Perché parlare di Precarietà e di Lotta alla precarietà nella Giornata d’Azione Globale contro il Razzismo? Qual è il nesso tra il mondo del lavoro e le discriminazioni sociali? E siamo sicuri che ciò riguardi solo i migranti? E se riguardasse tutti e tutte, quale sarebbe la lotta possibile? Queste le domande poste nell’evento organizzato il 18 dicembre a Campi Salentina (LE), dal titolo CONTAMINAZIONI. Di lotte e d’armonie, a cura dell’Associazione di Promozione Sociale METICCIA con la partecipazione di Associazione Solidaria, LUA, Casa delle Donne, Diritti a Sud, Progetto LA MANTA.
Più che di un evento si è trattato di un esperimento: mettere insieme entità e contesti locali differenti per natura e forme di azione sociale e politica, generando confronto e probabili contaminazioni.
Le esperienze messe in campo, le osservazioni della e delle realtà nei mesi e negli anni precedenti, i rapporti dell’associazione Meticcia con il territorio e con altre entità associative e collettive e gruppali hanno funto da motore per nuovi interrogativi, a partire dal senso delle parole. In quest’ottica, la connotazione di razzismo può essere ridisegnata come generale forma di separazione e di discriminazione sociale e, quindi, umana, andando al di là delle provenienze territoriali e culturali. Razzismo è ogni azione – agita e/o pensata - che divide, ingloba, ingabbia le persone in rappresentazioni spregiative, marginali, monolitiche. Razzismo è condizione di principio e di causa di fenomeni precarizzanti, poiché la precarietà è dimensione diffusa e trasversale a più dimensioni sociali, economiche ed esistenziali; è cornice determinante una multiforme privazione rispetto all’accesso ai beni, al lavoro, al benessere, al diritto.
Quale lotta è allora possibile in contrasto ad una situazione così monopolizzante e rigida? L’idea di resistenza non è immutabile: essa vale solo se attiva coinvolgimenti di massa o anche se riguarda ambiti più circoscritti? Riteniamo che il termine assuma senso dentro a dati scenari di pensiero e di azione, ossia dentro a determinati contesti, e pertanto si diversifica. Oggi, però, la varietà degli esempi a disposizione, seppur virtuosa, appare poco risolutiva e replicabile e spesso rende gli sforzi frammentari e limitati dentro connotazioni puramente locali. Secondo l’Associazione Meticcia, guardare alle forme di lotta più diverse e fare in modo che chi è implicato ne parli in una sorta di specchiamento può essere generativo di forme terze di contaminazione, per cui con quest’ultimo termine si intende l’ Azione del Contaminare, del mettere in contatto realtà, idee, persone. Contaminare diventa così scambiare nella sua essenza di principio e di fondamento dell’essere in relazione. Contaminare è reagire, variare dalla norma saturante, stringente, soggiogante, asfissiante di un liberismo che fagocita ogni forma del vivere e del sentire umano. Contaminare può essere allora incrociare gli intenti, i progetti, i tempi passato-presente-futuro, la radice e la foglia, la base e lo slancio, le categorie sociali e giuridiche, i generi, i saperi e l’arte.
In questo senso, riflettere sulle azioni sociali e politiche dei territori vuol dire ripensare il senso della lotta nella sua portata e nella possibilità ch’essa sia replicabile. Difatti, se ogni azione si sostanzia e si conforma ad un contesto, è plausibile che essa possa essere adattata in situazioni similari. Ciò che rende possibile questo passaggio è forse la traduzione del fare in pensare, la trasformazione dell’esperienza pratica in teoria.
Scambiarsi il racconto delle esperienze è un tentativo per osservare le pratiche in una dimensione astratta, dunque generalizzabile a tal punto da poter rappresentare una matrice convertibile nei contesti ove i fattori specifici rendono possibile l’azione. Ogni azione, per dirsi sociale, necessita di una collettività e, contemporaneamente, verso essa tende. Gli esempi di lotta e di r-esistenza attuali, seppur virtuosi, mantengono oggi una dimensione minuta e la sfida sta probabilmente nel connettere le lotte, i territori, gli esperimenti, anche qualora esse siano molto diversificate nella natura delle organizzazioni che le conducono.
Ci sono lotte condotte all’interno di processi di negoziazione che passano per le istituzioni e che propongono visioni alternative attraverso la partecipazione a gare e bandi su fondi pubblici e, viceversa, ci sono lotte che interagiscono con le istituzioni attraverso forme conflittuali e partecipazioni dal basso svincolate dalla logica del denaro statale. Il comune principio di fondo è intervenire su ciò che c’è immettendo istanze nuove e propositive rispetto alle carenze e alle mancanze sociopolitiche. Chiaramente, prendiamo in considerazione solo quelle realtà che agiscono con modalità trasparenti e virtuose ma che ugualmente appaiono poste in opposizione.
Separare le lotte ad identità conflittuale da quelle che investono su un approccio negoziale può però probabilmente confermare e determinare condizioni di frammentazione e di divisione che alimentano la debolezza delle comunità e la loro incapacità di essere voce autorevole.
D’altronde, lotta “extraistituzionale” e lotta “negoziale” – estremizzando le definizioni – hanno possibilità di incontrarsi se consideriamo che, nel conflitto quanto nella concertazione, le parti implicate si riconoscono sempre e comunque reciprocamente nella loro natura e nella loro responsabilità, per concordanza o per opposizione.
Lotta extraistituzionale non è dunque disconoscimento dello Stato: è proprio il suo contrario.
Questo punto, spesso frainteso inconsapevolmente e spesso strumentalizzato consapevolmente, rappresenta difatti la zona franca ove può essere possibile una terza forma d’approccio sociopolitico al diritto. Qui la zona franca non è luogo liquido in cui snaturare gli approcci considerati: è il luogo della reazione allo specchiamento, è il discutere e il dissentire per esistere e vedersi attraverso le reciproche differenze e, appunto, per sentire e significare la realtà in una dimensione di varietà soprattutto umana.
Da un lato, appare vitale collegare e contaminare, dall’altro rispettare la multiformità dei comportamenti tendenti ai comuni intenti.
In questa prospettiva, il progetto di microcredito portato avanti dalla Casa delle Donne di Lecce, in seno al bando di Rigenerazione Urbana (coordinato dal LUA – Laboratori Urbani Aperti), può rappresentare un esempio di lotta, poiché utilizza dei fondi per promuovere e costruire percorsi di emancipazione lavorativa e di autonomia multidimensionale al femminile: un bando non risolve una carenza ma può avviare un processo che, in alcuni casi, può strutturarsi senza dipendenze statali.
D’altronde, il LUA – che ha coordinato e condotto un programma di Rigenerazione Urbana nel quartiere Leuca di Lecce – fonda la sua esperienza sull’idea che farsi da ponte tra istituzioni e cittadini può favorire la comunicazione e il senso politico delle parti, incoraggiando processi di responsabilizzazione e di azione sociale e destrutturando la visione assistenziale che spesso l’esistenza del fondo pubblico veicola.
La Rigenerazione Urbana, in questo contesto, non è dunque un univoco adeguamento di luoghi fisici, ma una risignificazione degli spazi: essa fa dinamicamente i conti con il senso dell’Abitare, diventa un Farsi e Portarsi Umano in una struttura o in un ruolo o in un’attività. In tale direzione, si tratta di Rigenerazione Sociale poiché discute e muove il senso di cittadinanza e di attorato nella dimensione individuale e collettiva dello stare in un luogo.
Nella stessa direzione, con forme e sostanze diverse, va il progetto La Manta (ex Fadda di san Vito dei Normanni) che utilizza la costruzione di manufatti come fine e come espediente per un fare insieme generativo, in cui la sfida è nel processo stesso che connette la competenza lavorativa alla dimensione gruppale e alla ripercussione psicologica sul singolo.
La riappropriazione e la risignificazione di spazi e l’implementazione di attività sono anche una forma d’azione di Diritti a Sud e di Solidaria che, seppur da contesti locali diversi, sono congiunte (tra loro e con altre realtà) nell’esperienza di produrre prodotti che abbiano però valore politico più che di materia in sé. La salsa Sfruttazero è solo un esempio di questa interazione che ha l’intenzione di dimostrare come sia possibile la lotta alla costrittiva forma economica liberista, motore di precarietà, di frammentazione sociale, di privazione di diritti per molteplici fasce d’umanità. Anche in questo caso, intorno all’espediente della salsa ruota un complesso processo di costruzione di una collettività che interagisce e reagisce a sfruttamenti e a sottomissioni latenti o manifeste su più dimensioni, partendo da zero, unendo forze, inventando dispositivi centrati sul mutuo soccorso, sulla condivisione, sulla ridefinizione politica delle pratiche sociali.
Come queste differenze qui accennate si combinano o possono combinarsi? Da quanto emerso, proprio mediante lo slancio reciproco alla curiosità degli uni verso gli altri e viceversa e, ancora, mediante la proposta corale di rivedersi, di parlarsi ancora, di sfidarsi e di sfidare le pressioni del tempo-spazio vissuto.