Vivere in un’Europa senza sinistra

Wed, 29/05/2019 - 18:36
di
Lorenzo Zamponi*

I risultati elettorali confermano l'instabilità iniziata con la crisi del 2008, stavolta con un'offensiva di destra. A sinistra c'è il vuoto, senza riferimenti internazionali credibili. Ma ciò non significa che non ci siano orizzonti di conflitto.

Le elezioni europee producono in Europa un altro duro colpo ai partiti tradizionali, in direzioni diverse, sia liberal-progressista sia nazional-reazionaria. Continua la transizione incompiuta, la ricerca di un nuovo assetto che porti il continente fuori dalla crisi iniziata nel 2008: stavolta l’iniziativa è a destra, pur senza sfondamenti. In Italia, un trionfo per Matteo Salvini, che porta la Lega sopra al 34% dei votanti, a danno di Forza Italia e Movimento Cinque Stelle, quest’ultimo superato anche dal Partito Democratico. Oggi in Italia c’è una maggioranza di destra, che se si votasse alle politiche avrebbe la possibilità di governare da sola. Ma davvero conviene a Salvini? Nel frattempo, a sinistra si certifica un vuoto senza appello, e anche, per la prima volta in un decennio, l’assenza di riferimenti internazionali credibili.

In Europa: cercasi stabilità

È difficile trovare una tendenza univoca a elezioni che si svolgono in 28 paesi diversi, rispondendo a sistemi e dinamiche diverse. Ma i numeri parlano chiaro: il gruppo socialista e democratico nel Parlamento Europeo avrà 45 seggi in meno della scorsa legislatura, quello popolare 41 in meno, quelli della destra nazionalista cresceranno in maniera significativa, così come, anche se in maniera minore, anche quelli dei liberal-democratici e dei Verdi.

Continua, insomma, la crisi di rappresentanza dei principali partiti di centrodestra e centrosinistra in tutto il continente. Nel campo socialdemocratico, la tendenza alla pasokizzazione, cioè il crollo sistematico dei partiti di centrosinistra responsabili dell’austerità sul modello del Pasok greco, sembra essersi arrestata, ma non c’è un’inversione di rotta. Anzi, sembra cristallizzarsi un ruolo marginale dei partiti socialdemocratici in gran parte dell’Ue, che oggi guidano elettoralmente solo 5 paesi su 28 (e nessuno dei più grandi): Spagna, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia e Malta. Va un po’ meglio ai popolari, che vincono in 14 paesi: Germania, Romania, Grecia, Austria, Bulgaria, Finlandia, Irlanda, Slovacchia, Lituania, Croazia, Lettonia, Slovenia, Cipro, più l’Ungheria di Orbán. Ma le vittorie della destra radicale sono di peso: non solo Belgio e Polonia, ma soprattutto Francia e Italia. Nel Regno Unito domina il Brexit Party di Farage, in Repubblica Ceca, Danimarca, Lussemburgo, Estonia varie gradazioni di centrismo.

Se a capitalizzare il calo dei popolari è soprattutto la nuova destra nazionalista e xenofoba, a fare man bassa dell’elettorato socialista sono le forze in assoluto più europeiste: i centristi liberal-democratici sono secondo partito in Francia e Regno Unito, i Verdi sono secondi in Germania e terzi in Francia. Cresce in Europa il modello Visegrad, quello di un bipolarismo non più tra destra e sinistra in senso tradizionale, ma tra nazionalismo reazionario e liberalismo progressista, perfettamente rappresentato dalla polarizzazione Le Pen-Macron che domina la politica francese (per ora a vantaggio della prima).

Il sistema bipolare popolari-socialdemocratici, travolto della crisi economica, è ben lontano dall’essersi ripreso e, anzi, continua a perdere colpi in termini di rappresentatività elettorale. D’altra parte, non si vede un altro assetto oggi pronto a sostituirlo, se non, appunto, la dicotomia europeisti-sovranisti di cui sopra, che però finora è servita solo a far crescere i secondi rispetto ai primi. Per ora, il cleavage destra-sinistra e quello Europa-nazione si incrociano in maniera spuria e diversificata, producendo un Parlamento Europeo frammentato e campi politici sempre più difficili da governare. Se la finestra populista sembra in via di chiusura (con l’arretramento di quelli di sinistra come Podemos e France Insoumise e di quelli “puri” del Movimento Cinque Stelle e il mancato sfondamento di quelli di destra come AfD in Germania, a vantaggio di forze più coerentemente e organicamente di destra), ciò non comporta, almeno per ora, un ritorno agli assetti politici preesistenti: centrodestra e centrosinistra continuano a essere in grossa crisi, ed è tuttora aperta la caccia ai loro voti, seppur con maggiori difficoltà rispetto a qualche anno fa. Cambiano le facce degli sfidanti, ora più liberiste o ambientaliste che socialiste, ma il sistema bipolare continua a essere sotto attacco. Al tempo stesso, cresce la polarizzazione tra forze nazionaliste e forze europeiste, riducendo ancora di più il già stretto margine per una riforma sostanziale degli assetti europei. L’involuzione anti-democratica della già poco democratica Ue sembra destinata a continuare.

In Italia: Salvini capitalizza il governo

In Italia è impossibile negare il trionfo di Matteo Salvini. Non solo la Lega supera il Movimento Cinque Stelle come primo partito del paese, ma sfonda in modo netto anche la quota simbolica del 30%, raggiunta nella Prima Repubblica solo da Dc e Pci, nella Seconda da Pd e Pdl, e ora, nel giro di due anni, prima dal M5S e poi dalla Lega. In pochi mesi, Salvini ha mangiato a Di Maio milioni di elettori, capitalizzando tutto il consenso generato dal governo Conte e scaricando sull’alleato tutto lo scontento. Il “ministro della polizia”, tutto repressione e battaglia sui confini, è una figura ben più popolare di chi distribuisce il reddito di cittadinanza o negozia sul deficit con l’Ue. La Lega divora anche il cadavere di Forza Italia (ormai ridotto ai 2 milioni di anziani che hanno il telecomando rotto su Rete4), lasciando qualche boccone anche a Fratelli d’Italia, in rampa di lancio per diventare la seconda gamba del polo di destra sovranista. Salvini e Meloni insieme sfondano il 40%, che con i collegi uninominali del Rosatellum, alle politiche, significa avere la possibilità di ottenere la maggioranza assoluta, anche senza Berlusconi.

Resta da vedere se Salvini davvero vorrà giocarsi subito questa carta o se preferirà fare l’azionista di maggioranza del governo Conte, rivendicando di dettare la linea all’esecutivo sul piano programmatico ma senza assumerne la guida. Per ora la linea scelta sembra questa, ben diversa dalla fretta di correre a Palazzo Chigi che fu il primo tragico errore di Matteo Renzi, determinandone la fulminea traiettoria. Salvini, almeno per ora, sembra avere meno fretta e più respiro. Le conseguenze, in ogni caso, saranno pessime per i ceti popolari: se la Lega non chiede poltrone, di sicuro pretenderà punti programmatici, primo fra tutti un altro pezzo di flat tax, cioè un altro sconto fiscale alle imprese. Per finanziarlo sono probabili nuovi tagli a scuola e sanità, oppure il taglio degli 80 euro del governo Renzi, cioè, di fatto, un aumento delle tasse ai lavoratori dipendenti. Tutto questo al netto dei 23 miliardi che già il governo deve trovare per disinnescare l’aumento dell’Iva, e il cui destino è legato alla composizione della prossima Commissione Europea e alla linea che essa sceglierà.

Dall’altra parte dello spettro politico, il Pd inverte la rotta della pasokizzazione e torna secondo partito, scavalcando il Movimento Cinque Stelle. Ma quella di Zingaretti è una vitttoria di Pirro: non solo il centrosinistra è tutt’altro che competitivo come alternativa alla destra in vista di eventuali politiche, ma soprattutto la crescita del Pd è avvenuta quasi esclusivamente ai danni di chi sta alla sua sinistra, svuotando di fatto potenziali alleati, e senza quindi allargare il campo del centrosinistra.

A sinistra: in Italia nulla, fuori poco

L’effetto Zingaretti ha di fatto spazzato via le macerie della sinistra, già malridotta dopo gli insuccessi elettorali di Liberi e Uguali e Potere al Popolo lo scorso anno. La lista unitaria di Sinistra Italiana e Rifondazione si ferma all’1,7% scarso, lontanissima non solo dallo sbarramento, ma anche e soprattutto dal milione di voti raccolto da L’Altra Europa con Tsipras cinque anni fa, ora ridotto a meno della metà. Il fallimento dell’ipotesi proposta da Luigi De Magistris, con il ritiro improvviso del sindaco di Napoli dalla scena politica nazionale, ha costretto le leadership dei due partiti a costruire una lista in fretta e furia, priva di slancio militante e capacità attrattiva, ma il risultato è addirittura peggiore delle aspettative. In una stagione in cui si riempiono le piazze e cresce un’opposizione sociale a Salvini e al governo, la sinistra non è un referente credibile per quelle piazze, non ne intercetta lo spirito, lasciando ampi spazi a Nicola Zingaretti, il quale, restando zitto per evitare di esprimere qualsiasi posizione politica e limitarsi a ricordare a tutti che non è Matteo Salvini, sembra beneficiare più di tutti dell’opposizione. Il Pd, d’altra parte, non sfonda nell’elettorato grillino, e non ha oggi vie verso il governo che non passino da una ridiscussione del proprio rapporto con gli odiati Cinque Stelle.

Il quadro è complicato dai passi indietro delle opzioni progressiste a livello europeo. Se cinque anni fa la sinistra italiana poteva pensare di ripartire dal 4% ottenuto dalla lista Altra Europa seguendo i modelli di Syriza e Podemos, i cui successi in Grecia e Spagna facevano presagire un’evoluzione maggioritaria della sinistra radicale, pronta a prendere il posto delle socialdemocrazie come referente popolare in diversi paesi, oggi niente di tutto questo esiste più. Syriza è stata sconfitta dalla destra di Nuova Democrazia e il governo di Alexis Tsipras si è dimesso convocando nuove elezioni, Podemos conferma il calo delle elezioni politiche del mese scorso, e la France Insoumise di Mélenchon si ferma a un modesto 6%, per non parlare della Linke, visibilmente in calo, e del Partito Socialista olandese, fuori dal Parlamento europeo. Cadono anche le “città del cambiamento” in Spagna, con la netta sconfitta di Manuela Carmena a Madrid e quella di misura di Ada Colau a Barcellona. Le uniche eccezioni positive sono il Portogallo, dove il Bloco de Esquerda porta a casa il 9,8% e i comunisti il 6,8% pur appoggiando il governo socialista, segno di un esperimento politico da seguire con attenzione, e il Belgio, dove il Ptb/PvdA fa segnare un inedito 8,6%. Per il resto della sinistra si raccolgono i cocci e si fa fatica a immaginare una possibile prospettiva, resa ancora più complessa dal caso del Regno Unito, dove il Labour continua a essere prigioniero della maledetta divisione tra i due fronti della Brexit.

Resta sul tavolo un problema enorme di credibilità dei soggetti, di capacità di insediamento sociale e di recupero di legami profondi con una classe sempre più dispersa, frammentata e spoliticizzata. A sinistra non pagano le scelte di omologazione come quella di Tsipras, che arretra di circa 12 punti, non paga più come un tempo il populismo di sinistra alla Podemos e nemmeno le unità posticce fatte un minuto prima del voto. Per recuperare una prospettiva vincente – obiettivo che oggi appare particolarmente lontano e difficile, ma che non dobbiamo perdere di vista – occorre un lavoro serio sui progetti politici, le idee di alternativa e un lavoro quotidiano e a volte poco visibile di ricostruzione sociale.

Allo stesso tempo va osservata con attenzione l’ascesa dei partiti ecologisti in molti paesi, portando i Verdi tedeschi a essere il secondo partito con il 20,5%, ma che si afferma anche in Francia, a dispetto di una sinistra litigiosa e divisa, e che, nel suo piccolo, ottiene un risultato apprezzabile anche in Italia, superando la lista della sinistra. Le collocazioni politiche dei partiti Verdi sono piuttosto eterogenee e sarebbe un errore catalogarli tutti come soggetti a sinistra della socialdemocrazia: anzi, molto spesso è proprio la trasversalità a premiarli, insieme a un’identificazione come partiti progressisti ed europeisti, meno liberisti di centristi e popolari e meno ideologici della sinistra. Ma è indiscutibile che dietro a questa crescita ci sia anche una rinnovata e benvenuta centralità della questione ambientale nell’epoca dell’emergenza climatica. Si tratta di un vento che proviene in maggior misura delle giovani generazioni, dimostrando che Greta Thunberg non può essere liquidata come un fenomeno di marketing, ma è invece la punta dell’iceberg di una dinamica che attraversa le società occidentali e che potrà dare ancora buoni frutti.

Viviamo, come abbiamo scritto nel nostro primo numero, in un “paese senza sinistra”, e ora anche in un continente con ben poca sinistra. Ma ciò non significa che si esauriscano gli orizzonti di conflitto e cambiamento, presenti nella battaglia per il clima così come nelle poche esperienze vincenti di ricostruzione di classe in Europa. Sbaglia chi scommette sulla stabilità di assetti politici che non possono essere duraturi in una fase a cui a mancare è la stessa capacità redistributiva delle istituzioni pubbliche. In Italia, Salvini può fare la fine di Renzi, e in Europa non è detto che Marine Le Pen abbia più successo di Pablo Iglesias. Proprio quest’instabilità rende necessario quel lavoro di attivazione e organizzazione che non può più essere rimandato. E chissà che a darci qualche lezione non siano proprio le piazze degli scioperi per il clima e la voglia dei giovani di salvare il mondo.

*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.

*Fonte: https://jacobinitalia.it/vivere-in-uneuropa-senza-sinistra/