Con o senza l'euro, serve la fine del modello ipercompetitivo

Tue, 04/03/2014 - 09:57
di
Marco Bertorello (da il manifesto)

L'Europa periodicamente sembra non incombere più sull'Italia, nonostante i moniti del commissario Rehn sul debito italiano al pallido governo Renzi. Sembra non esistere un problema sul piano continentale, poiché pochi ne parlano a fronte della sua gravità. A sinistra un conservatorismo di governo e d'opposizione non va oltre, se non per gradi d'intensità, il chiedere la fine dell'austerità. Ma tale richiesta resta fumosa, indefinita. Salvo poi tacciare di populismo qualsiasi istanza che va contro l'euro.
Porsi su quest'ultima lunghezza d'onda, significa generalmente individuare nella moneta unica un concentrato di negatività e nella sua dissoluzione il pre-requisito per la soluzione delle contraddizioni in cui versano i paesi periferici. L'opzione anti-euro riconduce troppo semplicisticamente i problemi alla dimensione continentale, senza considerare le tendenze globali, i problemi comuni al mondo del lavoro e ai ceti popolari ormai di qualsiasi latitudine. Indubbiamente risulta un'opzione seducente per la sua immediatezza e semplicità. E soprattutto risulta convincente nella misura in cui altri ridimensionano i problemi sistemici che stiamo attraversando.
Recentemente invece persino un filo europeista come Jurgen Habermas ha denunciato il fallimento delle elites europee. È innegabile l'insostenibilità dell'attuale modello di integrazione, ove gli squilibri macroeconomici aumentano costantemente, fino a stabilizzare una polarizzazione tra paesi centrali e periferici, ove esiste un nesso evidente tra saldi commerciali positivi e contenuti livelli di disoccupazione e viceversa tra saldi commerciali negativi e disoccupazione alle stelle. Il blocco che ruota attorno alla Germania si è avvantaggiato della moneta unica mediante un contenimento salariale, un tasso di cambio all'esterno elevato che favorisce le produzioni di qualità e penalizza all'interno i paesi con modeste esportazioni. Prevale una logica mercantilista inesorabile.
In tal senso, se risulta poco convincente l'opzione di un ritorno alla sovranità monetaria che finisce per prospettare come soluzione forte la svalutazione della futura moneta nazionale, non possiamo nascondere che anche l'euro per la Germania rappresenti una sua svalutazione competitiva, seppur meno evidente. I surplus commerciali tedeschi continuano a essere imponenti, anche grazie alle esportazioni dentro il continente, ma senza il vincolo di dover rivalutare la propria moneta per riequilibrare i rapporti con i vicini partner.
L'alternativa, però, non può essere né l'imitazione del modello teutonico, in quanto non esiste una corrispondente domanda aggregata da soddisfare, ma neppure quella di adeguarsi in scala minore al modello mercantilista. Il nodo centrale è un sistema fondato su principi ipercompetitivi, dove poco cambierebbe se avessimo un paese anziché un continente appiattito su un modello di amministrazione del mercato e della moneta. D'altro canto l'uscita dall'euro non può rappresentare un tabù non fosse altro perché la sua minaccia può dare potere contrattuale su scala sovranazionale, ma ci deve essere la consapevolezza che il modo per provare a ipotizzare un'uscita socialmente sostenibile dall'impasse attuale è quello di scegliere un terreno che favorisca la fine del modello ipercompetitivo. A partire dalla rimessa in discussione del debito pubblico, perseguendo un modello che provi a rinsaldare delle simmetrie, presentando il conto a chi più possiede. Uscendo da una logica verticale a compartimenti stagni su base nazionale, dove un aumento di trasferimenti per i ceti popolari di un paese periferico comporta un abbassamento delle pensioni tedesche. Provando a rilocalizzare parte dell'economia per affrontare il tema ecologico. Insomma nel rugby si parlerebbe di cambio di passo.