L'invisibile martirio di Ghouta

Sun, 25/02/2018 - 19:05
di
Eugenio Dacrema*

Nell’agosto del 2015 il mondo pianse la morte efferata di Khaled al-Asaad, l’anziano eroico archeologo siriano che non volle abbandonare il sito archeologico di Palmira appena conquistato dall’Isis.

Solo pochi giorni prima della sua uccisione, nel mercato del villaggio di Douma, a nord-est di Damasco, alcuni missili lanciati dall’aviazione del regime di Bashar al-Assad uccidevano oltre 100 persone raccolte nella piazza per acquistare generi alimentari. La notizia nella maggior parte dei casi non arrivò nemmeno nelle pagine di fondo dei giornali, gli stessi che tra le notizie di testa pubblicavano le foto del corpo dell’anziano archeologo deturpato dall’Isis.

Quell’episodio fu metaforico della storia recente di Ghouta, l’area agricola a nord-est di Damasco di cui Douma è il cuore. Sotto assedio dal 2013, occupata prima dell’Esercito libero siriano e poi da fazioni sempre più estremiste, questo piccolo territorio ha subito in questi anni centinaia di offensive da terra e dal cielo e pianto la morte di migliaia di vittime, mentre anche di più sono coloro che sono fuggiti.

Solo nell’agosto del 2013 questa strage silenziosa raggiunse le prime pagine dei giornali, quando un bombardamento ad armi chimiche uccise in un solo tragico pomeriggio 1400 persone. In quell’occasione gli Stati Uniti di Barack Obama furono sul punto di attaccare il regime, un atto che avrebbe probabilmente fatto prendere al conflitto una piega assai diversa da quella di oggi anche se non necessariamente migliore. Ma allora Obama rinunciò in cambio di un accordo - mediato dalla Russia di Putin - per l’eliminazione dell’arsenale chimico di Damasco.

Ben presto, inoltre, versioni alternative sul bombardamento chimico cominciarono a spuntare. Tra chi diceva che non fosse mai avvenuto e chi diceva che i ribelli se l’erano fatto da soli, nemmeno l’apposita inchiesta delle Nazioni Unite - unica ad aver avuto accesso al luogo della strage, in cui esito confermò l’appartenenza degli armamenti utilizzati agli arsenali del regime - riuscì a riportare chiarezza in una vicenda ormai inquinata da mezze verità e complete bufale.

Oggi, mentre il mondo ancora una volta ritorna a spostare almeno un occhio sulla Siria per protestare contro l’invasione turca di Afrin ai danni dei curdi siriani del Ypg, Ghouta è sotto un assedio ancora più stringente da novembre. Nessun genere alimentare può accedere all’area da mesi e, da dicembre, si registrano le prime morti per inedia, soprattutto tra i soggetti più deboli come donne e bambini. Il regime, approfittando del disinteresse internazionale, ha rifiutato i ripetuti appelli delle Nazioni Unite per una sospensione temporanea del blocco o per l’evacuazione almeno di quei civili ormai ridotti in fin di vita da fame e malattie.

Ma Ghouta, nonostante tutto, ancora non cede. Nonostante le tante proteste contro i metodi quasi altrettanto repressivi dei gruppi armati che la controllano, la maggior parte dei civili sembra continuare a temere ancora di più il ritorno del regime. Una situazione che rischia solo di peggiorare nei prossimi mesi.

Tutto questo insieme di controversie, contraddizioni e sostanziale disinteresse internazionale fanno di Ghouta una metafora del conflitto civile siriano, che molti considerano ormai finito mentre migliaia di civili ancora muoiono di fame dopo cinque anni di assedio.

Una metafora che si rispecchia anche nelle origini: sia nell’evoluzione delle circostanze che hanno portato alla situazione attuale, sia in quel malessere delle regioni agricole come Ghouta - ai tempi di Hafez Assad spina dorsale del regime Baathista - diventate sotto il figlio Bashar le aree più impoverite e marginali del Paese.

È soprattutto in questi villaggi che la rivolta del 2011 prese piede sulla scia delle ribellioni in Tunisia e Egitto. O anche nei piccoli centri urbani come Daraa’, dove si ammassavano gli abitanti delle aree rurali dell’est fuggiti dalla desertificazione, aggravata dall’incuria del governo. Furono queste aree lontane dai grandi centri urbani che diventarono teatro delle repressioni più violente contro le prime manifestazioni pacifiche e della progressiva trasformazione armata della rivolta. Interventi esterni e radicalizzazione interna ben presto sostituirono ai primi gruppi armati “di protezione” - costituiti da abitanti locali e disertori dell’esercito regolare - milizie sempre più religiose e radicali.

Nel 2013 a Ghouta prese il potere Jeish al-Islam - Esercito dell’Islam -, milizia guidata da Zahran Alloush, il leader salafita la cui storia è emblematica delle dinamiche che hanno portato alla radicalizzazione dell’opposizione siriana. Il padre, emigrato decenni prima in Arabia Saudita, diventò nel regno un noto leader religioso radicale. Al figlio, diventato presto un leader salafita locale nella periferia damascena, aveva tramandato i rapporti privilegiati con le autorità saudite. Tali rapporti non l’avevano però salvato dall’ondata di arresti operata dal regime durante gli anni Duemila. Per anni, Alloush fu uno delle centinaia di attivisti radicali rinchiusi nella famigerata prigione di Seydnaya, salita alle cronache per le migliaia di casi di torture e morti misteriose avvenute al suo interno.

Ma la rivolta del 2011 cambiò radicalmente un destino che sembrava già segnato. Alloush, come centinaia d’altri, venne improvvisamente rilasciato nel 2011, nel pieno delle manifestazioni, nella chiara speranza che il ritorno di soggetti come lui nelle regioni di provenienza contribuisse a radicalizzare la rivolta e renderla meno “appetibile” per il sostegno internazionale. Alloush non deluse e, con l’aiuto dei suoi patroni sauditi, diventò presto il padrone incontrastato di Ghouta, reprimendo i leader civili e gli attivisti che fino a quel momento avevano guidato l’opposizione locale. Un regno interrotto repentinamente nella notte di Natale del 2015, quando venne ucciso da un raid russo.

Da allora divisioni e conflitti interni hanno portato alla spartizione del potere a Ghouta tra tre gruppi: Jeish al-Islam, Faylaq al-Rahman e piccole unità di Tahrir al-Sham, l’ultima incarnazione della formazione qaedista precedentemente conosciuta come Jabhat al-Nusra.

Secondo gli accordi stretti da Russia, Iran e Turchia ad Astana, Ghouta rientra nelle cosiddette zone di de-escalation, dove le operazioni militari dovrebbero essere sospese per fare spazio ad accordi locali di riconciliazione. Ma, come a Idlib, anche per Ghouta gli accordi di Astana sono sempre rimasti solo sulla carta.

L’assedio e le offensive non si sono mai interrotte e, anzi, hanno visto un drammatico inasprimento da novembre. Il regime non sembra infatti intenzionato a lasciare in piedi una sacca di resistenza così vicina alla sua capitale, dalla quale partono spesso i lanci di mortaio che ancora terrorizzano gli abitanti dei quartieri limitrofi. Un assedio spietato, approfittando anche del fatto che - al contrario di quanto succede nelle de-escalation area del sud garantite direttamente da Giordania e Stati Uniti - nessun attore di rilievo sembra intenzionato a fornire alcuna forma di garanzia o di copertura mediatica per Ghouta.

Nessuna de-escalation o riconciliazione, quindi, per i 300mila civili che ancora vivono in questo insieme di sobborghi rurali, dopo sette anni di missili, barrel bomb, attacchi chimici e pallottole da cecchino. Migliaia di persone a cui spesso il mondo ha negato perfino la dignità della morte, accusandoli di falsificare l’uccisione di 1400 dei loro civili o, peggio ancora, di essersela procurata da soli. Una attenzione distorta e avvelenata che forse fa sembrare il silenzio e il disinteresse attuali quasi un male minore, mentre fame, bombe e lotte interne alle fazioni al potere accompagnano gli abitanti, forse ancora per molti mesi, fino all’inevitabile resa finale.

*Fonte articolo: http://eastwest.eu/it/opinioni/open-doors/ghouta-guerra-siria