Siria a pezzi

Tue, 20/03/2018 - 19:39
di
Piero Maestri

La contemporanea caduta di Afrin, invasa da truppe turche insieme ad alcune brigate collaborazioniste di quello che fu l'Esercito siriano libero, e di gran parte della regione della Ghouta orientale nelle mani dell'esercito di Bashar el Assad dopo un crudele assedio di oltre 5 anni, rappresenta anche simbolicamente il dramma di un paese diviso e martoriato.
Naturalmente le due situazioni presentano molte differenze – sia per il numero dei morti e delle distruzioni, infinitamente maggiori nella Ghouta, sia per gli attori coinvolti – ma anche un'analogia terribile: i civili, uomini, donne, bambine e bambine, sono le principali vittime non collaterali di questi interventi criminali. E anche provando ad analizzare, comprendere e discutere delle diverse situazioni, negli occhi e nel cuore ci devono rimanere le immagini di quelle morti, di quelle fughe, di quelle sofferenze – senza alcun interesse per una contabilità inumana.

La caduta di Afrin, annunciata e inevitabile, nelle mani dell'esercito di Erdogan e delle bande siriane sue alleate, è un'ulteriore passaggio nella strategia siriana e regionale del presidente turco. E mette in luce anche le diverse strategie e tattiche degli attori coinvolti.
Il perché dell'intervento turco non è difficile da comprendere. Erdogan da qualche anno – dopo le elezioni del giugno 2015 nelle quali perse la maggioranza parlamentare anche grazie al successo del partito democratico del popolo (Hdp), espressione delle sinistre turco-curde – ha scelto la strada della costruzione del consenso sul nazionalismo, la ripresa della guerra al Pkk e su una stretta autoritaria interna pesantissima, anche grazie all'occasione fornitagli dal tentato golpe del 2016.
L'intervento in Siria fa parte di questa strategia: da una parte assicurarsi un controllo delle aree di frontiera dove operano i guerriglieri delle Ypg, emanazione del Pyd curdo a sua volta diretto dal Pkk – cercando di sigillare quegli stessi confini; dall'altra assicurarsi una migliore relazione con le forze vincenti in Siria, in particolare la Russia di Putin e l'Iran.

E non mancano ovviamente tentazioni espansionistiche, non tanto sul piano territoriale – difficilmente potrà annettersi quei territori e nemmeno potrà mantenere in forma permanente le sue truppe in Siria – quanto sul piano geostrategico e politico.
Interessante in questo senso l'analisi che propone Daniele Raineri su "il Foglio" del 20 marzo, secondo il quale "I turchi ora vogliono fare due cose. La prima è riversare dentro la Siria i profughi siriani – quasi tre milioni e mezzo – che vivono in Turchia. Secondo le prime stime intendono piazzarne tra trecentomila e mezzo milione nel cantone di Afrin, e da questo ricaveranno un doppio beneficio: il primo è che sostituiscono i curdi ostili con arabi riconoscenti, il secondo è che finalmente fanno rientrare in Siria i profughi siriani, che non sono più tollerati dalla popolazione turca – è un raro caso in cui i turchi sono in maggioranza furiosi con la politica di Erdogan. La seconda cosa che vogliono fare i turchi è rafforzare i gruppi di ribelli sotto la loro influenza per fare la guerra a qaidisti e gruppi terroristici sparsi. A questo fine hanno creato un supergruppo dalla fusione di alcune fazioni potenti che si chiama Jabhat Tahrir Souria e che ha già cominciato a fare la guerra ai filoqaidisti (in breve: Jts contro Hts)."

La Russia di Putin ha dato il via libera all’operazione turca, ritirando le sue truppe dalla regione di Afrin proprio nel momento in cui iniziava l'operazione "Ramoscello d'ulivo" (sic!).
Non si tratta in alcun modo di una contraddizione: Putin ha tutto l’interesse ad avere Erdogan come alleato, sia sul terreno regionale che in qualsiasi tavolo di trattativa per una stabilizzazione della Siria e della regione mediorientale stessa. E se questo avviene a spese dell’alleanza tra Turchia e Stati Uniti, tanto meglio.
D’altra parte l’Iran non ha alzato la voce in maniera significativa contro l’intervento turco. Il regime degli Ayatollah aveva precedentemente protestato a fianco dello stesso governo turco contro il referendum per l’indipendenza curda in Iraq voluto da Barzani – e certamente preferisce anch’esso avere la Turchia tra gli alleati che non come avversario regionale.

Nemmeno gli Stati Uniti di Trump hanno seriamente protestato o cercato in qualche modo di fermare l’offensiva turca. Se è vero che le relazioni tra i due paesi – entrambi membri della Nato – non sono certo idilliache, è vero anche che gli Stati Uniti non si oppongono ad un maggiore ruolo turco nel nord della Siria, purché questo non complichi eccessivamente le relazioni statunitensi con il Pyd (principale alleato nelle Forze democratiche siriane, volute dagli Usa e composte per la maggior parte da guerriglieri delle Ypg/Ypj). In questo senso vanno lette le dichiarazioni dei generali statunitensi contro una possibile avanzata turca fino a Mambji, controllata dalle Sdf e con una presenza diretta statunitense.
Gli Stati Uniti non possono e non vogliono rompere l’alleanza – tattica – con le forze curde, di cui hanno bisogno per il controllo di aree importanti della Siria, come Deir Ez zor.

Non bisogna nemmeno farsi ingannare dalla voce grossa di Assad, accompagnata dall’invio di qualche milizia da sacrificare, carne da macello immediatamente fermata e massacrata dalle truppe turche. Assad non ha alcuna autonomia dalle scelte russe e iraniane, e può semplicemente stare a guardare, presentandosi all’interno come il difensore di una Siria unita e “indipendente” (sic!) e aspettando che si concludano gli eventi per capire cosa succederà ai tavoli di negoziato (mentre continua la sua offensiva, ben protetta da Russia e Iran, in altre zone della Siria, come vedremo più avanti).
Le dichiarazioni roboanti e l’invio di milizie verso Afrin servivano anche a mostrare una certa disponibilità verso la richiesta delle forze curda al regime siriano di aiuto contro l’invasione turca. Si è parlato persino di un accordo tra le forze curde e il regime di Assad secondo il quale le prime avrebbero ceduto il controllo della regione alle forze del regime piuttosto che vederle in mano turca. Tutto questo era ovviamente impossibile ma la disponibilità di Assad permette di mantenere relazioni tra questi due attori in vista di una soluzione alle controversie sul controllo territoriale, autonomia, federalismo e così via.

Le forze curde hanno resistito per quasi due mesi come sicuramente sono capaci di fare, sapendo che non avrebbero comunque potuto fermare l’avanzata turca e la caduta di Afrin – dalla quale hanno all’ultimo momento ritirato le forze combattenti per evitare una disfatta inutile. D’altra parte hanno dimostrato di restare un attore politico e militare con il quale fare i conti e che può entrare nelle diverse equazioni e relazioni tra le potenze globali e regionali impegnate sul terreno siriano. Questa loro spregiudicatezza tattica, unita alla reale capacità militare e al consenso che certamente hanno nelle aree da loro controllate (nelle quali è indiscutibilmente senza paragoni la dinamica sociale e l’aria di libertà rispetto alle aree controllate dal regime o quelle controllate dalle bande islamiste – al netto dell’autoritarismo del Pyd e della direzione dall’alto imposta alle aree stesse), permette alle forze curde di non temere una sconfitta temporanea, che non mina in forma permanente le proprie capacità militari. Sapendo che alla fine anche il regime di Assad dovrà farci i conti – sempre che ad un certo punto Russia e Iran, magari in accordo con gli Usa di Trump e la Turchia, non decidano invece di togliersi anche questo possibile incomodo.

La conquista turca di Afrin mette in mostra definitivamente la natura pirandelliana dell’Esercito siriano libero: uno, centomila e in realtà nessuno. L’Esl non è mai stato un vero esercito unificato sotto la direzione politica di un’opposizione altrettanto unificata. È sempre stato caratterizzato in maniera differente a seconda delle forze sociali e politiche locali che lo componevano, dai finanziatori che lo foraggiavano, dalle capacità di movimento che riuscivano a conquistare. Oggi l’Esl non controlla quasi nessun territorio siriano e non rappresenta più un’opzione nelle mani di alcuna forza regionale e tanto meno di una popolazione stremata dalla guerra e dai massacri.
Questa amara fine di uno strumento politico-militare nato all’interno della Siria per proteggere la popolazione in rivolta, principali responsabili sono i vari stati cosiddetti “amici della Siria”, con la loro nefasta politica di divisioni e controllo sulle dinamiche della rivolta.

Dove potrà spingersi Erdogan? Non pensiamo che le sue dichiarazioni di questi giorni sulla volontà di arrivare fino a Sinjar (in Iraq!) abbiano qualche fondamento. Arrivare ad Afrin è stato “facile” (al netto della resistenza curda che ha causato perdite nelle forze turche e alleate); pensare davvero di mettersi contro Stati uniti, Russia e Iran è decisamente un altro paio di maniche. La conquista di Afrin dovrà consolidarla sul piano politico prima ancora che militare e territoriale. E lo dovrà fare in tempi abbastanza stretti. Senza contare le ricadute anche interne alla Turchia di un’eventuale ripresa in grande stile dello scontro con il PKK.

L’avanzata delle milizie di regime nella regione della Ghouta orientale, anch’essa annunciata, è molto più semplice da comprendere nelle sue dinamiche di fondo. La Ghouta orientale – controllata da alcune forze islamiste (non legate ad al Qaeda o all’Isis, ma altrettanto nefaste per la rivoluzione siriana e la popolazione che vive in quella regione) – è stata abbandonata al suo destino dalla cosiddetta “comunità internazionale”, e l’avanzata delle truppe di regime è stata come al solito resa possibile dagli attacchi dell’aviazione russa, oltre che dall'assedio criminale che dura da oltre 5 anni.
La “resistenza” delle forze islamiste e di quanto rimane di settori dell’Esl è stata a suo modo coraggiosa ed efficace, ma senza alcuna speranza di successo, sia sul piano militare che per lo stremo a cui è arrivata la popolazione nelle aree da loro controllate.

La regione della Ghouta orientale, in qualche modo culla della rivoluzione siriana, ha subito uno dei peggiori e criminali assedi della già tremenda vicenda siriana. La distruzione quasi completa di infrastrutture sociali e civili (con gli ospedali obiettivi privilegiati della furia assassina del regime siriano); decine di migliaia di morti (se ne contano oltre 1100 solamente negli ultimi 30 giorni); centinaia di migliaia di sfollati e così via.
Vedere le scene di persone in fuga costrette a sventolare le foto del dittatore che li ha tenuti prigionieri per oltre 5 anni e li ha bombardati, affamati, derisi e usati come vittime designate della sua politica è solo l’ennesima rappresentazione infame di un regime che ha potuto vincere grazie alle connivenze internazionali. Non ci si faccia al riguardo ingannare dalle ipocrite e indecenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza, che dichiara improbabili tregue mentre permette al regime di bloccare gli aiuti e alle sue milizie di taglieggiarne i pochi che riescono a entrare
La quasi completa riconquista della Ghouta – mentre proseguono bombardamenti e massacri nella regione di Idlib non controllata dal regime – rappresenta l’ennesima dimostrazione della legittimazione ormai avvenuta del regime di Bashar el Assad a livello internazionale. Il presidente siriano può a buona ragione presentarsi come parte determinante nel futuro del paese – almeno fino a quando Russia e Iran non decideranno di voltare pagina. E a tutti va benissimo l’eliminazione dal gioco di un attore screditato come quello rappresentato dalle forze islamiste di Jaysh al Islam.
La riconquista della Ghouta rende intanto meno confusa la situazione sul terreno per le forze regionali e globali che di fatto occupano la Siria e che dovranno trovare una soluzione per la sua – per quanto provvisoria – stabilizzazione. Provvisoria perché evidentemente non risolve in alcun modo le ragioni alla base della rivolta popolare del 2011. E se a nessuno è mai davvero importato delle ragioni di una rivoluzione formata da “dentisti e contadini” (come la definì in maniera sprezzante e offensiva il presidente Obama), certamente non è mai una politica saggia nascondere la brace sotto la cenere.

La caduta quasi simultanea della Ghouta e di Afrin mette in luce anche due drammi (di diversa entità) tra loro collegati.
In primo luogo la frattura che potrebbe essere per molto tempo insanabile tra le forze curde legate al Pyd e quelle democratico-rivoluzionarie “arabe” siriane. Una frattura di cui entrambe le forze sono responsabili
Da un lato un’opposizione siriana incapace di comprendere le ragioni, i diritti, le aspirazioni della popolazione curda siriana – che è stata sempre vessata dal regime degli Assad e che spesso è stata in prima fila nelle proteste contro questo stesso regime, anche nel 2011. Nella sua parte migliore, l’opposizione siriana non è andata oltre una generica dichiarazione di attenzione per le rivendicazioni curde, rimandandone una qualsiasi definizione una volta che la rivoluzione avesse trionfato sul regime. Allo stesso tempo settori dell’opposizione hanno negato qualsiasi ruolo alle aspirazioni curde, lasciando campo libero alle forze legate al Pyd.

Il Pyd, dal canto suo, è riuscito a conquistare l’egemonia all’interno delle zone che è riuscito a controllare – sia grazie ad una reale dinamica sociale positiva e partecipativa, sia attraverso pratiche autoritarie verso altre opzioni politiche curde e singoli dissidenti. Ma per farlo non ha evitato accordi di fatto con il regime siriano – che ha preferito ritirarsi da aree che sarebbero poi finite sotto il controllo del Pyd piuttosto che queste fossero controllate dall’opposizione dell’Esl – e spregiudicati cambi di alleanza tattici che permettevano maggiori spazi di manovra militari alle forze della guerriglia. D’altronde l’ambiguità di fondo della politica del Pyd è legata al suo essere espressione diretta della politica e dell'agenda del Pkk con base in Turchia – a suo tempo protetto da Assad padre prima dell'espulsione di Ocalan dal territorio siriano nel 1998.

Il secondo dramma, relativo, si verifica nella già scarsa solidarietà internazionalista, anch’essa frammentata e divisa, incapace di tenere insieme il sostegno al “modello del Rojava” (al di là del giudizio su di esso o che davvero rappresenti un "modello") con la mobilitazione contro la guerra di Assad alla popolazione siriana.
In questo senso la gran parte della sinistra solidale non solo non ha saputo o non ha voluto guardare al tentativo rivoluzionario siriano, complesso, difficile, senza un modello di riferimento ed esposto a pressioni internazionali nefaste – ma nemmeno ha provato qualche sentimento umano per le vittime della guerra siriana, che la spingesse a qualche mobilitazione almeno per il cessate il fuoco. Solo in questi giorni abbiamo sentito qualche appello per una no-fly-zone sulla regione di Afrin, dopo un silenzio durato 7 anni riguardo i bombardamenti aerei dell'aviazione russa o di regime.

Abbiamo in questi giorni sentito qualcuno dire che non avrebbe mai manifestato alla presenza delle “bandiere dell’Esercito siriano libero”(1), le stesse che sventolano a fianco a quelle turche ad Afrin – e questa è una vergogna per chi scrive e quella bandiera ha a cuore. Sarebbe un argomento su cui si potrebbe anche riflettere, se non fosse che questi stessi “compagni” non manifestarono per la rivolta siriana o almeno contro la repressione di Assad nel 2011, quando nelle piazze in rivolta sventolavano ancora le bandiere ufficiali dello stato siriano (prima che l’esercito di Assad le macchiasse definitivamente del sangue della popolazione siriana); o nel 2012 quando quelle bandiere erano il simbolo pulito di un tentativo di ottenere giustizia e libertà; o ancora quando quel simbolo sventolava accanto a quello delle YPG nella liberazione di Kobane.
Per questo non pare un argomento valido davvero.
Decisamente per la vicenda siriana la migliore definizione è quella data da Lorenzo Declich nel suo libro, intitolato giustamente “La Rivoluzione rimossa”.

In questo momento diventa difficile capire cosa ancora possiamo fare, cosa ancora pensiamo possa essere utile. A nostro avviso resta la necessità di mostrare il nostro sostegno politico alla causa e alle ragioni del tentativo rivoluzionario siriano, ricostruendone anche sul piano storico le energie, le esperienze, con tutti i loro limiti e la loro generosità. Una ricostruzione che si accompagni sempre alla denuncia dei crimini di guerra (da chiunque commessi) e della dittatura – sperando e lavorando perché un giorno i responsabili siano chiamati a risponderne.
E ancora serve allargare i canali dell’aiuto umanitario, mantenendo anche la pressione sulle istituzioni che dovrebbero garantirlo e per quali ricevono cospicui finanziamenti pubblici e privati.
Non ultimo, dobbiamo sostenere tutti i progetti che cerchino di ricostruire reti internazionali e regionali di relazioni politiche tra forze progressiste e delle sinistra radicale (come è il caso dell’Alleanza di socialiste/i del medioriente).

NOTA
(1) Non è questo il luogo per ricordare la storia della bandiera “dell’ESL”, che in realtà è la prima bandiera dell’indipendenza siriana dai francesi, prima che il Baath la modificasse, e utilizzata dai rivoluzionari siriani nel corso delle proteste del 2011, non sentendosi più rappresentati da quella che sventolava sui carri armati delle truppe di Assad che sparavano nelle strade sulle loro manifestazioni. http://www.sirialibano.com/siria-2/dimmi-che-bandiera-sventoli-e-ti-diro...
D’altra parte sarebbe anche da evitare il gioco sulle bandiere “impresentabili”, dopo che la bandiera gialla con la faccia di Ocalan ha sventolato accanto a quella di Assad in occasione della “liberazione” di Raqqa – ma potremmo tornare indietro a quando quella palestinese era il simbolo vergognoso di coloro che aiutavano Saddam Hussein che attaccava i curdi in rivolta nel nord dopo la fine della prima guerra del Golfo nel 1991…