Mps: soldi pubblici, profitti privati

Tue, 27/12/2016 - 11:32
di
Marco Bertorello

Intorno alla vicenda del salvataggio delle banche italiane, e in particolare di Monte dei Paschi di Siena, ruotano una serie di questioni piuttosto importanti e indicative di come funzionino finanza, economia, politica e istituzioni.

Partiamo dalle ultime due. Innanzitutto va registrato che quando si vuole non solo si formano velocemente i governi, ma si approvano altrettanto velocemente dei provvedimenti legislativi, persino dal costo significativo. La fretta nella formazione del nuovo governo Gentiloni è stata giustificata immediatamente con le urgenze sul piano economico: crisi di Monte dei Paschi a cui poi si è aggiunta la scalata a Mediaset. Insomma è emersa la necessità di far scendere in campo, come nel football americano, una squadra di difesa, pronta a tutelare gli interessi tricolori. A tal proposito tutte le chiacchiere di questi ultimi mesi di campagna referendaria sull'ingessatura delle istituzioni e sul bisogno di modernizzazione per rispondere agli imput della contemporaneità si sono appunto rivelate tali. In un lampo si eleggono governi che approvano provvedimenti da 20 miliardi. Il provvedimento salva-banche, inoltre, viene approvato in contrasto alle norme europee sugli aiuti di Stato.

Qui è necessario aprire una parentesi. Da circa un anno in Italia viene sottolineato come in particolare la Germania dopo l'esplosione della crisi sia corsa in soccorso del proprio sistema bancario. Vero. Ma andrebbe aggiunto che all'epoca le regole continentali lo consentivano. Dopo miliardi spesi per il salvataggio delle banche, miliardi che hanno fatto decollare i debiti pubblici di paesi come Irlanda, Spagna, e persino Germania, in sede europea si stabilisce la norma cosiddetta del bail-in. Secondo la quale per salvare le banche è necessario coinvolgere gli investitori delle stesse e solo in ultima istanza può essere coinvolto lo Stato. Insomma che il conto lo paghino per primi i clienti delle banche. Un dispositivo approvato dopo l'esplosione della crisi dei debiti sovrani e volto a contenere eccessi di spesa pubblica, ridurre il famigerato azzardo morale degli istituti di credito e in teoria tutelare i contribuenti. Un dispositivo approvato dopo che i buoi erano ormai usciti dalla stalla, tranne che per l'Italia. Ora il problema è che poco dopo la sua approvazione è scoppiato il caso delle banche italiane (Etruria e le altre). Da quel momento a partire dal presidente di Banca d'Italia, Vincenza Visco, si scopre che il bail-in va rivisto. Agli occhi dei rappresentanti politici e dei burocrati europei non proprio un modo serio di esporre le proprie posizioni e tutelare i propri interessi. Un po' come per l'approvazione del pareggio di bilancio, tutti lo sostengono e poi tutti lo criticano per non applicarlo (in Italia), come se quelle norme al momento della loro approvazione non dovessero avere effetti anche sul nostro paese. Ultimo elemento, la crisi delle nostre banche non è stata affrontata prontamente dal governo Renzi, non tanto per farne materia di pressione elettorale, quanto perché il confronto con l'Europa per trovare una soluzione il più indolore possibile risulta difficile. Si tratterebbe infatti di non applicare il bail-in e di intervenire con soldi pubblici, proprio ciò che è stato deciso di comune accordo di impedire. In questi giorni un compromesso sembrerebbe esser stato raggiunto con l'Europa, al prezzo di poca chiarezza e soprattutto basato su un intervento a termine dello Stato per salvare e rilanciare Mps senza diventarne proprietario a tutti gli effetti. I rischi si corrono con i soldi pubblici ma, se l'operazione riesce, a goderne saranno i privati. La logica è interna alla norma del bail-in, ma per evitarne gli eccessi. Si tratta di realizzare una ricapitalizzazione preventiva per evitare il fallimento formale mediante risorse pubbliche, dopo aver individuato in una banca (in questo caso in Mps) un potenziale destabilizzante sistemico. Come a dire che se la banca in crisi è troppo grande meglio non farla fallire. Insomma un espediente per prendere ulteriormente tempo attraverso denaro pubblico.

Il sostanziale fallimento della terza banca italiana, però, meriterebbe qualche riflessione anche sul versante dei problemi di ordine economico-finanziario. La ricapitalizzazione non è riuscita, il mercato non ha creduto nel progetto industriale di rigenerazione. Ma il fallimento significa che troppi sono i crediti deteriorati di Mps, frutto di una crisi dell'economia reale che ha picchiato forte in Italia. La finanza creativa da noi non ha attecchito, ma in compenso la chiusura delle aziende e l'impoverimento della società hanno mandato a gambe all'aria decine di miliardi di investimenti in credito. Nessuna degenerazione di stampo anglosassone, ma crisi materiale tanta. E così anche in Italia riemerge la stampella pubblica, nella solita logica minimalista in cui lo Stato investe ma non gestisce, dove non si ha il coraggio di affrontare la crisi del settore provando a impossessarsi di una banca in grado di ri-orientare, almeno in parte, il sistema. Una banca che dovrebbe tornare a investire in progetti socialmente utili, produttivamente credibili, e ambientalmente compatibili. Una sorta di nuova bussola nel mondo del credito. Una banca che come suggerisce persino il liberista Luigi Zingales dovrebbe rimborsare i clienti utilizzando criteri socialmente equi, tutelando i piccoli risparmiatori e penalizzando gli hedge fund. Il mercato fallisce, invece, e si decide di continuare a soccorrerlo, stando alle sue regole, senza provare a mettere in campo progetti innovativi capaci di forzare la mano alle dure leggi della crisi. D'altronde in Mps lo Stato non ha neppure il coraggio di cambiare il quadro dirigente che ha guidato l'antica banca finora, figuriamoci sperimentare percorsi di credito alternativi e partecipati.