Morire per Gerusalemme

Mon, 11/12/2017 - 10:45
di
Piero Maestri

Di fronte ad ogni decisione, dichiarazione o ad un tweet di Donald Trump la tentazione è spesso quella di considerarli come una follia, un'uscita poco ragionata tipica del personaggio, una spacconata che può avere conseguenze gravi ma della quale il soggetto non sembra nemmeno accorgersi.
Naturalmente Donald Trump farebbe felice qualsiasi psicanalista potesse averlo come paziente, ma pare riduttivo pensare di leggere le sue dichiarazioni e/o decisioni principalmente sotto questa ottica.
La decisione di spostare la sede dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme è certamente una di quelle scelte che ha molti motivi e ragioni alle spalle, per la quale decisamente la follia o il carattere aggressivo narcisistico del presidente statunitense ha a che fare solo in minima parte.

Intanto è importante ricordare che la decisione di Trump è stata resa possibile da un atto del Congresso statunitense dell'ottobre 1995 (congresso a maggioranza repubblicana), in un momento di stallo dei negoziati di Oslo. Il congresso Usa con forte presenza neoconservatrice, con quella legge voleva fare pressioni sui palestinesi perché accettassero le condizioni israeliane nei negoziati. Quella decisione fu di fatto congelata dall'allora presidente Clinton e da quelli successivi (Bush e Obama), che volevano presentarsi come “arbitro corretto” tra le parti.
Ma sulla questione di Gerusalemme furono i negoziati di Camp David del 2000 a mostrare quanto quell'arbitro fosse invece di parte – sposando le tesi israeliane e la trappola che l'arrogante premier Barak aveva teso a Arafat. Dalla rottura di quei negoziati cominciò la seconda intifada.
Questo per dire che la decisione di Trump non è estemporanea, ma fa parte del dibattito statunitense e delle richieste delle varie lobby filo-israeliane degli Usa.

Ma perché questa decisione, e perché in questo periodo?
Naturalmente possiamo fare solamente delle ipotesi che ci aiutino a capire cosa sta succedendo e cosa potrebbe succedere in medioriente in seguito a questa decisione.
Nella decisione del presidente statunitense ci sono certamente motivi legati alla politica interna e alla sua popolarità come presidente.
In questo senso, più ancora che un messaggio rivolto alle varie lobby filo-israeliane e della destra religiosa fondamentalista – che sono comunque un elettorato “garantito” di Trump – è un messaggio più generale alla nazione su come intenda governare e come intenda il rapporto tra presidenza (lui stesso) e il resto delle istituzioni e poteri statunitensi.
È dall'inizio del mandato presidenziale (se non da prima) che Trump cerca di forzare la mano a magistratura, congresso e sistema dei media, provando ad affermare una modalità di governo basata sull'unilateralismo, sia in politica interna che estera, basato su un rapporto diretto con il “popolo” e sull'arroganza di un potere che vorrebbe essere incontrollato e incontrollabile. Questa è certamente anche una risposta alle indagini su vari capitoli (primo tra tutti quello legato alle interferenze russe nella propria campagna elettorale) che stanno toccando figure a lui legate, consiglieri politici e figure nominate a varie cariche vicine alla presidenza.
Si tratta di una sorta di risposta aggressiva tipo “potete minacciarmi quanto volete, ma io continuerò a governare e a farlo sulla base di quanto decido in prima persona”.

Tutto questo ovviamente ha dei limiti nel ruolo importante che il Pentagono da una parte e il partito repubblicano dall'altra hanno conquistato, superiori a quanto avrebbe voluto Trump una volta eletto.
Ma Trump ha anche portato a casa risultati per lui importanti, come per esempio il Muslim ban (approvato anche se in forma rivista) o la riforma delle tasse. In questo gioco di poteri e in questa volontà di Trump di non farsi mettere all'angolo prendono forma dichiarazioni e decisioni a volte fuori misura, ma certamente non così fuori dalla logica del personaggio e della sua presidenza.

Se allarghiamo lo sguardo agli aspetti internazionali – evidentemente la decisione su Gerusalemme ha principalmente conseguenze su questo piano – e alla possibile strategia di Trump, anche in questo caso non si può comprendere solamente con la categoria dell'avventurismo pericoloso e guerrafondaio. Che certamente ne è una componente, e i morti palestinesi di questi giorni dovrebbero poter pesare sulla sua coscienza criminale, ma non l'unica e forse nemmeno la principale.

Nell'attuale situazione mediorientale sembra stiano prendendo forma due schieramenti e reti di alleanze piuttosto delineate: da una parte Russia, Iran, governo siriano e dall'altra Arabia saudita, Israele e Stati uniti. In questa dinamica binaria, i governi dei paesi della regione sono chiamati a schierarsi o a condurre un equilibrismo non facile e non senza conseguenze. Questo vale per il governo egiziano del dittatore al Sisi, che riceve cospicui finanziamenti e armi da Usa e Arabia saudita, ma che non vuole perdere i suoi legami storici con la Russia e che simpatizza più per il regime di Assad che non per le variegate opposizioni.

Un altro soggetto che si trova parzialmente schiacciato in questa dinamica è il governo di Erdogan, oggi il più duro nel condannare la decisione di Trump su Gerusalemme e il quale ha aperto un canale diplomatico-strategico privilegiato nella regione con Russia e Iran, abbandonando il sostegno all'opposizione siriana in cambio del riconoscimento del proprio ruolo e della sicurezza dei suoi confini meridionali con la Siria (quindi contro i curdi del Pkk e del suo braccio siriano). Anche altri governi sono già entrati nel vortice di questo ridisegno dei poteri mediorientali, dal Qatar che viene osteggiato dai sauditi e si riavvicina all'Iran, al Libano uscito per il momento indenne dallo scontro sauditi-Iran (via hezbollah), all'Iraq, dominato da un governo filo-iraniano ma con una presenza statunitense ancora in vita. E ancora tocca i diversi soggetti curdi, da quelli in Siria – alleati degli Usa (che hanno impiantato basi militari nella regione curda della Siria) nella loro guerra a Isis, ma che guardano anche alla Russia per garantirsi uno spazio di autonomia nella Siria futura dominata da un redivivo Assad.
Per non parlare della popolazione yemenita, vittima di una guerra orribile condotta direttamente dai sauditi (appoggiati dagli Usa) e dall'Iran per procura...

In questo caos per nulla creativo, Trump pare aver scelto di forzare la mano della dinamica di contrapposizione, scegliendo – su un tema simbolico e sensibile soprattutto per le popolazioni musulmane – di mettere tutto il peso degli Usa nel sostegno a Israele e riportando al centro dell'attenzione politica internazionale e della regione la tematica del conflitto israelo-palestinese (così viene impropriamente definita la perdurante occupazione israeliana dei territori palestinesi), rispetto alla quale tutte le forze globali e regionali sono ora in qualche modo costrette a posizionarsi, e questo non è detto che vada alla fine a discapito delle politiche israeliane o statunitensi.
Naturalmente lasciamo da parte la questione dello scontato “isolamento” degli Usa all'Onu – che decisamente poco importa a Trump e con buone ragioni vista la totale inesistenza, inefficacia e inutilità di questa organizzazione internazionale – così come l'opposizione europea, altro soggetto che Trump nemmeno considera, anche in questo caso con ottime ragioni.

Al di là delle prese di posizione unanimemente contrarie alla scelta di Trump, le diverse potenze regionali e globali si trovano in qualche modo a dover “vedere” la mossa del presidente statunitense, ma le risposte non possono essere così scontate.
In primo luogo la Lega araba (l'organizzazione politica internazionale degli stati del Nord-Africa, del Corno d'Africa e del Medio Oriente) si trova incapace di una risposta forte e decisa, come vorrebbero le piazze arabe che da giorni manifestano la loro solidarietà ai “fratelli palestinesi”. Nella riunione del 9 dicembre questa organizzazione divisa e in conflitto interno permanente non è andata oltre la richiesta di una risoluzione Onu contro la decisione di Trump, e ad una dichiarazione, fatta dal “ministro degli esteri” palestinese Riad al Malki secondo il quale "… [noi palestinesi] cercheremo un nuovo mediatore tra i nostri fratelli arabi e la comunità internazionale, un mediatore che possa aiutare a raggiungere una soluzione con due Stati". Ovvero, il nulla.

D'altra parte è una posizione conseguente alla freddezza della condanna saudita alla decisione di Trump. Condanna espressa pubblicamente (“decisione irresponsabile”), mentre dietro le quinte il principe saudita Mohammed bin Salman (oggi capo del governo) sembra ancora lavorare per costringere i palestinesi ad accettare un piano “di pace” minimale, in sostanza poco più di un autogoverno dei territori ora abitati dai palestinesi. Senza alcuna capitale a Gerusalemme.
Una posizione che sarebbe perfettamente in linea con le scelte politiche regionali del principe della corona bin Salman, che spinge come Trump sul conflitto – politico, ma anche militare, come nello Yemen – con il ruolo regionale che l'Iran ha conquistato specialmente con la sua presenza diretta in Siria.

Più dura la condanna da parte di Erdogan, che sembra essere tornato il riferimento politico di molte piazze arabe (in moltissime manifestazioni, anche in Europa, molte sono le bandiere turche che sventolano accanto a quelle palestinesi). Erdogan da tempo ha aperto un confronto duro con gli Usa, soprattutto in seguito al tentato golpe dello scorso anno, alla sua forzatura autoritaria in politica interna e nell'accordo con Russia e Iran rispetto alla Siria.
Ma la Turchia rimane un paese della Nato e la sua opposizione alla decisione di Trump potrà forse aumentare la distanza tra i due paesi, senza per questo portare ad una rottura definitiva (anche perché la Turchia mantiene accordi politici ed economici con Israele – anche se sempre piuttosto tesi, e l'appoggio israeliano al referendum per l'indipendenza curda in Iraq non è stato proprio apprezzato da Erdogan).

L'Iran per il momento sta a guardare, ovviamente con i vari esponenti di governo che lanciano proclami durissimi sulla necessaria difesa di Gerusalemme. È certamente il governo che potrebbe maggiormente guadagnare, in termini di popolarità e di rispetto, dalla decisione di Trump, visto che da sempre si dichiara difensore dei diritti dei musulmani su Gerusalemme. Ma più di tanto non potrà intervenire, sia perché i palestinesi non sono ora così legati al regime sciita iraniano, sia perché deve consolidare la sua presenza in Siria e difendere Hezbollah dagli attacchi israeliani e dalle contestazioni che crescono in Libano sul suo ruolo di esercito settario interno ad un paese formalmente sovrano.

A nostro avviso la posizione più difficile però sarà quella di Vladimir Putin – tra l'altro chiamato qualche giorno fa dal presidente abu Mazen a “proteggere Gerusalemme e i suoi santuari islamici e cristiani che sono esposti a rischi" (ennesima dimostrazione del debole stato di salute politica e mentale del “presidente” palestinese).
Putin, che con la vittoria in Siria a suon di bombe e massacri ha conquistato un ruolo fondamentale nelle dinamiche mediorientali, cerca costantemente di presentarsi come forza di equilibrio e di “pacificazione” e non potrà andare molto oltre la condanna della decisione di Trump. L'amicizia e l'intesa politica, ma soprattutto gli affari economici e militari, tra la Russia di Putin e il governo Nethanyahu sono molto forti e non subiranno certo una battuta di arresto per Gerusalemme o i diritti dei palestinesi. La mossa di Trump darà nel breve periodo maggiore spazio di manovra diplomatica nella regione a Putin, ma alla fine dovrà anche lui trovare un accordo – con Israele e quindi con gli Usa – che comporterà sacrifici durissimi... per i palestinesi.

Per ultima la Cina, il cui governo ha anch'esso espresso la sua irritazione pubblica, e certamente Xi Jinping ha molti motivi per essere irritato. Il governo cinese insiste da tempo sulla necessità di una globalizzazione governata in forma multilaterale e senza strappi, attraverso accordi tra le varie potenze economiche e politiche. La decisione di Trump naturalmente viola questa modalità di governo delle questioni internazionali.
La spiegazione dell'irritazione la forniscono le parole di Li Guofu, ricercatore al China Institute of International Studies: “ Non è solamente perché i palestinesi protesteranno, anche in modo violento. Questa decisione [di ricollocare l'ambasciata Usa] non solo aumenterà i sentimenti anti-americani in Medio Oriente e rafforzerà l'estremismo islamico, ma potrebbe avere un impatto negativo rispetto all'impegno globale contro il terrorismo”.
Questo impegno e la stabilità regionale sono necessari alla Cina per portare avanti i suoi progetti infrastrutturali (in particolare la “Belt and road initiative”, cioè il progetto infrastrutturale conosciuto spesso come “nuova via della seta”) – in una regione sulla quale si affaccia anche Gibuti, dove si trova la prima base militare cinese fuori dal suo territorio.

D'altra parte la Cina vanta un'ottima relazione politica, economica e militare con Israele. Come si legge in un articolo del “South China Morning Post” (1) “Gli armamenti ed equipaggiamenti ad alta tecnologia acquistate da Israele, hanno aiutato lo sviluppo militare della Cina nelle recenti decadi, e Pechino ora è interessata a comprare da Israele stessa ulteriori tecnologie avanzate, in settori come quello agricolo e dell'energia pulita. Il commercio tra i due paesi è rapidamente cresciuto dall'inizio del secolo, raggiungendo 11.4 miliardi di dollari Usa nel 2015, dal 1,1 miliardo di dollari del 2000. La Cina ora è il terzo partner commerciale di Israele, dopo gli Usa e l'UE e il secondo luogo di esportazione israeliana.

Insomma, sembra di poter dire che nessun governo al mondo abbia intenzione di “morire per Gerusalemme”.

Purtroppo invece muoiono palestinesi, in seguito alla repressione israeliana delle manifestazioni di protesta in tutta la Cisgiordania e anche per i bombardamenti israeliani su Gaza.
E se la generosità, la determinazione, la volontà di resistenza delle/dei palestinesi è fortissima e si vede quotidianamente, la tragedia di questo popolo si vede anche al suo interno. Ed è la tragedia della mancanza di unità e strategia da parte dell'insieme del movimento palestinese e da parte delle singole forze politiche che lo compongono. In particolare questo vale per le forze maggioritarie, Hamas e Fatah – la prima ferma al suo inutile e dannoso “governo” della Striscia di Gaza, e la seconda incapace di elaborare qualsiasi strategia che vada oltre la retorica degli “accordi di pace”, della soluzione “a due stati”, alla perenne difesa del ruolo che gli viene riconosciuto internazionalmente come Autorità palestinese del nulla – cioè di corpo militare posto a tutela dello status quo voluto da Israele e Usa. Capiamo bene che anche la leadership di Fatah possa essere “irritata”, ma senza una profonda trasformazione delle dinamiche politiche interne questa irritazione non produrrà nulla- e la volontà delle giovani e dei giovani palestinesi ad una nuova Intifada sarà ancora una volta sacrificata sull'altare delle relazioni internazionali e della salvaguardia del ruolo della leadership interna.
D'altra parte una possibile successione a Abu Mazen potrebbe far cadere i palestinesi dalla padella alla brace, visti i nomi di Jibril Rajoub o Mohamed Dahlan, piccoli autocrati finora senza governo espressione dello scontro tra diverse forze all'interno della Lega araba e dei “sostenitori” dei palestinesi.

Le/i giovani palestinesi avevano provato a manifestare il loro disappunto, la loro disaffezione verso queste leadership inefficaci e disastrose, così come la loro richiesta di unità del movimento palestinese e di una strategia per la liberazione. Nel 2011/2012, sull'onda delle proteste negli altri paesi della regione araba, anche a Gaza e in Cisgiordania furono organizzate manifestazioni: nel primo caso furono direttamente represse dal “governo” di Hamas; in Cisgiordania furono invece distrutte dall'atteggiamento formalmente conciliante dell'Anp che però rese impossibili le manifestazioni stesse attraverso l'occupazione delle piazze.
Alle/ai giovani palestinesi non rimase altro che un ritorno ad un impegno quotidiano per la promozione della società civile e alla resistenza civile – e spesso a quella che venne definita “intifada dei coltelli”, forma estrema di rivolta contro l'asfissiante occupazione israeliana, in particolare a Gerusalemme.

Ecco, ritorna Gerusalemme. Per troppi qui in occidente è un simbolo essenzialmente religioso, e i movimenti islamici anche palestinesi purtroppo aiutano questa interpretazione. Ma per le donne e gli uomini di Palestina, Gerusalemme è prima di tutto il simbolo della loro nazione, della loro unità nazionale e allo stesso tempo della spoliazione del loro territorio. Perdere Gerusalemme sarebbe per i Palestinesi il segno equivocabile della loro definitiva sconfitta storica e del loro abbandono da parte di quella ignobile farsa che si autodefinisce “comunità internazionale”.
Anche per questo la solidarietà dal basso resta fondamentale per sostenere la resistenza palestinese e le/i palestinesi stesse/i nelle loro ragioni e nei loro sentimenti.

(1) http://www.scmp.com/news/hong-kong/community/article/2123202/why-china-s...