Sull'Eurovision, il pinkwashing e la Grande marcia del ritorno: l'hard power di Israele

Wed, 16/05/2018 - 16:25
di
Constance Markievicz

Next year in Jerusalem!

Con queste parole ha salutato la cantante israeliana Netta Barzilai dopo aver vinto l'Eurovision Song Contest 2018. Innocentemente si potrebbe pensare ad un utilizzo arcaico del classico augurio della pasqua ebraica, ma se guardiamo più a fondo le parole della cantante l'augurio assume tutt'altra tonalità (oltre che implicare l’esclusione immediata di Tel Aviv, città che normalmente ospita eventi simili a quello che sarà la finale dell’Eurovision). “Thank you for much for choosing difference, thank you so much for accepting differences between us. Thank you for celebrating diversity, thank you. I love my country", e poi, "This is a great moment for me and [...] for us as a country, that hasn't many reasons to be happy at the moment". La cantante, forse involontariamente, ha filtrato la retorica che molti israeliani fanno propria: siamo in un momento di difficoltà in cui lo stato di Israele si sente sotto attacco, circondato da nemici e che deve utilizzare ogni potere, soft o hard, per emergere vincitore. Ma è veramente così?

Bastano poche immagini, basta vedere i video o sentire le interviste dei giovani che da settimane manifestano nella buffer zone di Gaza per capire quanto il governo israeliano stia utilizzando il suo “hard power” per sedare le più estese manifestazioni non-violente che si siano viste nella più grande prigione a cielo aperto del mondo.
Decine di migliaia di persone, giovani, anziani, famiglie, mutilati dalla guerra del 2008, vogliono riportare l'attenzione sulla situazione insostenibile che sta vivendo Gaza e vogliono ribadire che una soluzione si troverà dando la possibilità ai palestinesi della diaspora di tornare nelle proprie terre: questa “Grande marcia del ritorno” è una campagna partita dal basso e che esce dallo schema dei partiti tradizionali palestinesi. La Grande marcia del ritorno dimostra una enorme vitalità della società palestinese rinchiusa in un assedio che dura da 12 anni, e che parte appunto da una generazione cresciuta tra l'impossibilità della fuga e il rischio di morire come “collateral damage” di un missile israeliano. Una vitalità dissanguata dalla spropositata violenza dell'esercito israeliano, che ha portato il bilancio in poco più di un mese a più di 100 morti e 5.000 feriti (di cui molti colpiti da proiettili veri, con possibili conseguenze di lungo periodo come amputazioni e paralisi), ma che non ha fiaccato lo spirito della popolazione locale che è cosciente che l'unica uscita dal quel luogo infernale è la rottura dello stallo politico.

Gideon Levy scriveva poco tempo fa che la società civile israeliana su cui lui aveva fatto leva per molto tempo, era moribonda e Israele non poteva essere più salvato dall'interno e che solo la pressione internazionale poteva fare qualcosa per un paese che non aveva più l'anima: il giornalista israeliano aveva fiducia che solo un'organizzazione come il BDS potesse avere la forza di far cadere l'occupazione israeliana e di aprire la strada ad un processo di pace effettivo, costruito fra pari e non fatto di “concessioni” fra una potenza coloniale e i colonizzati in catene. Le campagne del BDS hanno avuto una straordinaria efficacia nel promuovere il “soft power” della causa palestinese; artisti “politicizzati” come Roger Waters e Brian Eno, ma anche giovani cantanti come Lorde, hanno diffuso il verbo e si sono rifiutati di suonare in Israele, altri artisti hanno rifiutato contratti da aziende che hanno sede nei territori occupati.

Questa perdita costante di potere ha portato ad una decisa controffensiva da parte del governo israeliano; se la tradizionale accusa di antisemitismo contro una fetta sempre più ampia di artisti e intellettuali mondiali aveva un'efficacia ormai limitata e ridicola (e per di più sembra sempre più fuori-luogo in un mondo, come quello europeo e americano, dove c'è una rinascita dei movimenti neo-nazisti e antisemiti completamente ignorati dalle autorità e dai media israeliani), bisognava trovare un grimaldello politico per dimostrare che Israele era un paese aperto, tollerante e “cool”: in una parola, “pinkwashing”.

L'utilizzo delle tematiche LGBT per promuovere la politica israeliana ha subito una accelerazione negli ultimi anni, tanto che la figura di Netta riassume perfettamente quello che i vari governi israeliani hanno cercato di portare agli occhi del mondo esterno, una cortina di fumo per nascondere la realtà che ogni giorno attraversano le persone che vivono in quelle terre. E non mi riferisco solo ai palestinesi e agli arabi del '48 (come vengono chiamati i cittadini israeliani arabi) che vivono sotto occupazione o come cittadini di serie B di uno stato che non li vuole. E voglio citare i drusi siriani che resistono da anni contro i tentativi di assimilazione sulle alture del Golan, parlo delle decine di migliaia di rifugiati e migranti che scappano dalle guerre e dalle dittature e a cui viene sistematicamente rifiutato lo status di rifugiato o l'asilo politico in Israele, tanto da far dichiarare al primo ministro israeliano che avrebbe reindirizzato i richiedenti asilo o negli stati europei, o riportati a forza dai paesi dai quali erano scappati. La spregevole boutade fatta dal governo guidato da Netanyahu nei confronti degli altrettanto razzisti paesi europei o delle dittatura asiatiche o africane, però, ci dà la possibilità di chiarire che due dei grandi assunti della narrazione nazionale e della retorica di Israele sono evidentemente falsi: il fatto di essere una nazione nata dai rifugiati di una guerra e che questa nazione abbia come al centro la difesa del "diverso". Alle parole di Netta, infatti, dovremmo ricordare che la difesa dei diritti LGBT ha due discriminanti in Israele, quella della religione e quella del colore della pelle: arabi, musulmani e africani hanno uno status “diverso” a prescindere dal loro orientamento sessuale, e sono “persona non grata” nel paese della tolleranza.

Un altro caso emblematico di questo razzismo imperante lo si vede nei rapporti tra gli israeliani e i falascia, gli ebrei provenienti dal corno d'Africa. Haaretz ha denunciato per anni il sistematico razzismo nei loro confronti, soprattutto dalla componente askenazita della società israeliana, che si manifesta in una scolarizzazione minore, in una altissima resistenza ai matrimoni “inter-etnici” e infine in una mancanza di appartenenza a quello che sta sempre di più diventando un etno-stato bianco, con gran gioia degli estremisti della destra americana che hanno eletto Trump e che vogliono la cacciata degli ebrei dagli Stati Uniti.

Trovare il governo israeliano alleato con coloro che rimpiangono Adolf Hitler, che credono ad alcune teorie del complotto che non sono altro che un rimaneggiamento dei “protocolli dei savi di Sion”, può sembrare farsesco, per citare Marx, ma è una dura realtà di una conflitto che fa emergere tutto il suo carattere coloniale: e che, sfortunatamente, nessun “pride” e nessuna canzone di Netta potrà addolcire.