La condanna dell'Onda

Thu, 14/01/2016 - 21:26
di
Daniele D'Ambra

Sedici condanne da due a ventuno mesi, per un totale di quasi dodici anni di carcere. Con questo esito si è concluso il primo grado di giudizio nel processo per i fatti del 24 novembre 2010, quando decine di migliaia di studenti scesero in piazza in tutta Italia e a Roma arrivarono fin sotto il Senato per contestare la riforma Gelmini e il governo Berlusconi. Quello stesso governo meno di un mese dopo si sarebbe reso protagonista della compravendita di parlamentari per ottenere la fiducia, scatenando la rivolta di piazza del popolo del 14 dicembre. Eppure oggi non siamo qui a commentare le eventuali condanne per quello scandaloso passaggio istituzionale - anzi i pm ne hanno chiesto l’archiviazione dei procedimenti – quanto piuttosto la criminalizzazione del movimento che a quel mercimonio si è opposto, attraverso un rovesciamento simbolico che a quanto pare è costume diffuso nel nostro paese quando si parla di movimenti sociali (si pensi anche solo a Genova 2001 o ai procedimenti contro i No Tav). Un movimento, quello dell’Onda, che dal 2008 e in particolare in quei mesi aveva raccolto un consenso amplissimo, prendendosi carico di speranze e compiti ben al di là della semplice contestazione studentesca e ben espressi da uno dei suoi slogan più celebri: noi la crisi non la paghiamo. Quel “Noi” non riguardava gli studenti. A dirla tutta non riguardava nemmeno i soli giovani. Quel “Noi” parlava a tutti quei soggetti che negli anni successivi si sono visti progressivamente privati di diritti e possibilità, di autonomia economica e di scelta, più in generale di un futuro. Così come l’Iirrappresentabilità di quel pronome già parlava dell’incapacità della politica istituzionale di entrare in relazione e offrire risposte per a quel vasto e molteplice campo sociale deluso dalle mancate promesse di benessere e a cui si presentava un conto salatissimo senza nemmeno essersi seduti a tavola.

Chi scrive non è affatto avulso da quella storia e da quei fatti e dunque la coniugazione del discorso non può che esserne conseguente.
Avevamo ragione noi. Avevamo ragione nel denunciare quel che il mondo della formazione sarebbe diventato a seguito del processo di Bologna: lo smantellamento della formazione pubblica, messa progressivamente a disposizione delle imprese private; la frammentazione del sapere iperqualificato che avrebbe reso i futuri lavoratori altamente ricattabili; ritmi volti ad abituare gli studenti alla totale sottomissione nei confronti della controparte. L’Università come fabbrica di precari ce l’abbiamo davanti agli occhi nella sua forma più compiuta.
Avevamo ragione nel denunciare quel che sarebbe diventato il mondo del lavoro: messo fuori uso l’articolo 18, cancellati i diritti legge dopo legge, oggi il lavoro è al limite del privilegio, molto spesso svolto in forma gratuita attraverso la formula capziosa degli stages e dei tirocini, quasi ci facessero un favore a farci lavorare e a trarne profitto.
Avevamo ragione nel denunciare come la politica istituzionale non potesse restituire alcuna soluzione,essendo pienamente omogenea agli interessi dei potentati economici e disposta a difendere unicamente i propri interessi di casta. Avevamo ragione noi.

Per questo la condanna penale appena emessa nei confronti degli studenti di allora va letta non come una tantum, ma come un dispositivo giuridico parte di un’articolazione più complessiva, di una condanna più generale. Il segnale è chiaro: siete condannati alla precarietà a tempo indeterminato, transfughi perenni (oltre 90mila gli under 40 fuggiti all’estero nel solo 2014), qualificati quanto ricattabili e costretti a vivere in un eterno presente alla mercé delle necessità del mercato capitalistico. Perché i profitti valgono più delle vostre vite, accettatelo. Non c’è possibilità di rifiuto, l’unica facoltà che avete è l’adattamento costante. La condanna sul piano prettamente giuridico di chi in quegli anni ha provato a resistere non può che essere una diretta conseguenza del discorso.
Proprio per questo chi ha vissuto quei giorni nelle strade, chi è stato parte delle ondate che hanno provato a sfondare gli argini dell’austerità nascente, non può rimanere oggi in silenzio. Non possiamo accettare che passi la condanna dell’Onda, meno che mai che passi attraverso le aule dei tribunali. Non è semplice solidarietà, perché ad essere condannati siamo stati tutti noi. Avevamo ragione e l’abbiamo ancora oggi. E proprio per questo dobbiamo prendere posizione e opporci alla condanna dell’Onda, quella penale così come quella più complessiva, con ogni mezzo necessario. Non avevamo paura allora quando ci veniva detto che le ambulanze avrebbero coperto il suono delle auto di polizia, non possiamo certo averne adesso. È vero, hanno riformato il mercato del lavoro a loro immagine e somiglianza e, sì, hanno trasformato l’università in modo tale che di quell’Onda è rimasto poco più che il segno sul bagnasciuga. Ma forse si sono scordati di una cosa, la più importante, nonostante avessimo avuto cura di ribadirla migliaia di volte: la gente come noi non molla mai, statene certi.

Rileggi la cronaca di quella giornata: http://ateneinrivolta.org/rivolta/24-novembre-assediamo-montecitorio-con...

Gurada le foto di quel 24 novembre: https://www.flickr.com/photos/ateneinrivolta/sets/72157625458627614