Nancy Fraser: Un'analisi sbagliata per una conclusione condivisibile

Fri, 24/01/2014 - 22:08

Da anni ci battiamo all'interno del movimento delle donne per l'idea che "il femminismo" è un insieme plurale di idee e pratiche orientate a rovesciare la dominazione maschile. Per noi marxiste femministe, o più ampiamente quella che nel Nord Europa si chiama la corrente fem-soc (femminista socialista) questa lotta è indissolubilmente legata alla lotta anticapitalista, antirazzista, contro l'eteronormatività, in breve contro le altre forme di oppressione e sfruttamento che si intersecano con il capitalismo nella sua fase neoliberista. E non è certo una novità dell'ultimo decennio che esistono, all'interno del femminismo correnti borghesi, liberali, riformiste... che limitano il loro orizzonte ad un'integrazione più paritaria all'interno del sistema economico esistente: la rottura del "soffitto di vetro", il carrierismo, il successo individuale, lo specchiarsi nelle individue che "ce l'hanno fatta" (vedi l'esaltazione della pratica dell'"affidamento" del nostrano Pensiero della differenza"degli anni 80 che presentava la variante dell'integrazione al capitalismo con un modello presuntamente più "femminile").
Per Nancy Fraser "il femminismo" in quanto tale avrebbe cambiato pelle, passando da una critica profonda allo "state-managed capitalism" - che si potrebbe tradurre con un capitalismo caratterizzato da un forte intervento statale, vedi la fase del boom economico degli anni 50-70 - ad un'adesione convinta al capitalismo neoliberista, dal quale sarebbe non solo stato cooptato ma alla quale vittoria avrebbe contribuito attivamente con tre idee di fondo: 1° la critica alla famiglia mono-reddito (e quindi all'esclusione delle donne dal mondo del lavoro), sarebbe stata sostituita da un'adesione acritica all'ingresso massiccio delle donne nel mercato globalizzato, sotto qualsiasi condizione di precarizzazione e sfruttamento; 2° il rifiuto dell'economicismo e la proposta femminista di ampliamento dell'agenda politica a questioni culturali e identitarie sarebbe scivolato nell'esclusione della lotta economica e sociale (la lotta di classe) tout court; 3° la critica femminista al paternalismo e alla burocrazia dello Stato sociale avrebbe dato luogo alla celebrazione del privato e del privato "sociale", Ong e organismi multilaterali in testa, trasformando i diritti acquisiti per tutte/i in elemsoina e meritocrazia.
Il primo sillogismo che denuncio è proprio quello della "pars pro toto" e cioè di attribuire a tutto il femminismo una posizione che certo è esistita, soprattutto all'inizio del ciclo glorioso della mondializzazione, in certi settori del femminismo main stream e che vedevano nella femminilizzazione del lavoro e sviluppi gloriosi, nascondendone il carattere effimero, di precarizzazione e supersfruttamento, denunciato invece da tutte le correnti femministe in qualche modo coinvolto nell'ampio movimento no global internazionale. Detto tra parentesi, la difesa della "flessibilizzazione" del mercato del lavoro non è stata monopolio della parte femminil-femminista della "sinistra" ma per almeno un decennio è stata adottata come ricetta "progressiva" dall'insieme delle organizzazioni maggioritarie del movimento operaio in nome della "creazione di nuove opportunità per le/i giovani", del "superamento delle catene del posto fisso" e della "maggiore libertà di scelta".
L'innegabile rifugiarsi di gran parte del femminismo - in Italia come forse negli USA, ma non dapperttutto - nelle tematiche culturali, simboliche e identitarie va letto - anche ma non solo - all'interno di un'analisi dei rapporti di forza tra le classi in continua linea di perdita da trent'anni a questa parte. Detto più banalmente e senza giustificarlo: è più comodo occuparsi della ricostruzione di genealogie femminili - magari con qualche sovvenzione pubblica - piuttosto che battersi contro la chiusura di consultori o l'abolizione dei lincenziamenti in bianco. Eppure anche queste lotte non si sono certo fermate del tutto per il fascino delle sirene del neoliberismo.

Detto ciò, tutto a posto allora nel campo femminista? Assolutamente no. Assistiamo senz'altro ad una maggior strumentalizzazione del femminismo da parte dei governi e degli Stati del cosiddetto Occidente in funzione imperialista, postcoloniale, xenofobo e islamofobico. In questo senso ha ragione Cinzia Arruzza a sottolineare nella sua introduzione l'importanza cruciale di un approccio intersezionale sempre più articolato e approfondito, che attivi e metta in collegamento soggetti antagonisti - nuovi e vecchi.
Il recupero - per quanto ci riguarda direi piuttosto la perseveranza - dei nostri fini originali, con una sottolineatura accentuato sulla democrazia partecipativa e l'auto-organizzazione in tutte le sue forme, combinando la lotta per la giustizia sociale con quella culturale e identitaria, mi sembrano le conclusioni che possiamo condividere con l'autrice.