile, hanno avuto poi un ruolo decisivo le sconfitte degli ultimi decenni, in cui le sinistre tutte, sia pure per ragioni diverse, hanno una parte consistente di responsabilità. I rapporti tra femminismo e lotta per la giustizia sociale, per dirla al modo di Fraser, riflettono adeguatamente lo stato della sinistra, cioè dell’ambiente in cui il femminismo era riemerso dopo una lunga parentesi di immersione.
Un femminismo al fianco delle resistenze sociali che si politicizzano, ma che come queste resistenze è frammentario e con una cultura politica ancora molto acerba. Un femminismo cosiddetto storico, privo di ancoraggio alle dinamiche sociali e che vive in un mondo asettico, in cui si autocelebra, ignaro delle dinamiche distruttive della crisi. Un femminismo utilizzato da donne di apparati sindacali e partitici per le proprie carriere con giustificazioni ideologiche mutevoli, a cui non vale la pena di dare la dignità di teorie da decostruire o con cui polemizzare nel merito.
Sia chiaro, non si tratta di una tripartizione organizzativa, quanto piuttosto di atteggiamenti diversi che spesso si mescolano e talvolta anche convivono.
Mi sembra che la morale della favola, almeno qui in Italia, sia un po’ diversa da quella del racconto di Nancy Fraser.