Operai in Cina

Wed, 11/10/2017 - 18:17
di
Gaia Perini*

Il primo articolo della Costituzione cinese, risalente alla più antica versione stilata nel 1954, recita: “la Repubblica Popolare è uno stato socialista ove vige la dittatura democratica del popolo: è guidato dalla classe operaia e si fonda sull’alleanza fra gli operai ed i contadini”; il secondo, altrettanto imperituro articolo ribadisce il concetto: “tutti i poteri della Repubblica Popolare Cinese appartengono al suo popolo”.
Benché la Costituzione sia il testo giuridico più autorevole della Cina contemporanea, oggi ci pare arduo, se non assurdo e un tantino ridicolo, definire la classe operaia come la guida del paese; già ci è difficile definirla una ‘classe’. “Scattered sand”, sabbia dispersa, la chiama sin nel titolo del suo libro Hsiao-hung Pai, autrice di un’illuminante e appassionata inchiesta giornalistica su lavoro e migrazione interna in Cina, pubblicata nel 2012 per i tipi di Verso. Granelli portati via dal vento sferzante della modernizzazione, nella lunga transizione dell’era post-maoista di Riforma e Apertura, i ‘nuovi operai’ si sono difatti ritrovati orfani delle garanzie della vecchia “danwei” socialista, l’unità di produzione che forniva loro una casa, la copertura sanitaria e l’istruzione per i figli, oltre ad un impiego a tempo indeterminato e ad una dimensione di vita collettiva, in cui la quotidianità era condivisa con i compagni di lavoro e la solitudine passava per un obsoleto concetto borghese. Al momento attuale, più che avanguardia del proletariato, gli operai sono spettri che si aggirano per la Cina, percorrendola da ovest a est, dalle campagne ai grandi centri urbani, in quella che ormai da un ventennio costituisce la più grande migrazione mai avvenuta al mondo: stando alle statistiche ufficiali del 2016, l’esodo coinvolge 281 milioni di persone – una cifra ormai sempre più spaventosamente prossima al totale della popolazione degli Stati Uniti.

Durante gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, quando il fenomeno riguardava ‘soltanto’ poche decine di milioni di contadini i quali, strozzati dagli infimi ricavi del lavoro agricolo, giungevano in città in cerca di un’attività qualsiasi purché redditizia, l’opinione pubblica ed i sociologi iniziarono a parlare di “mangliu” (ossia ‘flusso cieco’). A metà del decennio scorso, poi, in un breve momento di apertura a sinistra sotto Hu Jintao e Wen Jiabao, si aprì un ampio dibattito sulla ‘triplice questione agraria’ (“sannong wenti”) e sui ‘contadini-operai migranti’, “nongmingong”. “Nongmingong”, anche abbreviato in “mingong”, è divenuta così la parola chiave per designare la nuova classe operaia, formata per lo più da ex-contadini o da piccoli proprietari terrieri che non hanno mai coltivato il proprio minuscolo, spesso improduttivo lotto, i quali lasciano i villaggi d’origine per finire in fabbrica, nei cantieri edili delle metropoli fresche di costruzione od ai gradini più bassi del settore terziario. Il dibattito si spense una volta varata la nuova legge sul lavoro e soprattutto dopo la svolta conservatrice (l’ennesima) del governo, mentre il termine “nongmingong” sopravvisse a quella stagione, restando in uso sino ad oggi. Ai lavoratori migranti e precari però l’appellativo di “contadin-operaio” pare impreciso – visto che molti di loro non hanno mai praticato l’agricoltura – quando non sottilmente denigratorio, e perciò gli preferiscono “xin gongren” (‘nuovi operai’), ove è ovvio il richiamo a quell’identità novecentesca con cui si apre la Costituzione, privata però del connotato di classe.
‘Flusso cieco’, ‘pulviscolo sparso’, ‘contadini-operai migranti’, od ancora “dagongzhe” (‘lavoratori saltuari’), infine ‘nuovi operai’: tanti nomi, troppi, per un sistema sociale come quello cinese, in cui nomen omen, ogni individuo ha un destino segnato dal proprio ruolo e dalla casella che occupa sulla scacchiera del clan familiare o aziendale. A chi ha letto Lu Xun, il padre della letteratura cinese moderna, il profilo vago e totalmente anonimo di quest’immane esercito salariale di quasi trecento milioni di unità ricorderà la storia di Ah Q, la storia di un senza nome. Ed è proprio l’assoluto contrasto fra l’assordante silenzio che avvolge questo fenomeno sociale e la sua portata in termini numerici e statistici ad attirare l’attenzione degli attivisti, degli studiosi e degli artisti engagés: la manodopera migrante rappresenta infatti la metà della forza lavoro urbana, stando ai dati riportati dalla succitata Hsiao-hung Pai, ed inoltre produce circa la metà del PIL cinese, ma agli occhi del governo centrale e delle amministrazioni locali costituisce più un problema che una risorsa.

Ne parliamo con Song Yi, artista socialmente impegnato e capoprogetto della ONG pechinese “Institute for Provocation”, nonché regista di un originale documentario sulle sempre più numerose scuole non-ufficiali per i bambini dei migranti, i quali a causa del loro certificato di residenza (“hukou”) rurale non possono essere ammessi negli istituti statali di Beijing, riservati ai pechinesi di nascita. Alla mia domanda sul perché abbia scelto i “nongmingong”, o ‘nuovi operai’, ed in particolare il tema dell’istruzione per il proprio lavoro, risponde: “è l’arte contemporanea stessa che, se presa seriamente, mette di fronte ad un vuoto di pensiero, pone il problema dell’ignoto… Ho cercato di capire dove, nel mio paese, risiedesse questo vuoto, questo punto opaco, e la risposta che spontaneamente si è formata nella mia mente riguarda questo enorme gruppo umano, che però resta anonimo e invisibile. L’istruzione poi è un tema chiave, che ci fa capire che i problemi della nuova classe operaia non si limitano al salario ed alle condizioni lavorative, ma investono la vita nel suo complesso: la salute e la copertura sanitaria, l’accesso alla scuola dell’obbligo per i propri figli. Quello che le policies governative sembrano esprimere, seppure per via indiretta, è che la manodopera utilizzata nelle costruzioni, nelle infrastrutture e nei servizi non deve dimenticare, neppure per un istante, di essere precaria e sempre sostituibile. Questi operai non lascerebbero più Pechino, se i loro figli trovassero delle scuole pronte ad accoglierli e a garantire loro lo stesso livello d’istruzione a cui accedono i figli dei pechinesi propriamente detti, ossia di quella fetta di popolazione che risulta regolarmente registrata in qualità di cittadini della capitale, tramite il sistema dello hukou [il certificato di residenza creato nel 1958 e finalizzato a limitare la migrazione interna, ndt]”.
Nelle parole di Song Yi prende forma lo stesso immaginario che anima il racconto di fantascienza vincitore del premio Hugo 2016, “Folding Beijing”, “Pechino pieghevole” di Hao Jingfang: anche per lui Pechino è una sorta di tetra megalopoli iperfuturistica che riproduce spazialmente le gerarchie sociali e si accartoccia su sé stessa o si dilata, a seconda delle ore del giorno e del ceto che a turno vi abita. I migranti devono risiedere ai margini, anche qualora lavorino entro il secondo o terzo anello, in quello che noi europei chiamiamo ‘centro’; ora che la capitale è in procinto di espandersi ulteriormente, inglobando la città portuale di Tianjin e parte della regione dello Hebei, il ‘centro’ si sposterà e con lui gli abitanti ‘temporanei’, costretti a cercarsi nuove periferie.
La conversazione torna poi alle scuole elementari create dal basso, frequentate dai figli dei ‘nuovi operai’ e, più nello specifico, alla scuola autogestita del villaggio di Picun, un villaggio che ospita uno dei più interessanti esperimenti sociali della Cina del Nord. “La scuola – ricorda Song Yi – fu fondata nel 2005, l’anno stesso in cui prese l’avvio l’esperimento. Non è un caso che uno dei primi progetti realizzati dalla comunità migrante autonoma di Picun riguardi la scolarizzazione: si è voluto rispondere ad uno dei problemi più sentiti dai ‘nuovi operai’, ossia al fenomeno dei ‘bambini abbandonati a sé stessi’ (“left behind children”, in cinese “liushou ertong”), il quale, stando ai dati ufficiali, coinvolge circa 60 milioni di minorenni cinesi (dai 0 ai 17 anni). Si tratta di giovani e giovanissimi che non possono seguire i genitori nel loro esodo verso le grandi città e quindi vengono affidati ai nonni, nei casi più fortunati, oppure restano completamente da soli, in balia di sé stessi e dei propri coetanei. Perciò per noi è così importante il tentativo di aprire delle scuole non-ufficiali, la cui esistenza può motivare i migranti a portarsi appresso i figli. La scuola di Picun non è la prima che è stata creata a Pechino; sicuramente non sarà l’ultima. Da un lato, il governo centrale si dichiara intenzionato ad arginare quest’abbandono di massa, che peraltro crea una gioventù bruciata spesso dedita alla microcriminalità ed al consumo di alcool e droghe; dall’altro però i governi locali chiudono le scuole che noi fondiamo, o per meglio dire usano mezzi indiretti per boicottarne le attività, sinché gli studenti non si riducono drammaticamente di numero e le classi sono costrette a sospendere le lezioni”. Song Yi quindi mi mostra una mappa della municipalità di Pechino, contornata da una miriade di puntini neri, rossi e blu, spiegandomi che i pallini neri rappresentano le scuole non-governative già chiuse, quelli in rosso, le scuole in procinto di chiudere per mancanza di studenti, ed infine i pallini blu – la minoranza – le scuole avviate e non in crisi, almeno per il momento.

Io però vorrei capire qualcosa di più riguardo all’intero esperimento di Picun, spesso presentato come la prima comunità di operai migranti cinesi totalmente autogestita, perciò devio il discorso dalle scuole e chiedo a Song Yi di spiegarmi in cosa consiste il progetto in generale: “L’esperimento nacque prima del villaggio di Picun: quindici anni fa, nel 2002, nel distretto di Haidian di Pechino vicino al vecchio Palazzo d’Estate, il migrante Wang Dezhi fondò con Sun Heng e Xu Duo l’associazione “Migrant Workers’ Home” e, parallelamente, il gruppo musicale dedicato agli operai edili che, grazie al successo dei suoi album, permise di trovare i fondi per aprire la scuola “Tongxin” (‘Cuori Uniti’) e le altre strutture del villaggio di Picun. Nessuno dei tre possiede una laurea – sottolinea con un certo orgoglio Song Yi – ma insieme, sono riusciti a mettere in piedi una rete che conta sull’aiuto di un centinaio di volontari fissi e di molti altri temporanei, i quali dal 2005 mantengono in vita un centro di formazione (per promuovere l’autocoscienza dei ‘nuovi operai’), la cooperativa “Tongxin Women Workers”, alcuni negozi autogestiti, una fattoria bio, un museo, un centro di scrittura creativa ed un’università non ufficiale, oltre alle succitate scuole elementari. Wang Dezhi è nato nella Mongolia Interna e prima di diventare l’ideatore della comunità di Picun, come tanti suoi ‘colleghi’ migranti ha lavorato come fattorino, ha fatto il commesso in uno “xiaomaibu” [ossia in un chioschetto che vende generi di prima necessità e che resta aperto sino a tarda notte, ndt.] e, ancora, consegnava l’acqua potabile porta a porta… Non ci sono persone altamente istruite, fra i dirigenti del villaggio, anzi, non ci sono neppure dei dirigenti nel senso classico del termine: Picun ha un’organizzazione orizzontale”.

Chiunque conosca un poco l’ambito dell’associazionismo cinese sa che spesso le ONG sono gestite da stranieri e comunque posseggono una struttura verticistica, ove chi comanda, ça va sans dire, è chi dispone del maggior numero di competenze. “Non sussiste alcuna divisione fra le teste e le braccia – rimarca Song Yi: i membri della comunità provengono tutti dallo stesso milieu; talvolta ricevono visite di studio da parte di noti professori del Politecnico Tsinghua e dell’Università di Pechino, i quali possono anche tenere loro delle conferenze, ma non si recano a Picun per indottrinarli, al contrario vanno lì per imparare”. L’orizzontalità sarebbe dunque il primo tratto distintivo dell’esperimento; “in seconda istanza – continua il nostro intervistato – è necessario sottolineare che solo a Pechino è possibile questo tipo di esperienza: nel sud, nella regione del Guangdong ad esempio, ove c’è la massima concentrazione di distretti industriali e dove ancora esiste ‘la fabbrica’ nell’accezione tradizionale del termine, le associazioni che si occupano di lavoro e migrazione curano soprattutto l’aspetto legale, ossia mirano a tutelare i diritti dei singoli operai, oppure ricorrono alla contrattazione collettiva, tutte pratiche che nella capitale è difficile adottare a causa dei più rigidi controlli governativi”. (E’ d’uopo ricordare qui che Pechino ospita sia il governo locale della municipalità, sia quello centrale, motivo per cui è il posto più controllato di tutta la Repubblica Popolare.) “Viceversa nella capitale, sede di più di cinquanta atenei e di centinaia di facoltà diverse, è più facile portare avanti progetti culturali o artistici incentrati sulla trasformazione della vita quotidiana e sull’autogestione. A Picun l’autogestione copre diversi ambiti: la fattoria biologica e la piccola rete commerciale interna al villaggio garantiscono alla comunità una certa indipendenza dall’esterno, mentre i festival di musica folk, gli spettacoli teatrali, la scuola di scrittura creativa o il Gala di fine anno [ossia il programma nazional-popolare più visto in Cina, trasmesso dalla televisione di Stato la vigilia di Capodanno, ndt.] rivisto in chiave operaia contribuiscono alla creazione di una controcultura e di un’identità forte, in grado di mitigare, se non di cancellare del tutto, il senso di precarietà materiale ed esistenziale in cui si sono costantemente immerse le vite dei ‘nuovi operai’ ”.
“Infine, – aggiunge Song Yi – se nella regione del Guangdong, dove si trova la grande industria, l’economia è ancora visibilmente trainata dalla produzione su vasta scala di beni materiali, a Pechino la crescita dipende sempre più dal settore dei servizi. Spesso i migranti trovano un impiego nelle aziende della piccola e grande distribuzione: guidano gli ormai ubiquitari carretti a motore per conto dei giganti Jingdong, Taobao, Amazon, recapitando a domicilio dei pechinesi la merce che costoro acquistano solo online; oppure distribuiscono i “tong” [ossia i bottiglioni da 18-20 litri, ndt.] di acqua potabile, casa per casa. Estromessi dal sistema collettivo della fabbrica, i ‘nuovi operai’ versano in una condizione di profondo isolamento ed è quindi improbabile che organizzino degli scioperi o che ricorrano alle vecchie forme di protesta. Perlopiù, non vedendo una soluzione immediata ai loro problemi, si rassegnano e finiscono per dedicare buona parte del loro tempo libero ai giochi in rete, ai social network e a tutto ciò che è puro intrattenimento. In questo contesto, è dunque preferibile un attivismo di stampo più culturale, che miri a trasformare per quanto è possibile gli stili di vita ed a creare delle nicchie di sopravvivenza, dei margini di critica dell’esistente partendo dalla quotidianità, anziché cercare di modificare le condizioni di lavoro o puntare ad una lotta sul salario”.

Per Song Yi le scelte strategiche degli operai politicizzati e degli attivisti dipendono in primo luogo dal fattore geografico: ciò che è attuabile nel sud della Cina, non lo è nella capitale, e viceversa. Tuttavia, la tendenza a rompere con gli schemi consolidati della lotta sindacale e del ricorso alla legge è stata registrata anche da altri osservatori e studiosi che si occupano del continente Cina nel suo complesso; ci riferiamo ad esempio a diversi interventi usciti sulla rivista specializzata “Made in China: a Quarterly on Chinese Labour, Civil Society, and Rights”, in cui si mettono in discussione sia il ruolo della legge nelle dispute riguardanti i diritti dei lavoratori, sia lo strumento della contrattazione collettiva. Nel primo numero di quest’anno, l’articolo firmato da Eli Friedman reca l’eloquente titolo “Collective Bargaining in China is Dead: the Situation is Excellent” (“Made in China”, 2017/1, p. 12 e segg.): la negoziazione non scomparirà, ci dice l’articolo, ma certo ha esaurito la carica politica che ha avuto nel corso del ‘900. Le strategie che cercano di forzare il sistema dal suo interno, senza però scardinarne le basi, hanno sempre meno chances di riuscita; è quello che sostiene anche Elaine Sio-ieng Hui nel numero precedente della stessa rivista (“Made in China”, 2016/4, p. 11 e segg.), riguardo al sostegno legale dei lavoratori ed alla ‘tutela dei diritti’ (in cinese “weiquan”), la quale nello scorso decennio è stata la parola d’ordine di tante lotte operaie. Il richiamo alla legge sul lavoro – una legge per molti versi avanzata e virtuosa, almeno in teoria – secondo l’autrice comunque rinforza il discorso istituzionale e l’egemonia del partito-stato, quindi se sul piano concreto può aiutare gli operai a strappare qualche utile concessione, non li sottrae però al regime discorsivo che fa di loro dei subalterni, senza via di scampo. Da questo punto di vista, l’esperimento comunitario di Picun ci pare ancor più degno di rilievo, perché, pur nel suo piccolo, potrebbe aprirsi verso inedite direzioni, a distanza dagli apparati statali ed anche dal sindacato (che in Cina è sempre vincolato allo Stato).

Chiarite le caratteristiche e le potenzialità dell’esperimento, domando a Song Yi quali invece siano i suoi limiti. Mi risponde mostrandomi sul suo computer una cartina di Pechino: “vedi, – dice – Picun è situata a pochi chilometri a nord di Tongzhou, un’area che fino a poco tempo fa poteva considerarsi parte di una campagna non tanto diversa per costi e abitudini di vita dai villaggi di provenienza degli operai migranti. Picun era quindi la zona ideale per insediarvi un progetto comunitario basato sull’autonomia e l’autogestione, ove chi vi risiede durante il giorno si reca in città per lavorare, ma poi la sera ritorna alla vita del villaggio, con i suoi riti collettivi, i concerti, i readings di poesia operaia… Ora però la capitale si sta ulteriormente espandendo e presto finirà per assorbire anche il quadrante nord-orientale in cui si trova Picun. Già tutt’intorno stanno aprendo numerosi cantieri, da cui sorgeranno nuovi grattacieli, shopping malls, uffici. Il costo della vita si alzerà e la comunità sarà costretta a sciogliersi o a sfollare. Al momento, siamo circondati…”.
Ecco che la bellezza del progetto rischia già di sfaldarsi sotto il peso della sua precarietà. “Beh – aggiungo io, cercando di mitigare il pessimismo che d’un tratto si è impossessato del mio interlocutore – non è ancora detta l’ultima parola. L’esperimento dura da quindici anni, sostenuto con grande tenacia da molte persone. Raccontami che aria hai respirato durante le riprese del tuo film, che cosa hai imparato, in definitiva, a Picun”. E con quest’ultimo quesito, mi accingo a chiudere l’intervista. Song Yi mi risponde tornando al punto da cui era partito, ossia al punto vuoto del pensiero, alle zone d’ombra che sfuggono alla nostra attenzione e che solo l’arte, forse, rischiara: “stando là, nel villaggio, mi si è aperta una nuova visione, ho cambiato prospettiva. Te lo spiegherò con una metafora: la Cina oggi è come un bellissimo paesaggio invernale, imbiancato dalla neve. La neve è così fitta che nasconde tutti i dettagli, attutisce tutti i rumori, per cui anche se ci siamo in mezzo, non scorgiamo quasi nulla di quel che succede sotto quel manto bianco. Pare che sia tutto uniforme, compatto, omogeneo. Tendiamo sempre a pensare che la gente che ci serve il caffè da Starbucks, che ci consegna la spesa a casa, che prende il nostro ordine al ristorante, o ci consegna l’acqua a domicilio, sia tutta uguale. Ma non è così, ognuno è un individuo a sé, un individuo pensante, con una sua storia… nel mio documentario volevo ‘spazzare via un po’ la neve’ per far emergere le differenze. Perché esistono, queste differenze”.
Mi viene in mente che anche la nostra stampa occidentale spesso presenta un’analoga immagine della Cina: un governo autoritario che come la neve copre una massa indifferenziata, anonima e totalmente non reattiva di milioni e milioni di persone. Sotto la neve, tuttavia, c’è vita.

A due settimane dall’intervista con Song Yi, una mattina, apro internet e leggo la seguente notizia: Fan Yusu, una migrante di 44 anni, nativa dello Hubei e al momento residente a Pechino, ha scritto una prosa autobiografica, “Io sono Fan Yusu”, che nell’arco di poche ore è divenuta il testo più letto in rete, con più di un milione di visualizzazioni su Weibo e migliaia di commenti. Fan Yusu ha frequentato il corso di poesia e scrittura creativa di Picun e tuttora fa parte del gruppo degli scrittori del villaggio. Sono abbastanza certa che entro qualche mese il suo nome scomparirà dalla scena, ma non importa: né a noi, né a lei (che in questi giorni sta rifiutando le interviste dei giornalisti) interessa il successo. Il punto invece – apparentemente banale, in realtà cruciale – è che Fan Yusu parla. Con buona pace di Gayatri Spivak e delle alte sfere dell’accademia americana e globale, intente a chiedersi “can the subaltern speak?”
L’eco che proviene da sotto la neve pare rispondere: “sì”.

*Fonte: rivista "Gli asini" anno VII n.41, luglio 2017