Il femminismo per porre fine al capitalismo

Wed, 28/03/2018 - 12:46
di
Laia Facet*

Considerata da sempre una lotta di secondo piano per buona parte della storia del movimento operaio, il femminismo oggi assume ruolo guida nelle resistenze contro il capitalismo dell’austerità. Un movimento vivo, radicale, che esprime forte capacità di autorganizzazione, con un seguito ampio e una gamma infinita di potenzialità per contaminare il resto delle lotte.

La capacità di risposta all’appello dell’8 marzo nel 2017 per lo sciopero delle donne, così come le repliche della Womens’ March in tutto il mondo, sono state il segnale di avvio di nuovo ciclo di mobilitazioni femministe. I primi scioperi e mobilitazioni di massa con cui si sono confrontati tanto Macri (Argentina) quanto Trump (USA) sono stati femministi. E il ruolo delle donne nelle primavere arabe, nelle mobilitazioni in difesa del welfare pubblico o nelle proteste contadine in America Latina di qualche anno fa non è stato affatto casuale.

L’offensiva neoliberista e misogina delle ricette dell’austerità sta incontrando forti resistenze da parte delle donne. Noi donne ci assumiamo gli oneri della riproduzione dentro e fuori dalle mura domestiche, dentro e fuori dal mercato, dentro e fuori dal mondo del lavoro. Le politiche dei tagli e del debito implicano una stretta doppia o tripla per noi donne in ciascuna di queste sfere.

Tuttavia, non tutte le donne soffrono trasversalmente allo stesso modo gli effetti della crisi. Le donne della borghesia, dell’establishment, delle classi dominanti o degli apparati statali non vivono la stessa esperienza di spossessamento. Se è vero che a tutte viene richiesto di svolgere un certo ruolo di genere, non tutte lo affrontiamo allo stesso modo, né a tutte viene richiesta la stessa cosa.

Molti sono stati i dibattiti, tanto dentro al marxismo quanto al femminismo, sulla relazione tra genere e classe. La mia opinione è che siamo un settore strategico della classe stessa e di conseguenza della lotta anticapitalista. Questa concezione comporta, da un lato, di evitare le analisi e le scelte politiche autocentrate sull’identità: sia rispetto all’identità di Donna unica, nella quale si rendono invisibili le distinte oppressioni (classe, razza, sessualità…); sia rispetto a un ventaglio di identità plurali scollegate dalle condizioni materiali che le fanno emergere (e convergere!). Dall’altro lato, il secondo errore simmetrico è la visione ristretta ed omogenea della classe, così come della strategia da adottare. Una visione in cui la questione della sfera riproduttiva è stata sistematicamente rinviata a qualcosa da risolvere dopo il gran giorno della rivoluzione, come se questo giorno arrivasse di colpo e potesse risolvere tutto. Ancor più nel momento in cui auto-organizzare il lavoro riproduttivo diventa condizione necessaria per sostenere in forma duratura una sfida al capitalismo.

Nonostante la radicalità del femminismo, nell’immaginario comune ha guadagnato spazio l’illusione di un ritorno all’età d’oro del ”benessere”. Un “benessere” che non è stato tale per la maggioranza delle donne ma continua ad avere la funzione di un orizzonte desiderabile. La crisi sta lasciando vuoti sempre più grandi nella sfera della riproduzione, che in passato aveva preso in carico lo Stato (educazione, sanità, servizi sociali…). Le ricette neoliberiste per risolvere questi vuoti? Mercificazione e ritorno al focolare. Ci troviamo in un momento di scontro tra delle aspettative destinate non realizzarsi in questa fase del capitalismo e un cambio di ciclo per il quale non ci sono strategie socio-economiche sufficientemente mature.

In questo scontro possiamo riprendere il ragionamento che Nancy Fraser ha cominciato ad elaborare recentemente. Fraser spiega in che modo nella chiusura della seconda ondata del femminismo si siano combinati il neoliberismo individualista e le pressioni affinché il femminismo assumesse rivendicazioni strettamente legate al riconoscimento individuale. Una sorta di possibilismo che relegava in secondo piano le rivendicazioni di ridistribuzione e la critica alla totalità del sistema capitalista. Il riconoscimento a cui si è arrivati è quello delle donne che possono realizzare un’ascensione sociale. Quelle che possono raggiungere l’“empowerment femminile” e rientrare nel successo neoliberista.

Di fatto, il femminismo non è necessariamente anticapitalista. Tuttavia, oggi ci troviamo in una fase di apertura di un ciclo: come possiamo approfittarne, evitando un’uscita individualista che avvantaggi solo poche? Come riprendiamo la dialettica tra riconoscimento e ridistribuzione? Come ricostruiamo un programma anticapitalista e una strategia di autorganizzazione femminista? Per fortuna, abbiamo qualcosa da cui partire: le contraddizioni intrinseche di quel femminismo individualista e liberale. Contraddizioni di fondo tra la difesa dei diritti delle donne, la lotta contro le oppressioni che subiamo, e il non porsi un orizzonte che superi il sistema che produce suddette oppressioni.

Molte delle rivendicazioni classiche del femminismo rimangono valide. Tuttavia, molte di queste devono passare attraverso il setaccio delle esperienze passate: la partecipazione al mondo del lavoro non ha portato all’indipendenza economica che era stata promessa, e neppure a liberarsi del Servizio Familiare Obbligatorio (ndt espressione analoga a Servizio Militare Obbligatorio, utilizzata dalle femministe basche per indicare l’obbligo di fatto per le donne di svolgere il lavoro di cura nella famiglia) per molte delle donne. I ruoli di genere sono stati riprodotti sul lavoro, la breccia salariale continua ad essere un dato strutturale e la questione della conciliazione ha riguardato solo le donne ed è servita a rendere più economica la manodopera femminile. La riorganizzazione del lavoro-impiego continua ad essere uno dei debiti in sospeso. Un debito in sospeso dopo decadi di neoliberismo.

La messa al centro del dibattito del lavoro di cura collettivo davanti agli interessi dei privati in un ciclo di accumulazione per spossessamento è un elemento chiave. La cura collettiva – aldilà di essere una questione affettiva – significa anche assicurare tutto ciò che rende possibile la vita: il cibo, l’energia, la casa, la salute. Se inoltre difendiamo una “vita degna” – secondo l’espressione delle ecofemministe - il ventaglio si amplia. In questo modo, gli interessi ”delle donne” non sono solo interessi “nostri”, ma diventano gli interessi fondamentali della maggioranza sociale, aprendo uno spazio in cui tessere alleanze con altri settori spossessati dal capitalismo.

*Fonte articolo: https://poderpopular.info/2018/03/22/feminismo-para-acabar-con-el-capita...
Traduzione a cura di Marta Autore