Guerre vere e guerre immaginarie. Sull'uso del concetto di geopolitica

Tue, 17/05/2016 - 13:41
di
Marco Bertorello (da Micromega)*

Il Papa ha sostenuto ripetutamente che la terza guerra mondiale sarebbe iniziata. Su “Repubblica” ha affermato che «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli»[1] e successivamente sul “Corriere della sera” ha ribadito in maniera ancor più perentoria «Io ho parlato di terza guerra mondiale a pezzi. In realtà non è a pezzi: è proprio una guerra»[2]. Le affermazioni del Papa vengono interpretate come una provocazione, una metafora per denunciare un contesto fatto di crescenti conflitti militari, ma al contempo contribuiscono a confondere le idee su ciò che sta accadendo. Dico subito che questo modo di leggere le vicende del mondo contemporaneo non mi convince e proverò a spiegare perché.

Va registrato che le affermazioni del Papa hanno rafforzato, per certi versi si potrebbe dire sdoganato, un esteso sentire a sinistra che legge i conflitti militari in corso dentro un più generale contesto di guerra finendo, in alcuni casi, per dare la stura a un nuovo «campismo», cioè a una nuova divisione del mondo in blocchi politico-economici già militarmente in conflitto tra loro. Ovviamente questa visione viene sviluppata con modulazioni differenti, ma in tutti i casi è indice di una certa propensione a leggere gli attuali conflitti regionali dentro un processo più ampio e ben più drammatico.
Una versione sofisticata e problematizzata è proposta anche dalla rivista «Limes» che vi ha dedicato un numero intero dall'emblematico titolo «La terza guerra mondiale?»[3] e con il medesimo titolo ha organizzato un Festival, a Palazzo Ducale di Genova, che ha visto la partecipazione di 8.000 persone. Numeri che parlano dell'attenzione al tema. Sia chiaro, non discuto il permanere del ruolo della guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi e neppure la gravità del ruolo militare ed economico delle potenze occidentali in varie parti del mondo. E neppure nego che le guerre implichino la crescita degli affari per l'industria degli armamenti, in Italia la rivista dei Comboniani «Nigrizia» denuncia come l'esportazione di armi italiane sia triplicata dal 2014[4]. Rimango, dunque, pacifista e antimperialista.

Ciò che non mi convince è che saremmo in una fase della storia che va riproponendo un conflitto mondiale. Mi pare un fraintendimento non solo della fase, ma di come si va strutturando il nostro pianeta dal punto di vista socio-economico, un fraintendimento che impedisce di dare un ordine gerarchico ai problemi e alle prospettive per uscirne. Per quanto non pensi che le ragioni di ordine economico siano le uniche necessarie per scatenare una guerra, ora, non le vedo nemmeno all'orizzonte. Almeno per una guerra mondiale, cioè una guerra che finirebbe per coinvolgere le principali potenze planetarie in uno scontro che tecnicamente si annuncerebbe come finale.

Mai dire mai
Contestare l'idea che siamo in una nuova guerra mondiale non significa escluderla dalle possibilità storiche, non significa non ritenere che nell'esplosione delle due guerre precedenti vi siano stati fattori scatenanti irrazionali, fortuiti, imprevedibili fino a qualche anno prima. Magari sempre con alle spalle delle ragioni economiche, ma dal fattore umano interpretate, quando non manipolate. Basti pensare all'ascesa del nazismo in Germania: non che non vi fossero i dilemmi del primo dopoguerra, gli accordi di Versailles, i pesantissimi debiti di guerra con le potenze vincitrici, la disoccupazione, l'inflazione, ma poi intervenne il senso di potenza umiliata, il nazionalismo, lo scontro sociale, il razzismo, la logica del capro espiatorio, insomma il nazionalsocialismo. Una risposta irrazionale a problemi reali, una folle e lucida rincorsa a porre le basi del secondo e tragico conflitto mondiale. A posteriori niente di tutto ciò era razionalmente ed economicamente auspicabile per i tedeschi eppure si affermò una spinta verso l'autodistruzione. Persino la potente industria prussiana uscì con le ossa rotte dalle ceneri del secondo conflitto, ma dopo aver accarezzato la ritrovata potenza attraverso il riarmo negli anni Trenta. Le crisi, la crisi, possono quindi condurre a soluzioni barbariche, distruttive, allo stesso modo alcuni problemi strutturali del futuro prossimo del genere umano, dalla scarsità di acqua e terre, fino alla parabola demografica, passando per i cambiamenti climatici e la desertificazione di crescenti aree, potrebbero nuovamente scuotere alle fondamenta gli attuali assetti.

I flussi migratori sono l'esempio nel presente di come alcuni processi anche di ordine culturale e psicologico possano interporsi alla presunta “linearità” dell'economia. Non a caso sembra che il mancato governo di questi flussi sia annoverato tra le principali cause che potrebbero rendere insostenibile l'attuale Unione europea. Un corto circuito tra necessità di nuova manodopera a buon mercato, calo demografico, disoccupazione tecnologica, stagnazione, impoverimento dei residenti, paure profonde, esaurimento del consenso politico. Da qui il ripiegamento della politica che, tra i muri e il filo spinato, finisce per rendere più complessa anche la circolazione delle stesse merci, con impliciti costi economici. Va registrato che in questo caso, forse solo in questo, il panico popolare riesce a mandare segnali che una pallidissima autonomia della politica finisce per raccogliere, complicando la vita proprio alla capacità sovra-ordinatrice dell'economia. In tale vortice non può essere esclusa la recrudescenza dello scontro etnico, strumentalmente religioso. Ma anche in questo caso la guerra non è un passaggio scontato, vi può essere barbarie senza guerra. Si può affermare una guerra prevalentemente ai confini dei paesi ricchi, una guerra non convenzionale, condotta contro disperati che fuggono dagli effetti degli squilibri planetari.

È in corso poi una guerra, che alcuni vorrebbero di civiltà, che seppur mieta vittime che vanno ben oltre la polveriera mediorientale, proprio in quell'area continua ad avere il suo epicentro. Il maggior numero di vittime sono musulmani e l'intervento delle potenze occidentali, con il pretesto della difesa della pace a casa propria e dei presunti valori democratici, giunge per difendere i propri interessi, a partire da quelli energetici. Tale scontro di interessi, però, non sembra eccedere o sovra-ordinare gli assetti geo-politici dominanti.

Vecchie lenti per nuovi scenari

Fatte queste precisazioni, provo a spiegare perché leggere l'oggi dentro lo schema della guerra tendenzialmente mondiale mi pare fuorviante. Si sottolinea, con modulazioni diverse, il tema del ritorno della guerra da diverso tempo. Non nel senso di un coinvolgimento dell'Italia, o delle altre potenze mondiali, in vari scenari di guerra esistenti (Libia, Afganistan, ecc.), quanto di una prospettiva di guerra diffusa, globale. Da cui deriva facilmente l'individuazione di una contrapposizione per blocchi geopolitici[5]. In taluni casi siamo passati dall'infatuazione per la teoria dell'Impero di Antonio Negri e Michael Hardt, la quale in qualche misura marginalizzava il ruolo degli Stati-nazione, alla rimozione della globalizzazione, e dunque, al ritorno allo Stato-nazione. Nel giro di pochi decenni si sarebbe affermato prima un processo di internazionalizzazione spinta dell'economia e, dopo, il ritorno alla centratura su scala nazionale. Risulta evidente che entrambi i processi richiederebbero del tempo, in quanto sarebbero il frutto di trasformazioni profonde degli assetti economici e politici su larga scala. Gli Stati, invece, sembrerebbero essere tramontati e resuscitati quasi contestualmente. In questo momento, se devo essere tranciante, penso che la teoria dell'Impero si avvicini di più alla realtà di quanto non faccia quella che torna allo schema nato con la pace di Westfalia nel 1648. Non perché non siano stati presi degli abbagli con la categoria dell'Impero, come l'idea di un'unica testa politica a cui corrisponderebbe un'identica realtà economica, ma perché i processi di globalizzazione si sono affermati a tutte le latitudini del pianeta, lasciando dei segni profondi negli assetti di potere economico e politico.

La geo-politica, dunque, torna, ammesso che fosse mai sparita, ma con diversa e minore intensità. Lo Stato non scompare, anzi, aumenta il proprio ruolo di facilitatore dei processi economici, quello che scompare è la sua potenza autonoma. Tale processo svela la subalternità dello Stato, seppur non completa, alla sfera economica, e il suo progressivo ritiro da tutti quei campi che potevano in qualche modo alludere alle competenze sociali e di compromesso tra interessi divergenti. Oggi gli Stati sono al servizio della globalizzazione economica su più fronti, da quello legale a quello di promotore finanziario. L'economia a debito su cui si fondano gli assetti attuali non esisterebbe senza gli Stati, i loro debiti, i Fondi pensione da essi promossi e cosi via. Da qui quel senso diffuso di impotenza derivante dalla politica, intesa nel senso operativo tradizionale. Ciò non implica che non vi sia alcuna politica o nessuno spazio di autonomia e di eterogenesi dei fini per essa, come dimostra la strenua difesa dei propri privilegi di casta al prezzo anche di evidenti dis-economicità. Ma se si è affermata una trasformazione del profilo dello Stato in senso transnazionale potremmo dire, essa è il risultato di cambiamenti intervenuti nella sfera economica.

La versione più credibile della precipitazione verso un conflitto mondiale trova fondamento nel paragone con l'esplosione della prima guerra mondiale. Essa segnò l'interruzione del ciclo precedente sviluppatosi sotto le insegne di una globalizzazione affermatasi a partire dagli ultimi due decenni del XIX secolo. I livelli di interconnessione in quel tempo vengono descritti da alcuni storici come più densi degli attuali. Il connubio di economia-finanza-Stato nella nostra epoca, però, si è sviluppato in maniera differente dal passato. Semplificando si potrebbe affermare che la prima globalizzazione è avvenuta in maniera verticale, cioè con una decisa componente commerciale di scambi, che però poggiavano su base nazionale. Lo stesso colonialismo predatorio gravitava intorno a un asse nazionale delle potenze imperiali. Oggi, invece, la globalizzazione si è sviluppata in maniera molto più orizzontale, con finanza e produzioni che soppiantano i semplici scambi commerciali. Tale processo prende corpo mediante delocalizzazioni prima e un crescente impianto finanziario internazionalizzato poi che promuovono nuovi insediamenti e nuove interdipendenze. La globalizzazione contemporanea, dunque, diventa persino più difficile da misurare in quanto la de-territorializzazione del capitale e la dispersione produttiva non facilitano la focalizzazione di una matrice espressamente nazionale delle attività. Quante produzioni formalmente riconducibili a un'impresa occidentale in realtà nascondono una base materiale in paesi a basso costo della manodopera? Come districarsi nelle attuali statistiche?

Interdipendenze orizzontali e molteplici

Le multinazionali indubbiamente mantengono il vertice nel paese di origine, ma attraverso un elevato grado di terziarizzazione produttiva disperdono i loro assetti industriali in un modo che sembrerebbe irreversibile. Non è una scelta occasionale, è l'esito del loro profilo industriale. I processi di delocalizzazione non sono stati semplicemente un espediente per risparmiare sui costi, ma un modo per consentire la prosecuzione dei consumi nei paesi occidentali a fronte di decise operazioni di contenimento salariale. Un modo per continuare a spremere le riserve di ricchezza accumulate nei Trenta anni gloriosi del secondo dopoguerra da parte delle classi medie e operaie di quei paesi. Ma non era sufficiente. Per reggere la riduzione dei salari e mantenere elevati i consumi era necessario anche costruire una nuova impalcatura basata su debito. Da anni ormai gli Usa consumano più di quel che producono e gli emergenti producono più di quel che consumano, creando disequilibri che si riflettono sui bilanci pubblici e privati, ma allo stesso tempo rendendo più interdipendenti le finanze di tutti gli attori coinvolti. L'enorme debito pubblico accumulato dai principali paesi protagonisti della seconda guerra mondiale è stato riassorbito negli anni del boom, per poi esser sostituito progressivamente da quello privato negli ultimi decenni. L'economia si imballa e viene artificialmente mantenuta in vita attraverso la crescita del debito privato. Poi questo va in crisi e viene riassorbito da quello pubblico. Questo è ciò che è accaduto nei paesi più ricchi. Nei cosiddetti emergenti invece lo sviluppo è avvenuto attraverso grandi avanzi commerciali che anziché trasformarsi in ricchezza interna sono stati trasferiti in gran parte nella finanza internazionale e in acquisti di beni di altri paesi: titoli di Stato, pezzi interi di apparato industriale e infrastrutture[6].

Il principale detentore straniero di titoli di stato americani è proprio la Cina. Ma non solo. In questi anni di moneta facile si è costituita una marea monetaria alla ricerca di nuovi investimenti che si è riversata in tante attività degli emergenti, in particolare nell'industria. In Cina l'impresa ha raggiunto percentuali di indebitamento paragonabili a quelle di Usa e Giappone, con distorsioni e rischio bolle evidenti. Una misura del grado di interdipendenza raggiunto è quanto avvenuto con il rialzo dei tassi statunitensi. Da tempo ormai negli Usa si ragiona su come uscire dalla fase monetaria espansiva attraverso un rialzo dei tassi d'interesse. L'economia prospera a sufficienza per dare una stretta sulla moneta e prepararsi delle carte da giocare in caso di nuove crisi (il ribasso dei tassi che ora sono quasi a zero). A dicembre dello scorso anno la Fed ha deciso il primo modestissimo rialzo avviando una nuova fase, subito interrotta nei primi mesi del 2016. Il motivo è stato l'incertezza globale causata soprattutto dalle fibrillazioni dei paesi emergenti che hanno molti debiti, pubblici e privati, denominati nella divisa americana, i quali con un aumento consistente del dollaro aumenterebbero il proprio peso nei rispettivi bilanci. Insomma esistevano, seppur precarie, le condizioni interne per un aumento dei tassi, ma non quelle esterne, ragion per cui gli Stati Uniti hanno deciso di prendere ulteriormente tempo, pur di evitare nuove tensioni economiche a livello globale che sarebbero ricadute anche sul piano nazionale. Forse non è una coincidenza che quest'anno paesi come Cina e Corea del Sud siano intervenuti, diversamente dal passato, per contenere il deprezzamento delle proprie valute anziché approfittare dell'apprezzamento del dollaro.

Un ultimo esempio sul crescente grado di interdipendenza orizzontale proviene dal campo dei trasporti marittimi, fulcro dei processi di globalizzazione. Nello shipping è in corso un repentino processo di accentramento tra compagnie di navigazione di differenti paesi per reggere i livelli di concorrenza raggiunti. La principale alleanza è fatta da due compagnie, una danese-statunitense e l'altra svizzera (Maersk-Msc), a cui si contrapporrà un'altra partnership costituita da quattro compagnie, tre cinesi e una francese (Cosco, Evergreen, Oocl e Cma-Cgm). Questi rimescolamenti nel principale comparto a livello mondiale nei trasporti di merci ci dicono di come sia in corso una competizione esasperata per la sopravvivenza, ma su base transnazionale.

Multipolarismo metabolizzato

Questo scenario a elevata interdipendenza non implica un mondo pacificato e stabile da fine della storia. Come già detto, la globalizzazione è il frutto delle crescenti difficoltà dei meccanismi di mercato, oltre che della vittoria del capitalismo sul suo nemico storico, il comunismo, e dell'innovazione tecnica. Ma la supremazia dell'economia di mercato non ha implicato la conferma del primato del suo principale depositario, gli Stati Uniti. La stessa crisi ha messo in evidenza come non esista più una locomotiva a livello globale. Per cui da un lato il primato degli Usa è relativo e conteso a stretto giro dalla Cina, dall'altro esistono realtà come l'Europa a guida tedesca (che mantiene ancora un ruolo di rilievo) e come Giappone, Russia, India, che in vario modo hanno aumentato il loro peso specifico dentro un contesto multipolare.

Lo schema del vecchio capitalismo con una sola nazione egemone (prima l'Inghilterra e poi gli Usa) non regge più, e di conseguenza non regge neppure il ritmo di sviluppo a tappe secondo cui una nazione egemone viene sostituita da un'altra. Lo stesso ipotizzato sorpasso della Cina ai danni degli Usa sarebbe puramente simbolico, ma nella sostanza confermerebbe soltanto la convivenza che si sta imponendo nel XXI secolo di diversi paesi-leader. Da questo punto di vista il multipolarismo sembra in via di metabolizzazione per le classi dirigenti a livello globale. Non c'è una nuova potenza da cui dipendono le sorti dell'intero pianeta. La strenua difesa delle prerogative statunitensi da parte delle sue classi dirigenti non va interpretata come una volontà di dominio e di prevalenza a ogni costo nei confronti della Cina. Non ci sono indicazioni che lascerebbero credere vi sia una disponibilità americana a drammatizzare lo scontro con la Cina. Non si ipotizza una guerra preventiva (una guerra dal potenziale distruttivo finale) solo perché si rischia di essere sorpassati. Non è una gara sportiva. Inoltre esistono tali variabili imprevedibili, per ora, sul destino della Cina (come il calo demografico o la tenuta politica e statuale) che non giustificherebbero una guerra che più che di contenimento risulterebbe di annientamento reciproco o quasi.

Gli stessi dati sulle spese militari suggeriscono moderazione sulla tesi della guerra totale. Gli Usa riducono le loro forze armate: l'Esercito passa da 490 mila soldati nel 2012 a 420 mila; la Marina da 325 a 270 navi e da 12 a 10 portaerei; l'Areonautica da 1.280 a 1.100 caccia; i Marines da 189 mila a 175 mila. Il bilancio Usa complessivamente dal 2010 a oggi è sceso da 625 miliardi di dollari a 595[7]. Se la spesa globalmente aumenta è a causa dei paesi che sono direttamente coinvolti nei conflitti, come Ucraina, Russia, Iraq, o che temono di esserlo come la Polonia, oppure a causa della crescita economica di paesi come Cina, Filippine, Vietnam. Complessivamente i paesi su cui gravano le maggiori spese militari sostanzialmente le mantengono stabili, con l'eccezione di Cina e Russia. Questi dati non sembrano preludere a un salto di qualità del conflitto militare.

Il multipolarismo paradossalmente è però foriero di crescente instabilità e continua competizione, perlomeno per non perdere le posizioni acquisite o in via di acquisizione. Non è sufficiente stare fermi. Si sovrappongono così molteplici piani in conflitto tra loro, tra Stati-nazione, tra imprese multinazionali, tra Stati e imprese multinazionali (si pensi alla contesa fiscale Europa versus Apple oppure a quella giuridica Fbi vs Apple). Un campo di battaglia orizzontale che al momento non pare andare oltre le guerre monetarie o quelle militari di livello regionale. I soggetti in campo sono spesso sottoposti a contraddittorie spinte e interessi.

Coglie la cifra della fase attuale Giorgio Arfaras su «Limes» quando sostiene che non esiste «all'interno di ognuno [Stati] una volontà unica -un solo punto di vista della classe dirigente di ogni agglomerato- per spingere nella direzione della propria potenza»[8]. Per cui l'Europa da un lato sta trattando con gli Usa per un accordo di libero scambio transatlantico (TTIP) e dall'altro al suo interno discute se riconoscere lo status di economia di mercato alla Cina. Nel primo caso, nel solco del trattato già approvato sul Pacifico (che coinvolge i principali paesi dell'area asiatica), gli Usa provano a creare un cordone economico intorno alla Cina per indebolirla, rafforzando le relazioni commerciali con i suoi storici partner, Europa compresa, nel secondo l'Europa prova invece a mantenere aperta una relazione privilegiata proprio con la Cina. La concessione di status di economia di mercato per la Cina, inoltre, non costituisce una scelta indolore per l'Europa. Lo confermano gli scontri interni in corso.
Esistono imprese che pensano di guadagnare e altre che temono di soccombere da questa scelta in base alla loro grandezza e al tipo di prodotti che trattano. Esistono imprese che sono orientate all'esportazione, magari di beni strumentali, e quelle che dipendono dal mercato interno. C'è uno schieramento contrario costituito dai paesi periferici e dalla Francia e uno favorevole dei paesi del blocco centro-settentrionale insieme alla Gran Bretagna. La Germania per ora sembra indecisa nel valutare i pro e i contro sulla propria economia. La stessa trattativa per il Ttip divide l'Europa con un approccio piuttosto freddo di Germania e Francia. Dilemmi che ci parlano degli intrecci economici affermatisi a livello globale e insieme intra-regionali. In ogni caso ci saranno vincitori e vinti non facilmente riconducibili dentro uno schema nazionale.

Lo scenario, dunque, risulta complesso e la crisi interviene complicando ulteriormente il tutto. La Gran Bretagna rischia di uscire dall'Unione Europea, la Scozia ha provato a uscire dalla Gran Bretagna, magari per aderire all'euro, in Spagna c'è il caso catalano, la Grecia appare appesa all'eurozona. La globalizzazione per alcuni versi sembra giungere al proprio limite e iniziano a intervenire diversi fattori in direzione di una de-globalizzazione. Dal crescente protezionismo fino ai cosiddetti processi di reshoring, cioè di ritorno delle produzioni nei paesi occidentali dopo una riduzione dei costi tale da far tornare convenienti nuovi insediamenti industriali. Per ora però questi processi costituiscono un fenomeno modesto che andrebbe incasellato dentro la tendenza agli accordi transnazionali. La globalizzazione dei prossimi decenni dopo il fallimento del Doha Round, il negoziato per la liberalizzazione del commercio mondiale lanciato nel 2001, si dispiega su base macro-regionale e attraverso accordi multi o bi-laterali. Un arretramento che non autorizza a prevedere scenari di guerra planetari immediati. Dentro questa realtà cosi complicata è difficile orientarsi, ma se si intende perseguire dei cambiamenti, da qui si deve partire.

NOTE

[1]Ansaldo M., Il Papa: La terza guerra mondiale è già iniziata, in «La repubblica», 18 agosto 2014.

[2]Franco M., Francesco: «Il mio abbraccio ai fratelli ortodossi», in «Corriere della sera», 16 febbraio 2016.

[3]La terza guerra mondiale?, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica», n. 2, 2016.

[4]Ballarini G., Triplica la vendita di armi in Itala, in www.nigrizia.it, 29 aprile 2016.

[5]Si veda Ferrero P., Mazzoni E, Di Sisto M., TTIP. L'accordo di libero scambio transatlantico, quando lo conosci lo eviti, DeriveApprodi, Roma 2016.

[6]Si veda Cardenal J. P., Araùjo H., Come la Cina sta conquistando l'Occidente, Feltrinelli, Milano 2016.

[7]Tramballi U., Armi, spese globali in crescita, in «Il Sole 24 Ore», 4 maggio 2016.

[8]Arfaras G., Le borse non sono eserciti, in «Limes. Rivista di geopolitica», n. 2, 2016, p. 43.

*Fonte articolo: http://temi.repubblica.it/micromega-online/guerre-vere-e-guerre-immagina...