Laurent Binet: il maggio del '68 e la lotta che non è mai “perbene”

Mon, 28/05/2018 - 16:58
di
Laurent Binet*

Se c'è un rapporto di forza che è cambiato, è quello delle mentalità: cinquant'anni dopo il 1968, vediamo degli scioperi che non disturbano nessuno, delle manifestazioni familiari e delle petizioni su internet. Ma se la protesta vuole ottenere qualcosa, deve almeno fare un po' paura.

Alla fine, probabilmente non restano che delle cifre. Un tot di morti, un tot di milioni di molti, un certo numero di annate gloriose o meno, un tot di disoccupati, una certa crescita, tanti obiettivi, tanti grandi sbagli, etc. Le cifre, con la loro concisione, generalmente ci mostrano una meravigliosa eloquenza.

Quale sarebbe allora, la cifra del '68? In questo giorno, 25 maggio, anniversario dell'apertura dei negoziati che condussero agli accordi di Grenelle, possiamo proporre, senza rischio di sbagliare, 35. All'epoca non ci esprimevamo rispetto alle ore, ma parlavamo di salari. Al termine dei negoziati, i sindacati ottennero, tra le altre cose, questo: il 35% di aumento del salario minimo (lo smig, antenato del salario minimo, sul quale lo smag dei lavoratori agricoli – ritenuto fino a quel momento meno dispendioso, perché si poteva pescare nelle uova della fattoria e non si presupponeva quindi che si dovessero sostenere le stesse spese per i pasti – si sarebbe poi regalmente allineato).

Trentacinque per cento. D'aumento. Sarebbero stati in tanti, tra i dieci milioni di lavoratori in sciopero, a sentire che si trattava in realtà di una sconfitta, rifiutandosi quindi di riprendere il lavoro. (Di fatto, l'inflazione avrebbe presto ridotto questo guadagno a priori, ma questa è un'altra storia). Se trasponiamo l'accordo ai giorni d'oggi, misuriamo un cambiamento d'epoca abissale. Proviamo a immaginare, per un momento, che i movimenti sociali attuali riuscissero a ottenere un tale risultato. È facile: non possiamo. Non possiamo, certo, non perché sarebbe economicamente impossibile, come vorrebbero farci credere tutti quelli che ritengono perfettamente possibile, conveniente e persino desiderabile la moltiplicazione dei dividendi, come dei piccoli pani divisi in porzioni ineguali; ma perché due cose sono decisamente cambiate dagli ultimi 50 anni: i rapporti di forza e le mentalità (il primo derivante in parte dalle seconde).

Quando si arriva a manifestare il sabato nella speranza che i dipendenti del settore privato si uniscano al corteo, quando aspettiamo (o esigiamo, lasciando passare delle leggi se necessario, o trovando delle persone che le votino) uno sciopero che sia il meno fastidioso possibile, quando ci lasciamo andare a fare vili paragoni per discreditare chi si batte per qualche euro in più (cinque euro da APL o cinquanta, un'approssimazione del mille percento, che importanza hanno, finché parliamo di somme a meno di cinque cifre, non è vero?), quando i giornalisti, con tutti i tagli per i tempi televisivi, trattano da privilegiati persone che guadagnano dieci volte meno di loro, quando un banchiere d'affari, divenuto collateralmente anche presidente, spende la maggior parte della sua attività organizzando dei pranzi affinché persone molto ricche si incontrino per capire come arricchirsi ancora (la cui grande opera sarà la fusione-acquisizione della Nestlé con Pfizer: paga la tua eredità alla storia!), pensa di poter parlare di grandezza, o quando la distruzione di un Mc Donald (un Mc Donald!) viene considerata un crimine estremamente grave e pure, con slancio goliardico, un atto terrorista, allora sappiamo che non è esattamente un periodo favorevole al miglioramento delle sorti dei lavoratori.

I Black Blokc hanno colto perfettamente lo spirito del tempo quando, sul Mc Donald maledetto, con un tratto di ironia e chiaroveggenza geniale, hanno affisso un testo intitolato: “Alle famiglie delle vetrine”.
Black Block, SNCF: pietre che volano e un lungo sciopero. È non poco ironico constatare il discredito con cui si parla di queste due azioni nello stesso momento in cui si commemora ovunque i momenti di cui tali azioni sono le dirette ereditiere. Basta guardare le foto: in via Gay-Lussac ci fu un po' più che un Mc Donald saccheggiato. Dieci milioni di lavoratori in sciopero, avevano superato di un po' lo stadio dell'“utente preso in ostaggio”.

Oggi vogliamo delle manifestazioni familiari, vogliamo che gli scioperi non creino disagio a nessuno, vogliamo delle petizioni su internet. A rigore, ci va pure bene tollerare qualche hippie che staziona a Place de la République, finché si accontentano di giocare a backgammon, ma non quando, come sappiamo bene, finiscono poi per bruciare delle automobili. E per quanto riguarda gli schifosi della ZAD, è no e basta.

Vogliamo delle lotte perbene, ma la lotta non è mai perbene. Deve debordare, deve scivolare, scherzare e di solito finisce in un gran casino. È vero, ma è così che si avanza. L'uomo sociale ignora la retta via. Non conosce che la lotta. Gli azionisti, gli evasori fiscali, i contribuenti soggetti al fuoco dell'ISF non hanno mai dato prova di una grande solidarietà, di grande generosità, di grande preoccupazione per il bene pubblico. Voi potete aspettare per sempre che essi vi rendano la vita più facile. I soldi, potete aspettare che ve ne diano un po’. Potete aspettare che il vostro proprietario abbassi l'affitto. Potete aspettare che il vostro datore di lavoro vi dia un aumento. Potete aspettarvi una grande fortuna che paghi volontariamente per la costruzione di nuove strade, scuole e ospedali. Ma la storia ci ha insegnato che è meglio forzare un po' le cose.

I compagni che si occupano della promozione di Aurore Bergé, incaricati di fare il conteggio per la stampa (sub-appaltare l'informazione, ma che bell'idea!), affermano che non partecipa più nessuno alle manifestazioni. E anche quando siamo milioni, non è più la strada che governa, come aveva teorizzato Raffarin. No, in effetti. È la paura. Per far restituire una parte del malloppo, bisogna sempre fargli un po' paura.

Hanno avuto paura nel '68, De Gaulle a Baden-Baden, Ceyrac all'ospedale, Chirac che si vantava di essere andato armato all'appuntamento con Krasucki, Balladur che si vendicherà venticinque anni dopo sui pensionati del sessantotto.

O, il capitalismo ha paura di una sola cosa: di perdere soldi. Mettetelo nella situazione di perdere del capitale e diventerà come l'esasperante ripetizione di Harpagon: “La mia cassetta! La mia cassetta!”. Basta vedere come la prospettiva, o anche la semplice sensazione, non di perdere ma di guadagnare meno, fa gridare a squarciagola “il debito! Il debito!” per impedire allo stato di redistribuire un po' di regali ai raccogli-briciole che sono i disoccupati, i pensionati, gli occupati dal centro per l'impiego e altri lavoratori intermittenti (senza parlare dei legionari del male quali sono i funzionari pubblici).

Nel '68 la Francia non era paralizzata, al contrario: era animata da una crescita incredibile. Ma siccome i rappresentanti del padronato avevano acconsentito a delle concessioni finanziarie altrettanto incredibili (secondo gli standard attuali), la soglia di non redditività del capitale stava avvicinandosi pericolosamente. La molla fondamentale della lotta di classe è sempre un ricatto. Da un lato: lavorare di più per guadagnare meno, altrimenti delocalizziamo. E dall'altro: lasciaci un po' dei soldi che rubi a noi, altrimenti rischi di perdere molto di più.

Le strategie del '68 possono funzionare ancora oggi? Non lo so. Suppongo che dei metodi nuovi debbano essere inventati. In ogni caso, sono certo che bisogna interrompere la replica difensiva e passare all'attacco.

Trentacinque per cento. Se vogliamo veramente commemorare il maggio del '68, questo mi sembra essere un buon slogan. Per cominciare.

*Fonte articolo: http://www.liberation.fr/france/2018/05/24/le-25-mai-vu-par-laurent-bine...
Traduzione a cura di Redazione.