Lo stato francese si vendica della ZAD [Parte I]

Fri, 18/05/2018 - 21:04
di
John Jordan*

“Dobbiamo dare vita al mondo che vogliamo difendere. Queste fessure nelle quali le persone si ritrovano a costruire un futuro magnifico sono importanti. È in questo che la zad è un modello” Naomi Klein

“Ciò che sta succedendo a Notre-Dame-des-Landes illustra un conflitto che riguarda il mondo intero” Raoul Vaneigem

L’elicottero della polizia volteggia in alto, il suo sferragliamento simile a un rumore di ossa non sembra fermarsi mai. Di notte il suo lungo dito divino di luce penetra le nostre casette e fattorie. È stato difficilissimo dormire quest’ultima settimana. Persino sognare sembra un reato nella zad. E questo è il punto: questi 4.000 acri di territorio autonomi, questa zona da difendere (zad) è esistita per quasi un decennio nonostante lo stato e il capitalismo e nessun governo può permettere che un luogo simile prosperi. Tutti i territori che sono abitati da persone che coprono il vuoto tra sogno e azione devono essere schiacciati prima che la loro speranza cominci a diffondersi. È per questo che la maggior operazione di polizia della Francia dal Maggio 1968, a un costo di 400.000 euro al giorno, ha tentato di cacciarci con i suoi 2.500 gendarmi, veicoli blindati (APC), bulldozer, pallottole di gomma, droni, 200 telecamere e 11.000 lacrimogeni e granate stordenti sparati dall’inizio dell’operazione al 3:20 del mattino del 9 aprile.

Lo stato ha detto che questi sarebbero stati “sfratti mirati”, affermando che c’erano fino a 80 zadisti ‘radicali’ che sarebbero stati stanati e che il resto, gli zadisti ‘buoni’, avrebbe dovuto mettersi in regola o subire la stessa sorte. Lo zadista buono era una caricatura del mite ‘neo-coltivatore rurale’ che ritorna alla terra; il cattivo, un rivoluzionario ultra-violento, lì solo per creare guai. Naturalmente questa era una visione fantasiosa a sostegno della strategia principale dello stato: dividere questo movimento popolare diversificato che è riuscito a sconfiggere tre governi francesi diversi e a ottenere la maggior vittoria politica francese di una generazione.

La zad è stata inizialmente creata come protesta contro la costruzione di un nuovo aeroporto per la città di Nantes, dopo una lettera dei residenti distribuita durante un campo sul clima nel 2009, che invitava a occupare terre ed edifici: ‘perché’, scrivevano, ‘solo un territorio abitato può essere difeso’. Negli anni, tale territorio, destinato a un mega progetto infrastrutturale, è evoluto nel più vasto laboratorio europeo sulla condivisione. Prima che lo stato francese cominciasse ad abbattere le nostre case con i bulldozer, c’erano 70 diversi spazi abitabili e 300 abitanti insediati in questo paesaggio a scacchiera di boschi, campi e paludi. Sono sperimentati, ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, modi alternativi di vivere insieme, con le altre specie e con il mondo. Dal fare il nostro pane al gestire una stazione radio pirata, al piantare orti di erbe medicinali al produrre camembert ribelle, a una studio di registrazione rap a un laboratorio di produzione di pasta, una birreria artigianale, due forge da fabbro, un sistema comunitario di giustizia, una biblioteca e persino un faro a grandezza naturale funzionante, la zad è divenuta una nuova comune del ventunesimo secolo. Caotica e disorientante questa utopia meravigliosamente imperfetta di resistenza contro un aeroporto e il suo mondo è stata sostenuta da un movimento popolare radicalmente vario, unendo decine di migliaia di anarchici e coltivatori, sindacalisti e naturalisti, ambientalisti e studenti, locali e rivoluzionari di ogni genere. Ma tutto è cambiato il 17 gennaio 2018, quando il primo ministro francese è apparso in televisione a cancellare il progetto aeroportuale e, senza prendere fiato, a dire che la zad, la ‘zona fuorilegge’, sarebbe stata sfrattata e la legge e l’ordine sarebbero stati ristabiliti.

Comincio a scrivere a 8 giorni dall’attacco; è martedì 17 aprile, mi dice il mio diario, ma i giorni, le date, persino le ore del giorno sembrano fondersi in un bagno confuso di intensità carica di adrenalina, tanto difficile da cogliere con le parole. Siamo tanto stanchi, ammaccati e alcuni gravemente feriti. I medici hanno contato sinora 270 feriti. Molti dovuti all’impatto di pallottole di gomma, ma prevalentemente causate dal metallo aguzzo e dagli shrapnel di plastica scagliati dalle granate stordenti e a concussione le cui esplosioni interrompono la sinfonia primaverile del canto degli uccelli. Granate simili hanno ucciso il ventunenne attivista ecologista Remi Fraisse nel corso di proteste contro una diga agroindustriale nel 2014.

Il centro accoglienza e informazioni della zad, ancora dominato da una grande mappa dipinta a mano della zona, è stato trasformato in un ospedale da campo. Medici locali sono venuti, in solidarietà, a collaborare con gruppi di medici di pronto soccorso, agopuntori volontari e guaritori di ogni sorta e l’ambulanza dei compagni è parcheggiata all’esterno. La polizia ha persino ritardato l’uscita dalla zona delle ambulanze che trasportavano feriti e quando è la gendarmeria che evacua dall’area dimostranti gravemente feriti, a volte sono stati abbandonati in strada lontano dall’ospedale o, in un caso, di fronte a una clinica psichiatrica.

Le migliaia di atti di solidarietà sono state per noi un’ancora di salvezza: parcheggi del consolato francese sabotati a Monaco, pensionati locali che hanno portato barre di cioccolato, musicisti che hanno mandato le canzoni da loro composte, dimostrazioni di zapatisti nel Chiapas, striscioni davanti ad ambasciate francesi dovunque, da Delhi a New York, un gigantesco messaggio tracciato nella sabbia di una spiaggia della Nuova Zelanda e persino sommozzatori con uno striscione subacqueo. Qui nella zona sono arrivate tre cucine da campo attiviste per darci da mangiare, architetti hanno scritto un articolo firmato da 50.000 persone, deplorando la distruzione di forme uniche di habitat e residenti hanno offerto spazi per mettere al sicuro le nostre cose.

Nel corso degli anni è evoluta una vera cultura di resistenza parallelamente alla zad. Non molti sono psicologicamente o fisicamente preparati a battersi sulle barricate, ma migliaia sono pronti a dare supporto materiale in tutte le sue forme e questa è la base di ogni lotta che voglia vincere. Significa aprirsi a quelli che potrebbero essere differenti, quelli che potrebbero non avere le nostre stesse analisi rivoluzionarie, quelli che alcuni chiudono nella loro etichetta di ‘riformisti’, ma è questo che è la costruzione di una composizione, è come tessiamo una vera ecologia di resistenza. Come dice un cartello su una delle fattorie occupate, ‘Pas de barricadieres sans cusiniers’, “Non ci sono barricadiere (femmine) senza cucinieri (maschi)”.

Oggi è stato uno dei giorni più calmi dall’inizio dell’operazione ed è parso che la primavera stessa realmente fiorendo, così abbiamo aperto tutte le porte e finestre delle nostre case lasciando che l’aria primaverile scacciasse i fumi tossici dei lacrimogeni che ancora restano sui nostri abiti. Pare ci sia una momentanea quiete. Per la prima volta dalle cacciate il nostro collettivo ha mangiato tutto insieme, seduti al sole a una lunga tavola circondata da due dozzine di amici venuti da tutto il mondo a sostenerci. Sento il ronzio di un’ape in cerca di nettare e guardo su in cielo; non è affatto un’ape, ma il drone della polizia, venuto a filmarci condividere il cibo; gira sopra di noi per ore. Alla fine, questo è maggior crimine che abbiamo commesso nella zad, quello di costruire i beni comuni, di condividere mondi e di abbandonare la patologia dell’individualismo.

Due anni prima dell’abbandono del progetto dell’aeroporto il movimento ha dichiarato, in un testo intitolato ‘I sei punti per la zad: perché non ci sarà nessun aeroporto’, che attraverso un’entità che sarebbe emersa dal movimento ci saremmo presi collettivamente cura di queste terre che stavamo salvano da morte certa per cemento. Alcuni mesi prima dell’abbandono la forma assunta da tale entità è stata l’Assemblea degli Usi. Subito dopo la cancellazione dell’aeroporto abbiamo avviato negoziati con lo stato (attraverso il prefetto, Nicole Klein, che rappresenta lo stato nel dipartimento) dopo una complicata settimana di pre-negoziati durante i quali siamo stati costretti ad aprire una delle strade sulle quali erano costruite delle casette dopo i tentati sfratti del 2012. Pareva che il flusso del traffico attraverso la zona fosse il modo dello stato di dire al pubblico che la legge e l’ordine erano tornati nella zona (vedere il testo Zad Will Survive per una visione di questo complicato periodo).

Una delegazione unitaria di 11 persone, costituita da ONG, agricoltori, naturalisti e occupanti della zona ha partecipato ai negoziati e non ha desistito dalla richiesta di creare una struttura fondiaria collettiva legale, piuttosto che restituire queste terre alla proprietà privata e all’agroindustria, come al solito. Negli anni ’80 una struttura simile era stata posta in essere dopo la vittoria di un movimento di massa contro l’espansione di una base militare sull’altopiano del Larzac, nella Francia meridionale. Con in mente tale precedente abbiamo presentato un documento legalmente solido per un contratto fondiario globale, ma è stato ignorato; non è stata fornito alcun motivo legale; il rifiuto è stato interamente politico. Tre giorni dopo sono iniziati gli sfratti.

Il motivo dello scontro è stato reso chiaro; non si trattava di riportare ‘legge e ordine’ nella zona, ma di una battaglia tra la proprietà privata e quelli che condividono mondi di capitalismo contro i beni comuni. La battaglia della zad è una battaglia per il futuro; una battaglia che non possiamo perdere.

Giorno 1: lunedì 9 aprile – Tutto comincia al buio

Squilla il telefono; sono le 3:20 del mattino; fuori è ancora buio; una voce ansimante pronuncia due semplici parole: “È cominciato!” e riattacca. Tutti sanno che cosa fare; alcuni corrono agli uffici pieni di computer; altri alle barricate; alcuni alla radio pirata (Radio Klaxon, che capita occupi le frequenze della radio dell’autostrada Vinci,107,7, l’impresa di costruzioni che doveva costruire e gestire l’aeroporto); altri cominciano il loro turno da medici. Centinaia di furgoni della polizia si impossessano delle due principali strade che passano attraverso la zona.

Lo scontro in una delle stradine riesce a impedire che i poliziotti si muovano più a ovest. Ma altrove i bulldozer si fanno strada a forza attraverso alcune delle più belle casette fatte di mattoni d’argilla e degli scarti del mondo che spuntavano dal fango a est della zona; distruggono la Lama Sacrée, con la sua stupenda torre di legno; orti di permacultura e serre sono rasi al suolo e i bulldozer aprono squarci nel bosco. Un grande muro mobile antisommossa è eretto dalla polizia nella stradina che si estende da est a ovest, una tecnica che funziona nelle città ma che è inutile in rivolte rurali, e la gente trascorre l’intera mattina ad attaccare da ogni angolo. Nonostante i lacrimogeni e le granate stordenti teniamo il terreno. Ai giornalisti è impedito per un po’ di entrare; la polizia afferma che fornirà le proprie riprese (esenti da diritti d’autore!). Il “gruppo stampa” da loro indicazioni in modo che riescono ad attraversare i campi e le fotografie dominano le notizie del mattino.

Più di una dozzina di noi affronta uno schieramento di centinaia di robocop sull’altro lato del campo. Uno di noi, mascherato e con addosso un regolare kway nero, regge una mazza da golf. Si inginocchia e sistema un picchetto da golf nell’erba bagnata. Estrae una palla da golf da una borsa di supermercato e serenamente la sistema sul picchetto. Fa un lancio e la palla rimbalza dagli scudi antisommossa. Estrae un’altra palla e poi un’altra e un’altra ancora.

Nel pomeriggio i poliziotti e gli ufficiali giudiziari arrivano a 100 Noms, un piccolo appezzamento privo di elettricità con pecore, polli, fazzoletti di verdure, una bella abitazione comprendente una capanna costruita da un giovane architetto che assomiglia a un gigantesco elmo da cavaliere con piastre geodetiche d’acciaio. Agli occupanti, che hanno costruito questo luogo dal nulla nel corso di cinque anni, sono concessi dall’ufficiale giudiziario dieci minuti per andarsene. Diverse centinaia di persone si presentano a opporsi, molti dal “campo dei capelli bianchi” che ha riunito pensionati e anziani, che l’hanno chiamato il campo dei “giovani di tutte le età” e sono stati una delle spine dorsali di questa lunga lotta. Dobbiamo essere quasi 200 al 100 Noms, questa volta nessuno mascherato. Un grosso blocco di robocop sta salendo lungo il sentiero; alcuni di noi salgono sul tetto della nuova stalla delle pecore, altri formano una linea di corpi, pressati contro gli scudi antisommossa; siamo contadini e attivisti, occupanti e visitatori, giovani e anziani, e loro ci picchiano, ci ustionano la pelle con i loro spray al peperoncino e ci spingono via dai campi.

Rispondiamo con una gioiosa grandine di fango che copre i loro visori e i loro scudi. Quelli sul tetto sono tirati giù dagli specialisti scalatori e il bulldozer fa il suo lavoro. Alcuni minuti dopo una delle loro grandi macchine da demolizione rimane infangata; un amico grida ironicamente alla folla: “Dài, andiamo a dare una mano a tirarla fuori!”. Si avvicinano in centinaia, scie di gas attraversano il cielo azzurro, dozzine di candelotti piovono sulle paludi, molti cadendo negli stagni che cominciano a ribollire per il loro calore tossico. Cerco di consolare Manu, la cui casa, un’alta e stretta capanna con una parete da arrampicata sul lato, è stata appena rasa al suolo; i miei abbracci non riescono a fermare i suoi singhiozzi. I nostri occhi sono rossi di lacrime di dolore e di gas.

Nella logica dello stato il 100 Noms ha spuntato molte delle sue caselline immaginarie di quelli che necessitano di essere legalizzati, ‘i buoni zadisti’. Era una piccola tenuta ben funzionante, che produceva carne e verdure e dove le pecore erano più legali degli abitanti. Era un progetto che aveva il sostegno di molti dei residenti. La sua distruzione ha suscitato una scintilla che ha riportato nella resistenza molti del movimento che si erano sentiti recentemente un po’ più distanti dalla zad. Naturalmente non è meno disgustosa dell’abbattimento di tutte le altre case e capanne, ma la battaglia qui è sul terreno simbolico tanto quanto nel bocage e pare sia una cantonata strategica distruggere il 100 Noms.

I video dal vivo via Twitter dell’attacco sono visti da decine di migliaia di persone; la notizia degli sfratti si diffonde e un’onda d’urto percorre la Francia. Azioni cominciano a scoppiare in più di cento luoghi; alcuni municipi sono occupati; il grande ponte Millau a oltre 1.000 chilometri di distanza è bloccato, così come la fabbrica di armi che produce le granate nella Bretagna occidentale.

La demolizione prosegue sino a tardi, ma le barricate crescono più veloci, e noi contiamo i feriti.

Giorno 2: Martedì 10 aprile – Tra una barricata e un blindato

Tutto comincia prima del sorgere del sole; il sistema di comunicazioni della zona, con le sue centinaia di walkie-talkie e baracchini vecchio stile da camionisti e la stazione radio pirata ci chiamano ad andare a difendere il collettivo Vraie Rouge, che è vicino al più vasto progetto di coltivazione di verdure ed erbe medicinali della zad. Arriviamo attraverso i campi e troviamo uno dei blindati (APC) che spinto contro la barricata; sosteniamo la barricata tra noi e l’APC. Prepariamo bombe di vernice per cercare di coprire i finestrini dell’APC. Poi il gas lacrimogeno comincia a piovere tra le piante d’insalata e di spinaci. Un amico trova una giornalista terrorizzata riparata in uno dei capanni; scrive per il giornale di destra Figaro ed è un po’ fuori luogo con la sua borsa rossa. “Cos’è quel rumore?”, chiede, tremando. “Le granate stordenti”, risponde lui. “Ma perché non contrattaccate?”, dice lei. “Dove sono le vostre bocce coperte di lamette da barba?” Il nostro amico ride, nonostante il gas che gli avvelena i polmoni. “Non abbiamo mai avuto roba simile; è stata un’invenzione dei media di destra ed è comunque impossibile; nessuno può saldare lamette da barba su una boccia!”.

C’è tanto gas che non riusciamo più a vedere oltre i nostri dolenti nasi che colano. La polizia è premuta contemporaneamente dall’altro lato della strada da una vasta folla militante con maschere antigas, scudi improvvisati, fionde e racchette da tennis per rilanciare le granate. Giocano a guardie e ladri da dietro gli alberi. Il blindato comincia a spingere la barricata, alcuni di noi salgono sul tetto della casetta di legno a due piani, altri cercano di ritirarsi senza calpestare il bel campo di verdure. È finita; fine di un altro spazio abitabile nella zona. Poi sentiamo un ruggito dall’altro lato della barricata. Dozzine di figure emergono dal bosco; volano bottiglie molotov, una colpisce l’APC; fiamme salgono dalla corazza e il ruggito selvaggio si trasforma in un grido di pura gioia. L’APC comincia a ritirarsi, così come la polizia. Pare che il Vraie Rouge vivrà ancora un giorno, grazie alla diversità delle tattiche.

Nel 2012, quando riuscimmo a fermare i primi tentativi di cacciata dalla zona, fu questo a darci un vantaggio. Nei 50 anni di durata del movimento contro l’aeroporto, esso ha usato ogni cosa, dalle petizioni agli scioperi della fame, da cause legali a sabotaggi, da rivolte a inventari ecologici della zona, da case difensive sugli alberi a lanci di pietre, da blocchi mediante trattori a eserciti di clown. La sua arma segreta è stata il rispetto che abbiamo avuto per le tattiche di ciascuno e un’incredibile capacità di tentare di non condannarci a vicenda. Pensionati Pacifisti e black bloc hanno collaborato in un modo che non avevo mai visto prima, il che ha reso molto più complicata la criminalizzazione del movimento da parte del governo. I movimenti vincono quando hanno a disposizione la tavolozza più ricca di colori e sono pronti a usarli tutti nel momento e nel luogo giusti.

In un avvallamento boschivo a est della zona la Cheverie sta ancora resistendo. Una grande, alta casetta fatta di tipi diversi di argilla colorata a ghirigori – marroni, grigi, ocra e bianchi – punteggiata da mosaici e ragni scolpiti, costruita da centinaia di mani, sta per essere abbattuta. La circondano centinaia di gendarmi; pare che uno di loro abbia un mitra a tracolla. Dal tetto qualcuno usa un cono da traffico come un megafono: “Stiamo difendendo la vita e la casa”. Quando la casetta è alla fine abbattuta si verifica un piccolo miracolo: nessuna delle dozzine di finestre è rotta, il che renderà molto più facile ricostruire.

Alle Fosses Noires la birreria è stata trasformata in una mensa, ma il gas lacrimogeno ricade sulle pentole, i tegami e le pile di verdure donate. Dopo pranzo ha luogo una seconda conferenza stampa; ieri la prima aveva attirato dozzine di telecamere televisive e microfoni da radio di tutto il paese; otto persone di tutte le tendenze del movimento si sono presentate alle telecamere, la loro dignitosa rabbia era così potente, così palpabile, che molti di noi hanno versato lacrime nell’ascoltarle.

Oggi davanti alle telecamere ci sono trenta abitanti, quelli che hanno progetti agricoli e artigiani in corso nella zona; ci sono il conciatore e il casaro, il vasaio e l’ortolano, gli allevatori e i lavoratori del pellame. Spiegano come nel corso delle ultime settimane di negoziati con lo stato hanno consegnato documenti per sviluppare un progetto collettivo nell’ambito di un’associazione legale non a fini di lucro che era stata creata. Mostrano che in questo bocage pensare ecologicamente significa rendersi conto che tutti i progetti sono interdipendenti, ruotando i campi tra le persone, condividendo attrezzi e tutti collaborando ai progetti altri quando necessario. Dividere la zad in unità individuali separate non ha senso.

Ma le parole non sono tanto forti quanto la straordinaria immagine di Sarah, la nostra pastorella che, come una Madonna dei giorni nostri, tiene in grembo un agnello nero morto. Spiega che il suo gregge era già stato legalizzato e che questo era morto di stress quando era stato trasferito dalla fattoria 100 Noms per evitare gli sfratti. I suoi occhi grigi trafiggono le lenti della telecamera: “Hanno scelto la violenza, hanno scelto di distruggere ciò che abbiamo costruito, hanno scelto di abbandonare il dialogo con noi”. Whilem, un giovane contadino, il cui gregge da latte occupa campi a ovest, fa sentire la sua voce tremante: “Se non c’è un’agricoltura collettiva, allora si ha quello che già sta succedendo in campagna: individualismo, mangia la terra del suo vicino, sii sempre più solo con una fattoria sempre più grande”. Trae un profondo respiro: “L’isolamento sta spingendo contadini al suicidio; siamo sempre più soli nelle nostre fattorie ad affrontare crescenti difficoltà. Nella zad abbiamo una visione di coltivare per tutti, non solo per noi”.

La zad convoca un picnic di massa il giorno dopo. Vicent, uno dei contadini sostenitori della regione, membro di COPAIN 44, una rete di coltivatori ribelli i cui trattori sono divenuti uno degli strumenti di resistenza più iconici e utili, sospira: “Il governo ha spezzato ogni possibilità di dialogo a questo punto; ci ha costretto a reagire con una lotta per il potere”.

Tra gli alti pali che sostengono le piante da luppolo della birreria viene issato un grande striscione: “Nicole Klein [prefetto della Normandia – n.d.t.] mi ha radicalizzato”.

Giorno 3: Mercoledì 11 aprile – Gas su un picnic

Siamo svegliati, come al solito, dalle esplosioni delle granate della gendarmeria; lo scontro continua vicino alla strada D281. Un piccolo gruppo sta cercando di fermare lo schieramento della polizia in un campo; non siamo in molti, pare una situazione senza speranza; poi, emergendo dalla foschia del mattino, arriva un trattore; il suo autista indossa un passamontagna, nella pala anteriore una tonnellata di pietre. Le scarica in una pila proprio dove siamo schierati noi; fa retromarcia e scompare nella foschia.

Nel campo accanto un tizio gigantesco con un passamontagna e vestito da monaco getta un secchio d’acqua su un pugno di robocop: “Vi battezzo nel nome della zad”, urla. Una nuvola di spray al peperoncino lo avvolge, ma uno dei gendarmi scivola nel fango e lascia cadere il manganello; alla velocità della luce il monaco lo afferra e corre via, brandendo il suo cimelio ribelle nell’aria. Il megafono della polizia chiama: “Deve restituire la proprietà dello stato. La restituisca adesso!”.

A ora di pranzo più di un migliaio di persone si presenta a condividere un picnic nei campi. Sono arrivati più di trenta trattori, alcuni da molto lontano, nonostante il fatto che questa è una delle stagioni più impegnate per i contadini; circondano il grande campo collettivo di verdure Rouge et Noir, ora imbrattato di centinaia di candelotti tossici di plastica di lacrimogeni. “Lo stato ha superato il limite quando ha distrutto i 100 Noms”, dice uno di loro.

La folla di tutte le età attraversa le barricate e i ruderi della battaglia di ieri che ingombrano le stradine della campagna. L’atmosfera è festosa; un gruppo di samba con maschere rosa ci guida nei campi dietro la Lama Sacrée. Un lungo schieramento di poliziotti vestiti di nero si estende attraverso il verde pascolo primaverile. Il gruppo di samba si avvicina e poi si scatena l’inferno: piovono candelotti di lacrimogeni, dozzine di granate stordenti sono sparate sulla folla pacifica, segue il panico, la gente si ritira attraverso le siepi.

Le case di La Boite Noire, Dalle à Caca, Jesse James e La Gaité cadono a est. Contemporaneamente attaccano La Grée, la grande fattoria coperta da graffiti al centro della zona che ha una politica di accoglienza incondizionata. C’è un’officina meccanica, una parete da arrampicata e uno studio rap e molti in fuga dalla miseria della vita di strada e delle tossicodipendenze finiscono per vivere insieme là. I trattori dei contadini circondano l’edificio; viene dato fuoco a una barricata fatta di carcasse di automobili. Ma i lacrimogeni sono troppo forti e i trattori sono costretti a ritirarsi.

Spuntando dalla nebbia del gas arrivano goffi soldati neri; caricano attraverso i campi. L’intera zona è divisa in due da schieramenti apparentemente interminabili di robocop che si estendono da est a ovest. La folla è dispersa; le persone sputano fuori i polmoni, sono furiose. Era cominciato come un picnic; ora è di nuovo zona di guerra. Le nubi di gas si incollano al pascolo; mucche spaventate si accalcano in un angolo di un minuscolo campo. La postazione medica alle Fosses Noires deve spostarsi al Gourbi, ma poi il gas arriva anche là ed essa si sposta a La Rolandière appena in tempo, prima che la polizia arrivi ad abbattere uno dei siti più simbolici della zona, il Gourbi.

Proprio nel centro della zad, il Gourbi è dove si tengono l’assemblea settimanale degli occupanti e il Non-mercato del venerdì, un luogo dove la produzione in eccesso è distribuiti senza prezzi fissi ma solo con donazioni. Inizialmente c’era qui una fattoria di pietra, abitata a una vecchia coppia che era stata sfrattata nel 2012 e la loro casa distrutta per il progetto aeroportuale. Poi al suo posto è stata costruita un capanno di legno ma i lati pericolanti di pallet hanno dovuto presto essere ripristinati e così nel corso del 2015 è stato costruito un capanno a regola d’arte nuovo di zecca come spazio assembleare. Ma una notte qualcuno si è insinuato in questa magnifica sede di riunioni e le ha dato fuoco.

Ma il Gourbi doveva rinascere dalle ceneri e come risposta ironica alla consultazione locale del governo del 2016 riguardo al progetto dell’aeroporto abbiamo tenuto una festa di ricostruzione durata tutta la notte mentre arrivavano i risultati (55% a favore del nuovo aeroporto). Al suono sfrenato di una one man band alla fisarmonica che eseguiva interpretazioni kitsch dei Queen e di altre canzoni pop dozzinali, centinaia di persone hanno stipato l’argilla delle paludi in una grande cupola di metallo geodetica per costruire la nostra nuova sede delle tavole rotonde. Era fatta di acciaio e fango per resistere al fuoco, ma oggi il bulldozer l’ha abbattuta con un singolo colpo di pala. A mondi di distanza, nella metropoli, il ministro dell’interno, Gérard Collomb, dichiara al parlamento: “Vogliamo evitare ogni violenza in questo paese; è questo che stiamo facendo a Notre-Dame-des-Landes”.

Arrivati al tramonto, il governo afferma di aver sfrattato altri tredici spazi abitati, portando il totale a 29 da lunedì. Il primo ministro rifiuta di sospendere temporaneamente le operazioni e la squadra medica condivide orrende fotografie di alcuni dei 60 feriti da lunedì, tra cui tre giornalisti. Nel frattempo, i poliziotti comunicano le loro cifre: 32 feriti, ma la maggior parte risulta che sono causati dal cattivo uso delle loro stesse armi. Iniziative di solidarietà arrivano a migliaia, comprese occupazioni in Islanda, contadini in Libano e eco-costruttori in Colombia. A Parigi, operatici del sesso inviano bizzarre foto sadomaso a tema zad e studenti occupano in solidarietà la scuola di scienze sociali d’élite EHSS. Quel pomeriggio l’elettricità è tagliata in gran parte della zona e in molte delle case dei nostri vicini fuori dalla zad. A notte il gentile gracidio cullante delle rane in amore nelle marcite si confonde con il ronzio dei generatori elettrici di riserva. Quattrocento di noi si incontrano al Wardine; nella vecchia stalla in cemento per le mucche coperta da vivaci murali condividiamo racconti, i cani abbaiano, la rabbia si stempera.

Giorno 4: Giovedì 12 aprile – Sono pronti a uccidere?

La giornata comincia con buone notizie da Radio Klaxon. Un’iniziativa di un gruppo di affinità ha appena bloccato l’autostrada che passa vicino alla zad. Emergendo dai cespugli sono affluiti sull’asfalto armati di pneumatici, giacche fluorescenti e accendini. Nel giro di secondi una parete di fuoco ha bloccato il flusso dei pendolari a Nantes. Il gruppo è sparito velocemente quanto si era materializzato, confondendosi tra le siepi. Quanto più lottiamo per questa terra, tanto più diventiamo il bocage e tanto più difficile è trovarci. Ogni giorno convergono qui sempre più persone, molte per la prima volta in vita loro. L’arte della barricata continua in tutta la zona, compresa una con in cima una vecchia barca rossa. Alcune delle nostre barricate più utili sono mobili, sotto forma di trattori; dozzine di macchine dei COPAIN 44 bloccano i principali incroci della zona.

Dopo un tentativo di avvocati amici di dimostrare che lo sfratto dei 100 Noms era illegale, il prefetto è costretto a comparire in tribunale a Nantes, ma la causa è aggiornata. L’infaticabile gruppo stampa della zad diffonde un nuovo comunicato intitolato “Dopo 3 giorni di cacciate sono pronti a uccidere perché non vogliono un collettivo?” Gli scontri continuano nel bocage mentre Macron si presenta sugli schermi televisivi per una dichiarazione nazionale sulle sue politiche. Un movimento sociale sta sorgendo contro di lui, con occupazioni di università e supermarket, lavoratori delle ferrovie e di Air France in sciopero; deve reagire. La messinscena è bizzarra; siede in un’aula di una scuola elementare. Parla della zad per un po’ più di un minuto: “L’ordine repubblicano deve essere ripristinato”, afferma, e “Tutto ciò che doveva essere evacuato è già stato evacuato”.

Mentre lui parla, centocinquanta granate a concussione sono sparate in meno di mezz’ora sul campo Lama Sacrée; le esplosioni echeggiano attraverso il bocage, facendo scoppiare i timpani a quelli vicino e accrescendo di livelli di ansia di quelli a distanza d’udito, che nel piatto paesaggio della zad siamo tutti noi. La lega dei Diritti Umani chiede che tutte le parti tornino al tavolo. Un invito è trasmesso alle persone perché convergano nella Zona domenica: “È arrivato il momento di ritrovarci insieme, di dire che la zad deve vivere, di bendare le nostre ferite e ricostruire noi stessi”.

Ci dirigiamo a casa a La Rolandière, con la sua biblioteca a forma di nave adiacente al faro, costruita dove volevano costruire la torre di controllo dell’aeroporto. Il sole sta tramontando; a venti metri d’altezza, sul balcone del faro, una figura solitaria suona una tromba, magnifico jazz fluido aleggia attraverso il bosco. È uno di quei momenti nei quali ci si ricorda perché viviamo qui.

Questa notte, sotto un cielo fitto di costellazione, si riunisce l’Assemblea degli Usi. Sediamo su tribune di legno fatte a mano sotto Le Hangar de L’Avenir (Il Granaio del Futuro). Questo edificio in stile cattedrale è stato costruito da più di ottanta falegnami tradizionali nel 2016 usando prevalentemente attrezzi manuali; è ornato di serpenti e salamandre intagliati nelle travi di quercia. Siamo diverse centinaia all’assemblea; uno dei contadini il cui trattore sta bloccando gli incroci legge una serie di messaggi di testo che ha ricevuto dal prefetto, che sta cercando di negoziare con COPAIN 44. “Ieri il primo ministro ha detto che era guerra; oggi il presidente dice che è pace; perciò è tutto finito”. È chiaro che sta sentendo che la situazione è divenuta molto più complicata del previsto. Un accordo è raggiunto, spostate i vostri trattori, scrive il prefetto, e io prometto che entro le dieci di sera annuncerò a Ouest France, il giornale regionale, che è la fine delle operazioni dei gendarmi.

La riunione continua; aspettiamo che l’articolo compaia sul sito web del giornale. Ricarico il mio telefono incessantemente in attesa che il sito si aggiorni. Improvvisamente lo fa, ma è solo un articolo sulla leggenda del rock Johnny Halliday; era tutto un bluff? Poi arriva, mezz’ora in ritardo. Un evviva sale dalle voci stanche. A casa cerchiamo di fare un po’ festa; almeno potremmo dormire fino a tardi domattina; pare sia tutto finito per il momento?

Fonte articolo: https://comune-info.net/2018/05/la-vendetta-zad-parte-1/