Rebus crescita

Mon, 23/06/2014 - 10:16
di
Marco Bertorello (da il manifesto)

Il Fmi sostiene che le recenti decisioni della Bce non sono sufficienti, che è necessario fare come negli Usa, stampar moneta attraverso il quantitative easing. Il tema è controverso. Le politiche monetarie espansive sono state paragonate a un farmaco, di cui in effetti non si comprende se riesce a guarire il paziente oppure se lenisce soltanto il male. La terza ipotesi è che posticipi il peggiorare della malattia. Il ricercatore della banca Hsbc Stephen D. King, in un suo recente libro, ha sostenuto che «l'uso eccessivo di analgesici economici può dare dipendenza». Per il momento si può registrare con una certa sicurezza che non guarisce completamente. I risultati ovunque sono modesti rispetto alle attese. In Europa il pericolo principale ora è la deflazione, il calo dei prezzi produce un aumento relativo del valore dei debiti sia pubblici sia privati. Un altro rischio si chiama trappola della liquidità, cioè quando il costo del denaro pur scendendo al limite di non avere un costo, non produce alcun effetto positivo per il ciclo.
Un vecchio adagio d'impronta keynesiana diceva che è sempre possibile condurre un cavallo all'abbeveratoio, ma non lo si può costringere a bere. La deflazione può far rimandare oltremodo investimenti e consumi in attesa di ulteriori ribassi dei prezzi dentro un processo senza fine. Ma tali fattori possono non esserci anche per mancanza di fiducia nel futuro o per un peggioramento considerevole delle condizioni socio-economiche degli attori, in special modo imprese dipendenti dal mercato interno e cittadini. La deflazione sarebbe così una sorta di sottoprodotto della stagnazione. I segnali che sia questo il caso non mancano. In effetti, in genere, il quantitative easing concentra la sua efficacia favorendo il finanziamento a quei settori di grandi imprese che hanno capacità di rastrellare capitali diversamente dalle Pmi, le quali non hanno accesso al mercato dei capitali e dipendono dal sistema bancario tradizionale. Qualche giorno fa Gros-Pietro, di Banca Intesa, ha dichiarato che la domanda di credito in Italia «è scarsa» e soprattutto latita la domanda di «credito buono». In effetti le banche da tempo sono inondate di liquidità a buon mercato, ma faticano a trovare sbocchi relativamente sicuri. Una sorta di barometro della domanda di credito da parte delle imprese (Crif) evidenzia come l'andamento sia in parziale ripresa nel primo trimestre 2014 rispetto allo scorso anno di oltre il 15%, ma la stessa Banca d'Italia certifica che il calo della fornitura di credito sta solo rallentando pur rimanendo negativo per il 3.1%, mentre non si ferma la contrazione per le imprese non finanziarie che su base annua sale al 4.4%.
Il tessuto produttivo resta debole, gli investimenti dal 2006 si sono ridotti di circa il 30%, con una drastica riduzione degli investimenti esteri dall'inizio della crisi pari al 58%. Il diffuso nanismo industriale, che fa investimenti per addetto inferiori di circa 2/3 rispetto alla grande impresa, è uno dei principali fattori di debolezza. Confindustria sostiene che dal 2001 sono state chiuse 120 mila fabbriche e si sono persi 1 milione e 160 mila occupati nella sola industria, retrocedendo all'ottavo posto nella classifica mondiale, dopo il Brasile. Queste sono le cifre che rendono plausibile l'assenza di una domanda di credito buono. Ma allora i problemi risiedono nell'economia reale e c'è chi dubita sull'efficacia di ulteriori politiche monetarie espansive, in particolare per paesi come l'Italia. I titoli di Stato sono ai minimi storici, il debito sovrano continua a crescere, ma il credito non aumenta verso un'economia tradizionale ipertrofica. L'impressione è che si prenda solo tempo. Ci sarebbe bisogno invece di un piano pubblico di investimenti e di produzioni necessarie, ma significherebbe cambiare modello economico e trasformare al contempo i connotati della sfera pubblica. Tutta un'altra storia.