L’Egitto di el-Sisi

Thu, 13/02/2014 - 12:05
di
Sameh Naguib, Rosemary Bechler, Rana Nessim

Pubblichiamo un’intervista con Sameh Naguib, importante esponente dei Socialisti rivoluzionari egiziani.

Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al generale, delle sfide che affrontano i partiti e i

movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir. Anche se condotta un mese fa (l’intervista è del 24

ottobre 2013), ci sembra ancora molto interessante visti gli ultimi episodi (manifestazioni contro l’esercito,

repressione che colpisce anche i settori democratici come il Movimento 6 aprile…)

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei

Socialisti Rivoluzionari in Egitto?

SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della

sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?

SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati,

come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti... Figure ben note

insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano

tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?

SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata

appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di

egiziani, è così?

SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che

tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo

subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la

protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?

SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste,

sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto

abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani,

sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?

SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non

solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che

continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?

SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli.

Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa

maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani

dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà

immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che

appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”.

La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti

della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della

Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere

le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in

due fazioni?

SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è

un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.

SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi

di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del

tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?

SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma

uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle

aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro

mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per

la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente

non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande

sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni

mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare

il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per

viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile

immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la

presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è

accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così?

SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui

loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser,

enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?

SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti

cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.

SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile.

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito

egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono

liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di

tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che

rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare

starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?

SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto

tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi

di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più

avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere

enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere

dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn

Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano

prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero

degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato

direttamente alla polizia.

Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente

nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo

del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte

la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e

dall’altro tra il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini

armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e

mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata

costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così?

SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato,

appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente.

Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse

il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo,

rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?

SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non

può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È

quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e

connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali

e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al

momento.

RB: Ci spieghi meglio.

SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito,

proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un

paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è

ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito

da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse

eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che

questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere

nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono

le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o

parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o

quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?

Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole

sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere

sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si

sa adesso?

SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati

i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che

nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14

agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La

verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?

SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti.

Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello.

Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti

per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei

morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.

Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente

controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a

Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono

state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono

lasciati massacrare... Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?

SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una

quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono

stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri

dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno?

SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente

che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo

gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi

direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia

uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole

avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale,

ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che

significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione

nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce

che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?

SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro

il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche

in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente

simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento

dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le

forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente.

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?

SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da

attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle

donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di

struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come

quelle di Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni

o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno

popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano

rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di

el-Sisi?

SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe

essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo

si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi

di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o

domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare... Se ne parlavi seduto

a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo

processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade

si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora

subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto

nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte,

incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste

rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?

SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché

pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno

le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la

rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta

che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo

voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo

da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso,

per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le

manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno

due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e

tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che

tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?

SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita

estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato

e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è

centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena

politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione

saudita.

RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?

SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto

anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?

SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle

pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante

unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non

riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai

Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare

un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete

intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti

subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti

da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.

Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non

c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare

un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate

di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana

adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse

assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un

movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre

lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante

il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non

si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel

punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita?

SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando

prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di

solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog

“Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di

razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel

trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?

SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di

un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in

Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani,

o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche

parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani,

siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e

portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?

SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi.

L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure... In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora

una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro

lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”.

Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una

protesta o a uno sciopero.... Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare

questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato

nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?

SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato

un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa.

Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato

tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con

i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera

e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la

situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe

APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il

favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente

Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità?

SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi.

Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti

interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…

SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di

fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini

di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può

diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti

che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di

uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E

questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un

miope settarismo.

Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i

salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza

con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada

e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa

dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si

perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure

sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

Rana Nessim: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di

ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che

neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?

SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e

che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse

una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento

d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution”

che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una

voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende

organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya),

che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali,

anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai

militari.

Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi

organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile,

vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i

processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che

renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare

ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo

pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di

smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro

che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è

organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.

Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di

sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa

costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola

proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo

peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché

non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno

votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi

si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che

adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta

invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine,

contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che,

infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il Fronte “Way of the Revolution”

sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro

proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle

piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non

vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo

pericoloso. Quindi cosa faranno?

SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario,

di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo

alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e

le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi,

legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo

manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento,

liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.

Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione

che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi.

Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti

Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà

sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono

essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei

nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla

Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre,

invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto

non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i

militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a

tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non

ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?

SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione

i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4

novembre. Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa

parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare

avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza,

a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa

cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il

momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro.

Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno

cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare

e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in

prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta

una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un

accordo.

Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo

in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti,

cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e

sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un

Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande

progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti

e non spariranno.

Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati

in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli

ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti

di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i

giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella

rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni

sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene

pienamente.

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e

poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente

sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando

se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?

SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo.

In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche

loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra.

Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che

succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e poliziotti schierati di fronte ad ogni

seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?

SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà

internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato,

la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti

internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a

vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci

che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir

è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto

piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza

trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato,

completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.

Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui

non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci

la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani

ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di

uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente,

verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i

membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.

La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che

rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti assieme

all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E

poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre, che ricorda il massacro di Mohamed

Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno

invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza

Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?

SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-
militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie

combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via”

eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.

In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta

simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora,

e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti... a chi appartengono questi

muri?

http://www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

Sugli autori

Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha

lasciato l’Egitto per studiare presso il King's College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una

volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.

Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy.

Sameh Naguib esponente del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.

Traduzione a cura di Viviana De Rosa.