Il rapporto dell’IPCC sul clima: “È troppo tardi per essere pessimisti”

Wed, 07/11/2018 - 15:43
di
Daniel Tanuro*

Non sorprende che il rapporto speciale dell’IPCC (ndt. Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC) sul riscaldamento climatico fino al raggiungimento di 1,5°C confermi che gli impatti del cambiamento climatico antropogenico sono spaventosi e sono stati sottovalutati, sia sul piano sociale che su quello ambientale.

Il riscaldamento di 1°C che stiamo subendo è già sufficiente a causare canicole, siccità, inondazioni, cicloni sempre più violenti… Questi drammi danno la misura di ciò che ci attende se il riscaldamento climatico non viene fermato al più presto. La catastrofe non è più evitabile, ma resta possibile ed indispensabile limitarla al massimo.

Fare di tutto per non superare l’1,5°C

Il rapporto non lascia alcun dubbio: il riscaldamento fino a 2°C sarà molto più grave di ciò che immaginavamo finora. Un riscaldamento inferiore ad 1.5°C, come deciso dall’accordo di Parigi (sotto la pressione di piccoli stati insulari, dei paesi meno avanzati, degli scienziati e del movimento per il clima), limiterebbe enormemente i danni. Quindi bisogna provare a fare di tutto affinché il limite di 1,5°C sia rispettato.

Il rapporto dell’IPCC stima che ciò sarà estremamente difficile, se non impossibile, anche se si ricorresse massicciamente a delle “tecnologie ad emissione negativa” e alla geoingegneria. Il rapporto evoca dunque un “superamento temporaneo” dell’obiettivo di Parigi, seguito da un raffreddamento nella seconda metà del secolo, grazie all'impiego di tali tecnologie.

Questo scenario è estremamente pericoloso. In primo luogo, le tecnologie contemplate sono ipotetiche e i loro effetti sconosciuti, potrebbero essere molto negativi. In secondo luogo, la situazione è talmente grave che un superamento temporaneo potrebbe essere sufficiente a causare spostamenti su larga scala che il raffreddamento ulteriore (ammesso che sia possibile!) sarebbe impotente nel cancellare. La più grande minaccia di questo tipo è senza dubbio lo scioglimento dei giganteschi ghiacciai Thwaites e Totten, nell’Antartico: la mole in essi contenuta è sufficiente a far alzare il livello dei mari di quattro metri circa.

Ogni tonnellata di CO2 conta

“Ogni tonnellata di CO2 non emessa conta” dicono gli scienziati. Conta ogni tonnellata, in effetti. Salvare il clima impone di fermare al più presto e completamente l’uso dei combustibili fossili. Ma allora, perché gli esperti non considerano le emissioni dovute alla produzione e al consumo di cose dannose come le armi?

L’industria militare statunitense invia tutti gli anni nell’atmosfera circa 80 milioni di tonnellate di CO2. E bisogna aggiungere i 70 milioni di tonnellate emesse dal Dipartimento della Difesa USA, senza contare le emissioni di centinaia di basi all’estero… così come quelle dei paesi rivali o alleati. Gli esperti non dicono una parola… Il militarismo è una follia che l’umanità può meno che mai permettersi di fronte al cambiamento climatico!

Alle produzioni dannose conviene aggiungere anche le produzioni inutili: pensiamo all’obsolescenza programmata, agli innumerevoli gadget usa e getta e alle migliaia di chilometri che i prodotti o le loro parti di ricambio passano per ottimizzare i profitti delle multinazionali!

In più, abbiamo già sotto mano una maniera efficacie e assolutamente priva di rischio per iniziare subito a ritirare la CO2 dall’atmosfera: l’agroecologia. Un’agricoltura contadina incentrata sulla sovranità alimentare ha il potenziale di bloccare delle grandi quantità di carbonio nel suolo, garantendo al contempo un’alimentazione sana e di qualità. Questa è l’unica “tecnologia di emissione negativa” che sia accettabile, e persino desiderabile!

La scienza distorta dalla logica del profitto

Poiché “ogni tonnellata di carbonio conta”, bisogna prioritariamente dare la caccia alle produzioni inutili, bandire le produzioni nocive e rompere con l’agrobusiness che distrugge la biodiversità ed inquina i nostri organismi. Eppure, sui due primi punti, l’IPCC non dice nulla. Questo silenzio non è un caso: deriva dalle prospettive dell’evoluzione della società che servono come base alle proiezioni climatiche. Il quinto rapporto lo diceva nero su bianco: “I modelli climatici suppongono dei mercati che funzionano pienamente e un comportamento concorrenziale del mercato”. In questo quadro neoliberale, tutti gli ostacoli alla libertà del capitale sono proibiti.

L’esperienza dell’IPCC è innegabile ed infinitamente preziosa quando si tratta di valutare il fenomeno fisico dei cambiamenti climatici. Contrariamente, le sue strategie di stabilizzazione sono distorte, perché la ricerca è ovunque e sempre più sottomessa agli imperativi capitalisti della crescita e del profitto. Lo scenario di un superamento temporaneo di 1,5°C con il mantenimento del nucleare e lo sviluppo delle tecnologie ad emissione negativa, o persino esperimenti di geoingegneria degni degli apprendisti stregoni, è dettato principalmente da questi imperativi.

Il rapporto dell’IPCC sul 1,5°C servirà come base ai negoziati della COP24 che si terrà alla fine dell’anno. Essi dovrebbero colmare il divario tra l’1,5°C massimo deciso a Parigi e dai 2,7°C ai 3,7°C previsti, sulla base degli impegni attuali presi dai governi. I capitalisti e i loro rappresentanti politici hanno il piede sul freno: non mettono in questione l’abbandono delle loro enormi riserve di carbone, di petrolio, di gas naturale; non è in questione la rottura con il neoliberalismo, non è in questione lo sviluppo del settore pubblico e la socializzazione del settore energetico per pianificare una transizione più rapida possibile verso un sistema di energie 100% rinnovabili, in piena giustizia sociale e climatica. Al contrario: esiste il forte rischio che le ipotetiche tecnologie ad emissione negativa servano a pretesto per indebolire ancora gli obiettivi di riduzione delle emissioni…

Opponiamoci a tutto questo!

“Ogni tonnellata di CO2 non emessa conta”. Ma chi tiene il conto, sulla base di quali priorità sociali, al servizio di quali bisogni, determinati da chi e come? È ormai un quarto di secolo che i conti sono fatti dai governi al servizio dei padroni, a discapito della vera democrazia. Il risultato è noto: più inuguaglianze, più oppressioni e più sfruttamento, più devastazione ambientale, più appropriazione delle risorse da parte dei ricchi, più vittime della fame… e una minaccia climatica più grande che mai. È ormai tempo di cambiare le regole del gioco.

Una potente mobilitazione mondiale dei movimenti ambientalisti, sindacali, contadini, femministi e indigeni è necessaria e urgente. Non è più sufficiente indignarsi e fare pressione su chi decide. Bisogna insorgere, costruire convergenze tra le lotte, scendere nelle strade a milioni e decine di milioni, bloccare gli investimenti fossili, l’accaparramento dei terreni e il militarismo. Una grande manifestazione avrà d’altronde luogo a Bruxelles il 2 dicembre, e degli attivisti hanno fatto appello a uno sciopero per il clima.

I governi neoliberali sono incapaci di controllare e limitare la follia produttivista. Bisogna dunque che noi stessi prendiamo in mano questo compito, dalla base. Organizziamoci sindacalmente sui luoghi di lavoro per controllare e denunciare lo sperpero capitalista, diventiamo dei “consumatori” impegnati nel sostegno ai/alle contadini/e, gettiamo le basi per costruire della pratiche sociali alternative che escano dal quadro capitalista…

La questione climatica è una questione sociale enorme. Gli/le sfruttati/e e gli/le oppressi/e sono gli/le unici/che in grado di dare delle risposte conformi ai propri interessi. Nessuno lo farà al posto loro. È troppo tardi per essere pessimisti. Come ha detto un personaggio di un celebre film: “L’unica cosa che possiamo ancora decidere è che cosa vogliamo fare del tempo che ci rimane”.
Ecosocialismo o barbarie: questa è la scelta che si delinea sempre più chiaramente. Il nostro pianeta, le nostre vite, la vita, valgono più dei loro profitti!

*Fonte articolo: https://www.gaucheanticapitaliste.org/rapport-du-giec-sur-le-climat-il-e...
Traduzione a cura di Federica Maiucci.