La primavera nera dei Burkinabé

Tue, 13/01/2015 - 18:23
di
L.I.Bergkamp

Da 27 lunghi, lunghissimi, anni Blaise Compaoré occupava la presidenza del Burkina Faso. Troppi per accettare una riforma costituzionale, un emendamento all’articolo 37 sul limite di mandato, che avrebbe permesso al presidente di candidarsi nuovamente nel 2015 e poi, forse, per altri due mandati, fino al 2030.

E’ iniziata così, il 28 ottobre, la rivolta a Ouagadougou e Bobo-Dioulasso, che per alcuni giorni ha riempito le pagine di politica estera per poi sparire nel nulla. Le notizie, provenienti soprattutto dalle testate keniote e dell’Unione Africana, sono rimaste sempre incerte e contraddittorie. Rivoluzione democratica, colpo di stato, golpe, nuova “primavera nera”. Ma cos’è successo allora in Burkina Faso e cosa sta succedendo ora, dopo che le luci dei riflettori internazionali si sono (volutamente) spente?

A ottobre 2014, pochi giorni prima che il Parlamento fosse chiamato ad approvare la riforma costituzionale, un milione di burkinabé ha invaso le strade e le piazze della capitale e delle città principali, alzando cartelli contro Compaoré, sradicandone le statue, rivendicando democrazia e gridando il nome del mai dimenticato presidente rivoluzionario Thomas Sankara. Tra i gruppi più attivi nella protesta c’erano giovani e studenti universitari, la maggioranza assoluta in un paese in cui il 70% della popolazione ha meno di 25 anni e l’età media si è da poco distaccata dai 15. La portata della mobilitazione, poi, ha dello straordinario per il Burkina Faso, che ha una popolazione complessiva di 17 milioni di abitanti (che scendono però a 12 se si considera che molti risiedono abitualmente negli stati limitrofi).

Per comprendere l’esplosione delle rivolte di ottobre, è necessario guardare indietro alla storia politica del capo di stato. Compaoré salì al potere il 15 ottobre 1987 con un golpe in cui uccise l’allora presidente Thomas Sankara, suo ex “amico” e compagno di partito, giustificando poi l’accaduto come un incidente. La presidenza di Compaoré continuò ad essere segnata dal sangue, con l’eliminazione dei leader rivoluzionari Henri Zongo e Boukary Lingani prima e quella non rivendicata ufficialmente del giornalista Norbert Zongo poi, colpevoli di “opposizione politica”. La violenza del presidente ha trovato da subito riscontro anche nell’intimidazione dei media, segnalata più volte da diverse organizzazioni internazionali. La presidenza di Blaise Compaoré, però, pur nell’evidente violazione dei diritti umani, non ha mai fatto scomodare troppo le presidenze euro-americane, che avevano trovato in lui un valido alleato nell’imposizione della dipendenza economica attraverso il debito e nella pacificazione forzata del paese, che ha permesso a diversi Stati esteri di sfruttare il Burkina Faso come base per operazioni militari nei Paesi sub-sahariani, prima tra tutte la Francia, da cui il Paese non ha mai effettivamente interrotto la dipendenza e subordinazione.

Sul debito internazionale soprattutto si è incentrato l’interesse delle potenze egemoni extra-africane, che hanno visto attuare una netta rottura con le proposte del predecessore Sankara. Le riforme economiche, giustificate alla popolazione come “rettifiche” nella rivoluzione, non hanno però fatto altro che affossare il paese, aumentando ulteriormente il livello di disoccupazione e l’emigrazione forzata e inasprendo la dipendenza dai prestiti internazionali per mantenere in funzione l’istruzione e la sanità (pur avendo un PIL pro-capite più alto rispetto ai paesi confinanti, il Burkina Faso rimane uno dei paesi più poveri al mondo e con la più alta percentuale di morti di AIDS per incapacità di affrontare i costi delle cure e della prevenzione al contagio).

Se Compaoré era riuscito finora a mantenere il potere ed assicurarsi le continue rielezioni attraverso la repressione e un regime colluso con la criminalità, la possibilità della sua rielezione per altri 5, forse 15 anni, ha permesso alla popolazione di superare la paura e scendere in piazza, esprimendo in modo a volte anche estremamente disorganizzato e violento il proprio dissenso. Nell’arco di quattro giorni, dal 28 al 31 ottobre, la popolazione ha appiccato fuoco al parlamento, alle case dei parlamentari filogovernativi e alla sede del partito al governo, sradicato statue, saccheggiato e devastato i simboli del potere. A nulla è valso il tentativo tardivo del presidente di chiedere una “Riconciliazione Nazionale”, così il 31 ottobre Compaoré si è dimesso ed è fuggito in Costa d’Avorio.

Le ore successive alle dimissioni del presidente sono state tesissime, con il tentativo degli apparati militari filo-governativi di prendere il potere con la forza. Dopo l’annuncio da parte dell’esercito della formazione di un governo militare di transizione di “almeno 12 mesi”, i burkinabé sono nuovamente scesi in piazza, assediando la sede dello Stato maggiore per chiedere le dimissioni del generale Honoré Traoré, vicino al presidente, che con un comunicato aveva annunciato che avrebbe preso le funzioni di capo di stato “in conformità alle disposizioni costituzionali”. Dopo violenti scontri, con un bilancio complessivo drammatico di 30 morti e più di 100 feriti, Traoré è stato allontanato ed è stato scelto come capo del governo di transizione il colonnello Yacouba Isaac Zida, della Guardia Presidenziale, in accordo con le alte sfere militari. Su pressione delle potenze europee e delle manifestazioni popolari, il 17 novembre il ruolo di Capo di Stato è stato affidato al diplomatico Michel Kafando, pur mantenendo Zida come Capo di Governo.

Da allora l’attenzione sul Burkina Faso è improvvisamente tornata nulla, ma nel Paese si sta giocando la partita più difficile. Dalle strade, che non si sono mai del tutto svuotate, continua ormai da mesi la pretesa di democrazia dal basso e di opposizione alle forze militari, sancita da slogan come “Non a la confiscation de notre victoire, vive le peuple” e “L’esprit de Sankara plane sur le Faso”. Anche il partito di opposizione, il Movimento del Popolo per il Progresso, chiama alla cautela e alla vigilanza, rivendicando con forza l’appartenenza al popolo di quella che hanno chiamato la “primavera nera”, chiedendo l’attenzione della comunità internazionale affinché venga rispettata la volontà popolare e vengano indette nuove elezioni democratiche. A livello internazionale però, come ben c’era da aspettarsi, l’unico interesse è sulle possibili riforme economiche, su cui il nuovo governo non è ancora chiamato a pronunciarsi.

Il governo (militare) di transizione, intanto, cerca di assicurarsi il consenso con promesse vaghe di democraticità e partecipazione e, soprattutto, attraverso la strumentalizzazione della figura di Sankara, sperando di far leva sulla sensibilità popolare: una delle prime misure prese dal nuovo governo, infatti, riguarda proprio la riapertura del caso sulla sua morte. Due piccioni con una fava, anzi tre, perché in questo modo si assicura l’appoggio della popolazione che non ha mai accettato l’omicidio del presidente rivoluzionario, assicurandosi anche che l’ex presidente Compaoré, colpevole in prima persona dell’omicidio, non possa portare avanti alcuna pretesa sul governo in futuro. Si assicura infine anche il supporto del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e dell’opinione pubblica internazionale, che proprio per il fallimento nell’investigazione sulla morte di Sankara avevano pesantemente condannato il presidente appena dimesso.

E’ ancora troppo presto per sapere se i tentativi populisti del governo filo-militare riusciranno a garantirgli il potere per un periodo di tempo sufficiente ad assicurarsi l’appoggio internazionale o se, invece, i burkinabé riusciranno ad imporre dal basso una transizione democratica. Di certo fanno ben sperare l’appoggio crescente al partito d’opposizione Mpp e al movimento popolare Le Balai Citoyen, che da più di un anno porta migliaia di persone in piazza, ricordando Sanakara muniti di scope per spazzare letteralmente via dal Paese la corruzione politica e l’imposizione dall’alto delle politiche sociali ed economiche.