Un attentato contro la “primavera”, in una Tunisia contraddittoria

Fri, 20/03/2015 - 09:49
di
Sankara

L’attacco del gruppo terrorista al Museo del Bardo a Tunisi rappresenta un shock molto forte in un paese che ha dato vita alla scintilla delle rivoluzioni nella regione araba, il paese che più di tutti sembrava riuscito a costruire un vero processo democratico e laico, per quanto contraddittorio e dove sono rispuntati i vecchi arnesi del regime di Ben Ali.
Uno shock che ha prodotto allo stesso tempo una risposta di massa, con migliaia di persone che sono scese in strada contro il terrorismo e torneranno nei prossimi giorni a manifestare contro la paura e le strategie di morte.

Le analisi dei commentatori italiani il giorno dopo sprecavano parole sull'“attentato contro i valori occidentali”. Il direttore di Repubblica Ezio Mauro ha sostenuto che “i terroristi vogliono colpire i simboli della quotidianità occidentale, come a Parigi” (ovviamente Mauro pensa che democrazia e cultura siano simboli occidentali, non certamente "orientali")..
La realtà sembra un po’ diversa: chi ha pianificato e portato a termine l’attacco di ieri a Tunisi voleva colpire il processo politico nato con la “primavera” del 2011. Non perché siano contro questo governo in particolare, quanto perché nelle strategie dei seguaci del califfato, un processo partecipato, democratico, laico e aperto al confronto è il vero nemico.
Ovviamente ha a che fare con la loro lettura, allo stesso tempo arcaica e molto moderna, del ruolo dell’Islam come strumento di potere e di sottomissione di massa a questo stesso potere. Per questo l’obiettivo iniziale sembra fosse il Parlamento tunisino, che si trova nello stesso palazzo del museo.

La prima vittima della strategia terroristica sono donne e uomini tunisini. La morte di turisti stranieri è un messaggio parallelo a questo, perché colpisce una risorsa economica e un’idea di convivenza, di scambio, di apertura al mondo (non è un giudizio su questo tipo di turismo, ma sull’idea di chiusura che sta alla base del califfato).
Le donne e gli uomini tunisini che sono scesi in piazza in queste ore, come le centinaia di migliaia che manifestarono durante lo sciopero generale indetto dopo l’assassinio di Chokri Belaid l’hanno capito immediatamente: il terrorismo è contro di loro, non contro generici “valori occidentali”; contro la loro partecipazione, la possibilità di poter decidere del proprio destino.
Come in Siria, come in Egitto, come ovunque, i gruppi reazionari jihadisti sono nemici delle rivoluzioni, e hanno sempre cercato di colpire i settori migliori dei processi rivoluzionari che erano cresciuti dopo il 2011. La morte di Chokri Belaid lo aveva già mostrato, così come gli attacchi di Isis contro gruppi siriani legati all’Esercito siriano libero.
E sono nemici delle donne e degli uomini, anche se musulmani, perché il loro obiettivo è governare contro la popolazione, per imporre la loro ideologia, il loro potere.

Se i gruppi legati al califfato, come ad Al Qaeda, sono da considerare a tutti gli effetti una reazione controrivoluzionaria, è allo stesso tempo vero che si nutrono anche delle contraddizioni e della brusca frenata che hanno avuto i processi rivoluzionari.
Se in Siria Isis ha potuto crescere anche grazie alla strategia del regime siriano, che ha in Daesh il nemico perfetto, che riporta Bashar el Assad a essere interlocutore delle diplomazie occidentali, in paesi come la Tunisia (come avviene in Europa) cresce anche sulla mancata realizzazione delle richieste di giustizia sociale e partecipazione democratica.
La Tunisia è il paese nel quale le elezioni sono state libere e democratiche, ma anche il paese che ha proseguito sulla strada delle politiche neoliberiste e dove le popolazioni delle regioni più svantaggiate continuano ad essere dimenticate e senza prospettive di sviluppo; dove le/i giovani continuano a confrontarsi con disoccupazione, precarietà e mancanza di futuro; dove vecchi personaggi del sottobosco del regime si sono ripresentati sulla scena.
In Tunisia il consenso per le strategie jihadiste sembra essere molto basso, ma potrebbero essere molti di più i giovani da reclutare, se non ci sarà un cambio di passo deciso verso le richieste e le rivendicazioni del gennaio 2011. Senza un deciso impegno in questo senso, persino obittivi istituzionali o economici, così come il turismo, posso diventare "legitimi" agli occhi di chi rimane escluso dalla partecipazione politica o marginale nello sviluppo economico e sociale.
Ancora una volta dobbiamo dire che il terrorismo si sconfigge in primo luogo sul piano politico e sociale, combattendo esclusione, miseria, abbandono.

In quei mesi era nata la speranza che le/i giovani della regione araba potessero costruire una strada alternativa allo stagnante grigiore repressivo dei regimi dei tiranni e all’ideologia jihadista come strumento della propria identità politica.
Molti soggetti hanno lavorato contro questa speranza, in prima fila i governi dei pesi del Golfo – ma anche Usa, Russi, paesi europei. Per loro era troppo pericoloso che le popolazioni della regione araba potessero davvero conquistare libertà, giustizia, dignità. E hanno appoggiato le forze controrivoluzionarie, in primo luogo il generale Al Sisi in Egitto.
Quella speranza però non è morta. Vive nelle migliaia di tunisine/i che in questi giorni difendono la loro possibilità di futuro, e nelle tante donne e uomini che in molti modi ancora lottano per affermare quello che “il popolo vuole”.

Noi siamo con loro. #noussommesrévolutiontunisienne